Ettore Catalano
Viaggio nella Commedia/2

Dante e la superbia

L'incontro con Farinata degli Uberti e con Cavalcante dei Cavalcanti nel Canto X dell'Inferno rappresenta un momento sommamente politico della Commedia. Dove tra superbia e eresia si parla molto della Firenze dell'epoca

Non sembra che Dante abbia mai provato interesse per eresie capaci di attentare ai fondamenti della fede e della dottrina cristiana, ma, approfondendo la cultura francescana, Dante sicuramente ammirava il lavoro svolto da Francesco d’Assisi per ricondurre la Chiesa a una radicale povertà evangelica di contro alla corruzione di chierici e prelati e provava anche rispetto per la teoria gioachimita sul rinnovamento spirituale della Chiesa. Considerazioni che non implicano, però, cedimenti in termini di fede: mancano accenni nella sua opera, per esempio, al movimento dei catari e dei valdesi, ma tali circostanze non autorizzano fantasiose interpretazioni filo-ereticali, casomai segnalano come eretica la sola posizione epicurea nella quale, probabilmente, Dante includeva personaggi come Farinata degli Uberti, Federico II, il cardinale Ubaldini, che potevano essere tacciati di eresia “catara” per il loro modo complessivo di concepire la vita e non per puntuali riscontri di tipo religioso.

Facile comprendere la pena del contrappasso (la segretezza delle riunioni degli “eretici” e il rogo cui erano condannati), meno agevole risulta capire perché Dante non ripeta, per gli epicurei e la loro teoria della mortalità dell’anima, le posizioni ben altrimenti pesanti espresse nel Convivio (accentuate poi nel XXXII del Purgatorio). Procedendo oltre l’interpretazione “romantica” del Canto, dalle intuizioni foscoliane alla più argomentata costruzione critica desanctisiana, letture recenti sembrano porre maggiormente l’attenzione sulla pena sofferta da Farinata a motivo della sua magnanimità, perché “magnanimo” è l’epiteto con cui Dante indica Farinata, uomo politico di parte avversa ai guelfi. E le certosine ricerche di John Scott, ad esempio, ci portano a scoprire che “magnanimo” non è concetto necessariamente applicato, nella cultura medievale, alla grandezza morale e alla liberalità, ma il duplice significato di coraggio e di ambizione include anche quello dell’ira nelle sue manifestazioni giuste e ingiuste. Così l’eresia di Farinata si chiarirà anche come atto di superbia (e ricordo che già l’Ecclesiaste diceva che “initium omnis peccati est superbia”), sulla scia di Virgilio che definisce epicurei i seguaci di una eresia che negava l’immortalità dell’anima.

A dire il vero, questa era la convinzione medievale suggerita soprattutto da Cicerone, ma Dante (che nel Convivio non aveva presentato Epicuro come eretico, ma come filosofo) si muove nella prospettiva escatologica e religiosa del poema, sottolineando l’epicureismo come brutale materialismo, superba dimostrazione di punita arroganza, anche se il confronto con Farinata diventerà un acceso faccia a faccia politico senza esclusione di colpi, come accadeva, in quei tempi, a Firenze, prima tra guelfi e ghibellini e poi tra la fazione guelfa bianca e quella nera. Farinata chiede a Dante quale sia la sua parte, con un certo tono di superiorità sdegnosa cui Dante inizialmente non replica. Conosciuti gli Alighieri come guelfi e come fieri avversari, il capo ghibellino non perde l’occasione per celebrare le sue vittorie, la prima nel 1248 (con l’aiuto di Federico II) e la seconda nel 1260 dopo Montaperti.

Andrea del Castagno, Farinata degli Uberti

Il “rinfaccio” di Dante (risposta violenta e intonata sullo stesso registro dell’illustre interlocutore) è preciso e perfido nella conclusione: è vero che tu, Farinata, hai cacciato i guelfi da Firenze in due occasioni, ma i guelfi vi sono ritornati, in entrambe le occasioni (nel 1251, dopo la sconfitta a Figline e la morte del Re svevo, e nel 1266, dopo la battaglia di Benevento e la morte di Manfredi che segna la fine delle fortune ghibelline in Italia). Tuttavia, se i guelfi sono ritornati, gli Uberti, la famiglia di Farinata, non è stata capace di tanto, colpita da condanne ed esclusa sempre da ogni condono. La replica tagliente di Dante sembra colpire l’arroganza ghibellina e offre il destro per la grande invenzione poetica dell’altra “ombra”, quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido, colpevole di eresia e condannato alla medesima pena di Farinata. Tutto, qui, sembra costruito per fare emergere una qualità differente dell’ombra di Cavalcante: non è ritta, come quella di Farinata, ma inginocchiata soltanto, come se la sua superbia di eretico fosse smorzata dalla vera preoccupazione che lo ha mosso a intervenire: la sorte del figlio Guido, amico di Dante in giovinezza e poeta di grande forza.

