Giuliano Compagno
In difesa di un progetto stracciato

Il caso Cauteruccio

Giancarlo Cauteruccio, uno degli artisti più significativi della sperimentazione teatrale degli ultimi decenni, è rimasto senza casa, perduta la memoria storica dei suoi spettacoli. Possibile che Firenze non abbia un luogo adatto alla sua ricerca?

La prima immagine di Teatri di Luce rompe il buio della pista deserta del Tenax, laddove all’inizio degli Ottanta la periferia nord-est di Firenze si era aperta alle emergenze musicali e artistiche. Ed ecco che subito s’intravede la sagoma di un magnifico adottato: si chiama Giancarlo Cauteruccio. Nel 1975 si era trasferito in Arno da Cosenza. Per studiare. Solo otto anni dopo la sua “Krypton”, giovane compagnia di ricerca teatrale, debuttava al Variety con una clamorosa versione di Eneide. Proprio dal Tenax comincia il racconto perché lì quel ragazzo si era affacciato, per un paio di sere, col desiderio di adocchiare dei guerrieri che gli fossero apparsi tanto epici quanto prossimi alla poetica neo-tecnologica.

Mentre Bernard Sumner e Peter Hook davano suono e ritmo ai loro New Order, dalla balconata del locale un paio di sguardi erano in cerca di corpi in movimento, da scritturare per un’impresa folle, compiuta la quale il gruppo si trasferirà al Teatro dell’Affratellamento per le prime prove. Da lì in via de’ Bardi sono dieci minuti di bus. Là era la cantina dei Litfiba. Giancarlo intendeva proporre a Renzulli, Maroccolo, Pelù e Aiazzi di comporre per lui un’opera rock. Quelli ci stanno e da lì ha origine un impossibile lavoro di immagini, di multivisioni e di laser. Il successo porta la compagnia in giro per tutti i teatri d’Italia fino a “La MaMa Theatre Club”, uno spazio Off-Broadway fondato nel 1961 da Ellen Stewart. A seguire l’Eneide rock saranno un pubblico entusiasta e un grande critico, Mel Gussow, che ne parlerà con attenzione sul New York Times.

“Eneide” di Krypton, edizione 2014

Questo esordio segnerà l’origine di uno studio inesausto nei campi della sperimentazione multimediale e dell’architettura di luce, di cui Cauteruccio si dimostrerà insuperato maestro. In quel medesimo decennio la cosiddetta nuova spettacolarità presentava, sulle scene nazionali, l’uso di linguaggi e di artifici assai diversi. Sono gli anni in cui, come scriverà il mai troppo compianto Maurizio Grande, «… tanto più teatro, tanto meno spettacolo potrebbe essere la parola d’ordine che accomuna autori, registi, attori e produttori più sensibili alla specificità estetica del linguaggio teatrale; linguaggio che si fa evento in scena, segno che si fa corpo, corpo che si fa scrittura».

Per circa 100 minuti (quanto contano i due video Teatri di Luce e Architetture di luce visibili su Youtube) Cauteruccio ripercorre velocemente 45 anni di attività artistica. E nemmeno riesce a esaurire la materia e il tempo del suo lavoro, tanto che ci attendiamo un terzo cahier de memoires beckettiano a esaurire la sua testimonianza. Che non si celebra ma che si rimpiange con una fierezza che gli fa davvero onore. Teatri di luce termina infatti con l’istantaneo, sfolgorante monologo di un artista vivo dinanzi a una poco persuasiva oasi di sopravvissuti e di miracolati del presente. Lo riascolto con la passione che ha animato la mia stessa esperienza, riconoscendo queste sue parole come le mie e le nostre: «A volte mi chiedo come sia accaduto che, dopo tutto questo vagare nella ricerca, nella possibilità di sperimentare nuove modalità creative, estetiche, tutto sia svanito. Per uno come me che ormai alla soglia dei 65 anni si ritrova spaesato. Si ritrova quasi immobilizzato. Si ritrova forse incompreso, specialmente in un periodo in cui le parole multimedialità, rete, tecnologia, sono entrate nella bocca di ogni teatrante. In questo vuoto beckettiano rimango in silenzio, vi ringrazio di aver seguito questo breve e veloce viaggio. Ringrazio davvero tutti gli attori, i tecnici, i musicisti, i pittori, gli scenografi, gli scrittori che hanno collaborato con me in questi anni e mi preparo a lasciare questo luogo che è il Tenax perché questo viaggio si ferma qui, per ora. Ma torneremo. Tornerò».

