Ettore Catalano
Viaggio nella Commedia/1

Dante e Francesca

Con il celebre V Canto dell'Inferno, quello della lussuria e di Paolo e Francesca, inizia una piccola guida alla lettura del capolavoro di Dante Alighieri, in occasione delle celebrazioni per i settecento anni dalla sua morte

Nel Canto V dell’Inferno, Dante, nel corso del suo primo incontro con le anime di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, svolge la parte di un coinvolto spettatore che gioca su interpretazioni che appaiono immedesimative ma sono controfattuali in modo  evidente: non nega il coinvolgimento personale come uomo e come poeta, vale a dire non toglie ai due dannati né l’umana com- miserazione per il castigo eterno in cui la loro incontrollata gestione dell’amore terreno li ha condotti né quell’umano senso di «complicità attuativa» in quanto produttore, in giovinezza, di versi che potevano suggerire atteggiamenti simili a quelli dei due cognati. E tuttavia, la mirabile unità del canto è tutta nel carattere storicamente perspicuo di quel dibattito d’amore in cui Andrea Cappellano (accortamente citato in modo parziale da Francesca) la fa da padrone sullo sfondo di una tenzone poetica che attraversa stilnovismi, citazioni guinizelliane, derivazioni cavalcantiane, suggestioni guittoniane, per approdare poi, a una decisiva caratterizzazione poetica propria di Dante. Nel secondo cerchio si punisce la lussuria, ma il cerchio costituisce il vero ingresso infernale e vi sta a guardia Minosse (richiamo virgiliano), da Dante trasformato in demonio bestiale e disumano. A tale demonio spetta il compito di esaminare le anime dei dannati condannandole al luogo opportuno per i peccati commessi: segue la descrizione «atmosferica» del cerchio dei lussuriosi, un luogo dove tutto è ricondotto, nell’assenza di luce, al sordo mugghiare del vento, quel vento tempestoso e tenebroso che segna la legge del contrappasso nel secondo cerchio, vale a dire quella «bufera» che traduce un tormento incessante, nel suo eterno ripetersi, la passione che ha travolto in vita i “peccator carnali”, coloro che hanno sottoposto la ragione all’istinto, degradando la loro umanità e rendendosi simili alle bestie.

È interessante notare che la collocazione dei lussuriosi (nel primo dei cerchi che accolgono chi pecca di incontinenza) contraddice, in Dante, e il pensiero di Aristotele e il pensiero cristiano (Paolo, Tommaso), anche perché il poeta fiorentino mostra di aver molto riflettuto e sui Moralia di Gregorio e sulle posizioni della cultura pagana (Cicerone) nella sua intuizione della lussuria come peccato minore, in quanto   relativo a una forma di desiderio naturale (ancorché non controllato dalla ragione).

William Dyce, “Paolo e Francesca”, 1837

Bisogna anche dire che il contrappasso immaginato da Dante per i lussuriosi non ripete certo alcune zone dell’immaginario infernale del Medioevo (con diavoli, zanne e tormenti inauditi) ma si limita a una «bufera» che riproduce l’impeto passionale in tonalità che potremmo anche definire accomodanti o almeno «purificate» o «ingentilite». Finora Dante si era solo confrontato con le anime del Limbo e con gli ignavi e aveva perciò potuto liberare sentimenti netti e definitivi come il disprezzo o la solidarietà, d’ora in avanti, quanto più si inoltrerà nelle profondità infernali, tanto più sarà la sua stessa umanità a essere posta in crisi e alla prova, e, nella sua coscienza si aprirà il conflitto tra la volontà progettuale redentrice e salvifica e la compromissoria debolezza delle passioni. Pochissime sono le notizie storiche davvero attendibili su Francesca (figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e moglie di Gianciotto Malatesta, signore di Rimini) e Paolo Malatesta, suo cognato: tutto il resto è leggenda «letteraria» elaborata a partire dall’autore dell’Ottimo Commento e amplificata da Boccaccio con elementi bretoni. Il colloquio con Francesca evidenzia il dibattito tra Dante finissimo interprete del costume erotico della società cortese e Francesca intellettuale di provincia, una lettrice che non produce poesia ma la consuma assolutizzandola. Virgilio chiarisce a Dante che per parlar loro dovrà nominare lo stesso peccato che qui scontano (l’amore) e Dante, eludendo in parte il consiglio della sua guida, li apostrofa invece «anime affannate», come se il poeta fiorentino e cristiano volesse rimarcare, davanti al poeta latino e pagano, la sua volontà di parlare con quegli spiriti non in nome del loro peccato-pena (l’amore adulterino che li ha macchiati di lussuria), ma in virtù di una «pietà» che nasce alla vista del loro tormento, in grazia di una comune radice umana compassionevole e forse perfino complice (come vedremo) non sul piano teologico e dottrinario, ma su quello della sollecitata tentazione erotica tramite l’exemplum della letteratura cortese.