A tormentare Cavalcante non è la taccia di eresia, ma la sofferenza del genitore che, stimando l’alto ingegno del figlio e considerando ora il protagonismo dell’amico poeta cui è stato concesso il privilegio del pellegrinaggio oltremondano, non vede Guido accanto a Dante e gliene chiede ragione: perché Guido non è con Dante visto che non gli era inferiore “per altezza d’ingegno”? Qui Cavalcante denuncia la misura umana della sua “superbia” eretica: i valori poetici di Guido e Dante, su quelli soltanto si concentra l’affranto genitore, non su quanto li divise, dopo un tratto di strada poetica percorsa insieme. La celebre risposta di Dante, che ha riconosciuto dalla pena e dalle parole il padre dell’amico, accenna a un disdegno di Guido nei confronti di Beatrice (possiamo leggere così un verso tormentato da numerose proposte esegetiche diverse). Tuttavia Dante, nella risposta a Cavalcante, usa un passato remoto “ebbe” per rendere definitiva la scelta differente dei due poeti: Cavalcante interpreterà invece quel passato remoto come sentenza di avvenuta morte del figlio, rafforzata dalla mancata risposta di Dante alla sua domanda sull’esistenza in vita di Guido.

L’equivoco nasce dal fatto che Dante è sorpreso dalla circostanza che Cavalcante non conosca la sorte del figlio, visto che i dannati conoscono e predicono l’avvenire (come gli ha dimostrato Ciacco) e Dante sa che al momento dell’inizio del suo viaggio, immaginato all’inizio della primavera del 1300, Guido è ancora vivo (morirà qualche mese dopo nello stesso 1300). È pur vero che quando Dante scrive quel verso Guido era morto da anni e per una decisione che in parte era avvenuta per causa sua (di Dante), sicché qualcuno pensa che con quel passato remoto Dante voglia anche testimoniare la morte reale dell’amico di un tempo: non scioglierei del tutto il dilemma, preferisco immaginare un Dante che in questo denso impasto di ingegno e di disdegno abbia voluto celebrare l’amico da cui aveva poi preso le distanze poetiche e politiche con un massimo di intensa partecipazione, pur nella ferma distinzione dei convincimenti e dei destini.

La forte ripresa “politica” del canto registra il ritorno in scena di Farinata (definito “magnanimo” al v. 73), che, a differenza di Cavalcante, non si piega alla sua sorte e si rifugia nell’altera sostanza soltanto “politica” del suo dolore. È qui, come si diceva prima, che viene fuori l’interpretazione medievale dell’essere “magnanimo”, la superbia che condanna Farinata alla sua pena e lo rende insensibile al dolore altrui. Dante lo ha colpito duramente dicendo che gli Uberti non sono stati mai capaci di tornare a Firenze e Farinata non vuole perdere terreno rispetto al rivale politico e perfidamente, dopo avergli detto che il vero tormento che la sua anima soffre è l’esilio senza ritorno della sua famiglia, profetizza (nell’arco di 50 mesi a venire) che presto Dante conoscerà quanto sia difficile tornare in patria dall’esilio. Qui Farinata si riferisce ai falliti tentativi dei Bianchi di tornare a Firenze e alla rottura di Dante nei loro confronti (giugno 1304). Poi, quasi a mitigare l’amarezza di quella oscura profezia e soprattutto per smorzare i toni polemici e condurre Dante a indicare le ragioni dell’atteggiamento intransigente dei fiorentini rispetto alla famiglia degli Uberti, Farinata gli augura di poter tornare nel mondo terreno e gli chiede la motivazione della fiorentina esecrazione verso il nome degli Uberti, sempre esclusi dai pubblici editti di condono. La risposta di Dante rivela il tormento di Farinata: la strage di Montaperti che rese rosse di sangue le acque del fiume Arbia ha sempre impedito ai fiorentini di dimenticare e di perdonare. Farinata replica con minore tracotanza: è vero, fui responsabile con altri di quel massacro, ma certo, quando nel consiglio di Empoli si decise di mettere a ferro e fuoco Firenze da parte dei capi ghibellini, io, da solo, mi opposi a tale disegno.

E qui Farinata vuole ancora una volta evidenziare la sua solitaria statura umana e chiudere così la parte “politica” del suo discorrere con Dante. Segue l’accorato augurio di Dante (“possano tornare in patria i tuoi discendenti”) e la richiesta di sciogliere l’equivoco che l’aveva portato a non replicare in modo immediato alla parola di Cavalcante: i dannati possono conoscere solo il futuro? Non hanno contezza del presente? E Farinata gli chiarisce che i dannati possono solo vedere le cose lontane nel tempo, ma via via che gli eventi si avvicinano, ne perdono coscienza e conoscenza. Compreso questo, Dante affida a Farinata il compito di avvertire Cavalcante che il figlio è ancora vivo e le sue esitazioni nel rispondere erano dovute non all’imbarazzo umano di comunicare a un padre la morte del figlio, ma al dubbio sul nesso presente-futuro che Farinata aveva appena risolto. Mentre ormai la ripresa del viaggio incalza, sottolineata dai richiami di Virgilio, Dante chiede ancora, questa volta senza tutte le cautele precedenti, quali anime dividano le sorti di Farinata e di Cavalcante. Il capo ghibellino si limita a dire che quel peccato è assai diffuso e cita solo due nomi: quello di Federico II e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, arcivescovo di Bologna, poi cardinale, morto nel 1275, quasi a sottolineare il fatto che l’eresia epicurea copriva, in qualche modo e misura, la stessa area della parte ghibellina. Qui Farinata decide di tacere e Dante incomincia tristemente a meditare sulle parole dure e ostili di Farinata che gli minacciano le sofferenze dell’esilio. Virgilio si accorge dello smarrimento di Dante e gli consiglia di ricordare tutto ciò che ha già sentito sul suo vicino esilio: sarà compito di Beatrice (in realtà toccherà a Cacciaguida) rivelare a Dante la storia futura della sua vita nell’ambito del suo significato provvidenziale.

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