Scrivo questi miei appunti affinché il viaggio di Giancarlo Cauteruccio e dei suoi collaboratori riprenda al più presto. Riprenda senza infingimenti e senza ipocrisia. Riprenda nonostante quella politica culturale che a questo viaggio è parsa disinteressarsi come se ci fossero cose infinitamente più importanti a cui pensare. E non ve n’erano. Scrivo perché a questo cittadino onorario di Firenze venga reso quel medesimo riconoscimento che il pubblico gli ha tributato, senza un solo ripensamento, nel corso di quattro decenni di successi ininterrotti. E ad alcuna retorica, a tal fine, farò ricorso.

Piuttosto farò un faticoso esercizio di sintesi: Cauteruccio ha regalato al teatro italiano l’applicazione della tecnologia alle scene e alle arti, l’utilizzo di spazi virtuali, l’inserimento di scene in luoghi urbani e in spazi architettonici e artistici tali da valorizzarli nei contesti e nelle rappresentazioni della contemporaneità. A Cauteruccio si devono grandi opere di teatro musicale e regie liriche per Franco Battiato, Salvatore Sciarrino, Giusto Pio, Vittorio Montalti e Adriano Guarnieri. Sarebbe inoltre bello ricordare che suoi lavori hanno esaltato il pubblico di grandi festival europei come “Ars Electronica” a Linz, “Dokumenta” a Kassel, Oslo Festivalen” e Zagabria Festival, la rassegna del teatro italiano di Mosca… E perché non rubricare gli spettacoli firmati in questa sua inesausta andata dal linguaggio all’immagine, e ritorno? Ad esempio sulle tracce della tragedia e del pensiero antico, dalla Medea di Corrado Alvaro a Pithagora Iperboreo di Marco Palladini, dal Crash Troades (Troiane) fino alla magnifica direzione artistica del “Magna Graecia Teatro”; oppure nella poesia di Mario Luzi e nella parola letteraria di Bernard-Marie Kòltes (La Marche) e di Harold Pinter (Il Guardiano), in quelle di Nino Gennaro (La via del sexo) e di Giuseppe Manfridi (Arsa), di Dino Campana e di Lina Prosa (Nniriade), di Carlo Bordini (Pericolo) e di Roberto Mussapi (Antartide), di Arthur Clarke (I nove miliardi di nomi di Dio) e di Tahar Ben Jelloun (Partire).

Giancarlo Cauteruccio

Sin qui emergono le raffinatezze di un artista curioso, dopo di che parlerò dei suoi capolavori di regia, e nel farlo mi comincio a rivolgere  direttamente all’assessore Tommaso Sacchi, Presidente della Fondazione “Teatro della Toscana” (su delega del Sindaco Nardella), nonché a Marco Giorgetti e a Stefano Accorsi, rispettivamente Direttore Generale e Direttore Artistico della stessa Fondazione, una istituzione nazionale che rappresenta quattro realtà produttive e artistiche importantissime: tanto per introdurre ai lettori di cosa stiamo parlando, il Teatro della Pergola ha appena compiuto 354 anni, fu disegnato da Ferdinando Tacca (il padre, Maestro Pietro, era stato scultore principe di gusto barocco) sì da caratterizzare nel tempo a venire quel che verrà definito “teatro all’italiana”; il secondo spazio è quello del Teatro Niccolini, già “Teatro degli Infocati” fino al 1861, allorché prese il nome del drammaturgo pisano Giovanni Battista, appena deceduto. Per un buon ventennio il “Niccolini” fu il tempio di produzione e di rappresentazione della prosa fiorentina, dove lavoreranno, tra gli altri, Carlo Cecchi, Ingmar Bergman, il Living Theatre, Carmelo Bene e Vittorio Gassman; il terzo spazio è il pontederese “Teatro Era” da cui, grazie a Roberto Bacci, furono seguite le orme di una generazione che negli anni Settanta si ispirava a Julian Beck, a Judith Malina, a Eugenio Barba e a Jerzy Grotowski; infine il Teatro Studio di Scandicci, da qualche anno dedicato a Mila Pieralli, sindaca della stessa cittadina e politica assai amata.