Francesca richiama l’appartenenza sua e di Paolo alla schiera di coloro che morirono in modo tragico e si rivolge a Dante con una sapiente formula retorica nella quale l’assurdità della preghiera vale come dichiarazione del tono cortese e gentile che avrà il discorrere con lei di Dante. Francesca sa bene che l’uomo che le sta davanti non può non cogliere il crudele destino che il loro peccato ha meritato, eppure, col suo accorto parlare cerca di smuove almeno la pietà di quell’essere vivente. A questo punto Francesca indica, come fanno tante anime infernali, la sua terra d’origine, quella Ravenna medievale vicina al mare Adriatico nel quale il fiume Po sfocia nel suo vasto delta con i suoi affluenti. Francesca, come se fosse consapevole di trovarsi di fronte a un lette- rato di gran nome, sceglie un registro colto e alto per il suo racconto, citando Andrea Cappellano, Guido Guinizelli e perfino lo Stilnovismo dantesco, rivelando subito la sua intenzione di trasformare una vicenda privata in un evento capace di chiamare in causa tutto un sistema culturale (cui lo stesso Dante appartiene) che aveva sempre concepito l’amore come attrattiva dei sensi quasi sempre al di fuori del rapporto coniugale. Notiamo, però, che le parole di Francesca sembrano attestare la conoscenza dei primi due libri del trattato di Andrea Cappellano, quelli dedicati all’amore extraconiugale e non il terzo, nel quale vengono descritti gli aspetti negativi della lussuria, vale a dire l’incitamento all’omicidio e alla violenza. L’anafora (Amor, Amor, Amor) serve non solo a dichiarare le colte letture della moglie di Gianciotto Malatesta ma astutamente chiama in correità l’uditore-letterato, sottolineando la teoria cortese dell’identità tra cuore nobile e amore, l’impossibilità di non ricambiare l’amore per chi sia amato e infine la conseguenza tragica di tale premessa (l’uccisione dei due per mano di Gianciotto), come se tutta la sequenza, così costruita, ad altro non mirasse se non a scuotere, commuovere e coinvolgere l’ascoltatore, mostrando la narratrice di una storia d’amor cortese come la prima vittima di quella stessa passione.

L’abilità di Francesca è premiata: Dante avverte subito il significato di quel racconto e la chiamata in correità, si concede una pausa di sicuro effetto teatrale, sollecitando l’intervento di Virgilio, e poi entra in scena da gran protagonista, cogliendo in pieno il discorso di Francesca e sottolineando una vicenda di desideri e di sospiri su cui anche il poeta fiorentino aveva a lungo meditato e scritto. Dopo aver concesso a Francesca l’onore delle armi (la tristezza e la pietà richieste come condizione dello stesso dire di Dante), il poeta le chiede le circostanze che chiarirono ai due il reciproco amore, nel tempo in cui i «disiri» erano ancora «dubbiosi», incerti, non formulati con chiarezza. E allora Francesca prima cita un passo di Boezio, forse per compiacere il suo dotto interlocutore, poi gli rivela che il giorno in cui scoprirono il loro amore i due stavano leggendo, come si usava fare nelle corti del tempo, un romanzo francese cavalleresco, quello in cui Lancillotto bacia per la prima volta Ginevra, moglie di re Artù.