Se ho riservato al Teatro Studio il privilegio di essere “ultimo non ultimo”, è perché conosco bene la sua storia. E ricordo i suoi fasti, non così lontani. Nel 2006 lo spazio di Scandicci dedica tre mesi della sua programmazione ai 100 anni di Samuel Beckett. Sarà un progetto di incredibile compiutezza: dieci spettacoli: (Krypton, Fondazione Pontedera Teatro, Remondi & Caporossi, Gogmagog, Egum Teatro, Compagnia Enzo Moscato, La Parole aux Mains, Shigeyama Kyogen Group, Teatrino Giullare, Giardini Pensilj e Teatro Stabile di Firenze), una rassegna video a cura di Luca Scarlini, un video-performance di Motus, un evento speciale con Franco Quadri, testimonianze di attori quali Billie Whitelaw, Giulia Lazzarini, Franca Valeri, Carlo Cecchi e Glauco Mauri, uno studio-danza di Virgilio Sieni, una ricerca attiva tra arti e teatro con una rivisitazione di Bruce Naüman e un’installazione di Augusto Petruzzi (che qui voglio ricordare con affetto), infine un convegno sul Novecento beckettiano con Keir Elam e Annamaria Cascetta tra gli altri. Il Teatro Studio fu, in quel momento, al centro di un mondo, fu lo spazio in cui si muovevano Beckett, le sue figure umane e i luoghi ove esse tacevano. A Scandicci.

Al decennale del Teatro Studio (1992-2002) era stata dedicata una pubblicazione monografica: «Sin dal primo giorno – ricorda Cauteruccio – avevo pensato che questo spazio avrebbe dovuto conquistare una coerenza progettuale, un pubblico consapevole e degli spettatori attivi». Gli faranno eco Sergio Givone («Nell’area fiorentina il teatro è tornato a essere quello che dev’essere il teatro: luogo di sperimentazione, urto, sfida ma anche festa, spettacolo») e Federico Tiezzi («Ogni città ha bisogno di un luogo per la poesia che, come il pane, ci è necessaria per vivere»).

Ma della qualità dei progetti, della scelta delle opere da mettere in scena e da ospitare, delle loro avventurose realizzazioni, dei nomi di artisti e di teatranti eccellenti, delle migliaia e migliaia di spettatori paganti, dell’encomio continuo di una critica di altissimo livello… di tutto questo, sino a oggi, importerà alle istituzioni meno di zero. Nel 2015 infatti (per Krypton sarebbe l’ultimo anno al Teatro Studio di Scandicci come compagnia residente) il Ministero dà un taglio feroce e insensato al suo contributo. Ne dà notizia nel mese di luglio: da 170 a 119 mila euro. Cauteruccio e Izzi, gli animatori di Krypton, che invece si aspettavano un aumento, restano allibiti. In quello stesso anno scadrebbe il bando con il Comune di Scandicci, occorre farne uno nuovo e il Comune mette a disposizione ancor meno risorse richiedendo alla compagnia di gestione maggiori impegni finanziari.

Dinanzi a una prospettiva totalmente incerta, Krypton decide di non partecipare; Cauteruccio è una persona seria e sa che, a quelle condizioni, non è più in grado né di garantire la qualità del suo progetto né di sostenere, allo stesso tempo, le uscite che il Comune di Scandicci pretenderebbe. Lo muove anche un’idea che gli appare, non soltanto logica ma anche conseguente alla sua esperienza. Per lui il 2015 è stato un anno importante: la ripresa di Eneide al Teatro Argentina e i Tre movimenti di Luce, ispirati a Dante, al Teatro dell’Opera di Firenze per il Maggio Musicale); sicché pensa che la Fondazione Teatro della Toscana sia la sola istituzione adeguata a partecipare al bando e a garantire al Teatro Studio di Scandicci una continuità artistica e progettuale; a un teatro noto in Italia e all’estero per la sua innovativa concezione delle produzioni, delle ospitalità e dei laboratori, quel teatro dove grazie a lui erano transitati i grandi della scena e i nuovi gruppi, e poi artisti, filosofi, poeti, musicisti, architetti, scrittori, critici, curatori, danzatori…

Con tante belle speranze si dà il via a riunioni con i vertici della Fondazione in cui si discute e si argomenta con una certa vaghezza; a ciò seguono trattative estenuanti, promesse… Si parla di una consulenza a Cauteruccio, di attuare una collaborazione attiva con la compagnia… Con tali prospettive vengono presentati bilanci, proposte vere, preventivi, carte documentate, eppure le risposte non arrivano mai e sempre vengono procrastinate al cda prossimo. Intanto la stampa contatta Cauteruccio per capirne di più ed egli mantiene un atteggiamento di rispetto per l’istituzione, giacché gli viene domandato di pazientare…

E pazientando il tempo trascorre; e nel marzo 2016 la compagnia abbandona il teatro; ed è costretta a distruggere scene, costumi, archivi, attrezzeria, materiali, uno strazio indescrivibile per tutti coloro che avevano sognato, immaginato, ideato e creato quell’inestimabile patrimonio artistico! Tutto al macero nel silenzio assordante delle istituzioni. Nemmeno era stata accettata l’offerta di pagare l’affitto di un ufficio, all’interno del teatro, dove conservare il lavoro di 23 anni, da cui potersi riorganizzare. Nulla. Dalla Fondazione non si ottiene nulla.

Gentile dottor Giorgetti, glielo chiedo con la considerazione che merita un dirigente del suo spessore: come è stato possibile uno scempio culturale di questa gravità?

Spettabile Fondazione Teatro della Toscana, cos’è accaduto perché venissero seppellite, come nulla fossero state, opere come il Trittico beckettiano (Premio alla Regia dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro: «Cauteruccio scava nelle pieghe dell’implacabile scrittura beckettiana, cavandone tuttavia risonanze di inusitata intensità e inquadrando questi squarci di sofferenza con una nitidezza spasmodica, e una partecipazione così forte da dare quasi disagio», da Renato Palazzi); come Ubu c’è (Candidato nella categoria spettacolo di innovazione agli “Olimpici del Teatro”: «I banchi sono pronti allora a fungere da galleggianti strumenti di fuga chiudendo uno spettacolo destinato a crescere nella memoria», da Franco Quadri); come L’ultimo nastro di Krapp («Che si tratti insomma precisamente di quello che tante volte mi è parso impossibile, ossia di una interpretazione scenica, di una ri-metaforizzazione del testo beckettiano? Direi proprio di sì», da Giovanni Raboni); come Il Guardiano («Nessuna differenza è ammessa: l’insofferenza e l’ambiguità si tramutano in violenza e razzismo. Krypton continua con questo lavoro la ricerca nella tradizione contemporanea con una bella prova degli attori, che scavano con caratterizzazioni penetranti le parole e i personaggi», da Massimo Marino); come Crash Troades euripidea («Cauteruccio ci dà un altro capolavoro, o almeno lo sfiora, laddove gli elementi sonori e visivi, di rara potenza e icasticità, superano di gran lunga l’elemento recitativo», da Franco Cordelli); come “OA”, opera in cinque mesi e in cinque atti sulle azioni teatrali che traggono la loro origine dal segno artistico (di Castellani, Kounellis, Cecchini, Volpi e Pirri)… Come è stato possibile trascurare il lascito di esperienze così importanti? 

In questi cinque anni di dolente illusione, la Fondazione ha concesso a Giancarlo Cauteruccio tre repliche al teatro studio del Trittico beckettiano, la regia di Prigionia di Alekos in scena al Niccolini dal 10 al 18 febbraio 2018 e un contributo per una performance al Tenax di Gabriele Lavia. Dopo di che, zero. Anzi, meno qualcosa, perché “Zoomfestival”, nel 2016 giunto alla sua decima edizione e incluso nel bando di gestione del Teatro Studio, verrà poi cancellato.

Presidente Sacchi, mi avvio alla conclusione dell’articolo più lungo della mia vita, scritto di mia iniziativa e senza sollecitazione alcuna, e nutro la fondata speranza che esso scuota la sua sensibilità artistica e quella acquisita fiorentinità che immagino albergare nel suo animo. Qui non si tratta nemmeno di valorizzare un artista del territorio, si tratta di riconoscere l’esistenza e il valore di un artista il quale, pur non vantando natali in Arno, ha donato per decenni alla città di Firenze un patrimonio teatrale, scenico, visionario e linguistico che non ha conosciuto eguali nell’ultimo mezzo secolo.

Presidente Sacchi, da queste righe le rimando con garbo l’onere bello di commutare un oblio senza ragioni e senza paragoni nell’orizzonte teatrale italiano in una memoria attiva. In un incarico vero, reale e dovuto a un protagonista assoluto del teatro e delle scene urbane che è stato ed è fiorentino. Il rispetto sincero che nutro per tutte le nostre istituzioni (e a maggior ragione per quelle che sbagliano ma infine ci ripensano), rileva del mio auspicio culturale affinché Firenze venga riunita a un artista che gli appartiene e che per tanti anni ancora saprà sentirla, muoverla, illuminarla, darle voce e silenzio, renderla ancor più sublime, perché nessuno di noi vive bene nel passato se non conosce il proprio presente.

E soprattutto perché il contrario non basta più.

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