Gustave Dorè, “Paolo e Francesca”

I due erano soli e non avevano alcun timore o presentimento e fu la lettura stessa, giunta al suo culmine, a suscitare il bacio «fatale» tra i due e così il libro svolse, nella realtà, il medesimo ruolo ricoperto, nel romanzo, dal maniscalco Galehault. Paolo assunse l’iniziativa (mentre nel romanzo bretone la parte tocca a Ginevra) e il bacio segna lo scatenarsi di quella passione che li condurrà a morte per mano di Gianciotto. Notiamo che tutto il passo riproduce, con poetica intensità, il nascere di una passione, prima con le esitazioni e i dubbi, poi con quell’impallidire del viso che i testi sacri di Ovidio e di Andrea Cappellano descrivono con sapienza, infine con l’irrefrenabile moto che spinge a baciare la bocca dell’amante con la bruciante coscienza delle conseguenze di quell’atto.  Francesca chiude, accortamente, il suo dire con un’espressione di riserbo e di pudore (quel giorno non pensammo più a leggere) mentre Paolo testimonia col pianto quel senso di morte che quell’incantata storia racchiude.

Spinto da tali forti emozioni, ormai consapevole che tutta una cultura letteraria aveva preparato, sorretto e forse voluto quella passione e quella triste fine (la morte in terra e la morte dell’anima nella vita ultra- terrena), conscio forse della sua complicità, Dante suggella il lungo racconto lasciandosi coinvolgere fisicamente in uno svenimento, nel quale ogni eventuale rinvio letterario ai romanzi cortesi viene superato dalla coscienza della fragilità della condizione umana. L’amore di Francesca non può condurre l’uomo alla vera felicità. Questo Dante lo sapeva bene e lo aveva ripetutamente scritto già nel Convivio, ma il trattato non è la poesia e qui tutto assume un significato più diretto, coinvolgente, pragmatico. Anche il letterato Dante deve qui fare bene i suoi conti e allontanarsi dal suo modo giovanile di credere e far poesia sull’amore: la Commedia segna la lenta e graduale conquista di una inedita modalità di scrittura nella quale anche l’amore deve essere scandito in modo diverso e l’incontro «letteratissimo» con Francesca e Paolo non è che la prima tappa di quell’itinerarium mentis che trasformerà profondamente la poesia di  Dante. famiglie. Esiste un altro importante dettaglio: Dante, su modello del suo maestro Brunetto Latini, a metà degli anni Novanta, componeva le canzoni sulla nobilitas, aspramente combattendo i falsi nobili che non operano secondo virtù, ignorano i fondamenti della vera leggiadria e fanno dei loro comportamenti illeciti nel privato un vizio sociale che attentava a quella gentilezza che a Dante fiorentino appariva come la ricchezza autentica della sua città e insieme come l’impegno della sua attività di intellettuale e di poeta. Da qui deriverebbe un altro aspetto, diremmo sociologico, del complesso atteggiamento di Dante di fronte a una semplice storia d’amore e di morte: i due cognati avrebbero degradato gli stili di vita di una nobiltà feudale che o era già signora di Ravenna (i Polentani) o di lì a poco sarebbe diventata signora di Rimini (Malatesta). Un altro motivo per non credere alla immedesimazione emotiva di Dante (ipotesi cara alla critica romantica), che, in realtà, celava probabilmente un profondo e consapevole effetto controfattuale.


I saggi di questa serie rappresentano una rielaborazione per Succedeoggi dagli scritti di Ettore Catalano, illustre italianista e Professore onorario dell’Università del Salento, contenuti nel libro «Strategie di scrittura nella letteratura italiana», Progedit, Bari 2013.

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