Danilo Maestosi
Ai Mercati di Traiano di Roma

Cesare e Napoleone

Una mostra piena di luci e ombre ripercorre il sogno romano di Napoleone che inseguì il mito dell'impero e della città eterna senza realmente riuscire a comprenderlo. Identificandosi in Giulio Cesare, immaginò un nuovo disegno dell'Urbe

Napoleone e il mito di Roma. Il titolo può generare aspettative da kolossal. E invece no, non è una grande mostra quella che si è appena inaugurata e terrà scena fino al trenta maggio ai Mercati di Traiano. Un centinaio di cimeli distribuiti su due piani con un po’ di pignoleria didascalica e non tutti all’altezza del personaggio, del tema e del dichiarato intento celebrativo del bicentenario della morte di Napoleone nella prigione di Sant’Elena. Ma qualche vistosa lacuna proprio nell’illustrare i progetti urbanistici con cui l’Imperatore voleva ridisegnare il volto della città, che considerava la seconda capitale del suo Regno. Progetti che divennero, nel bene e nel male, punti di riferimento e d’impulso per tutti i successivi interventi di risistemazione dell’area archeologica centrale. Anche se uno solo riuscì a tagliare fuori tempo massimo, con le modifiche e il sigillo inaugurale del papa Pio VII tornato a governare Roma: quello dell’isolamento della colonna Traiana e dello scavo della Basilica Ulpia, al quale il museo che ospita questa rivisitazione, per valorizzare e sfruttare la sua ambientazione nel cuore dei Fori, riserva un’intera sezione.

Due però le esperienze che riscattano e rendono a suo modo imperdibile questa mostra. La possibilità di tornare ad ammirare, dopo il lungo ingiustificato embargo imposto dal Covid, i tesori dei Mercati di Traiano e l’incanto del panorama unico che si gode dalle sue balconate. E la presenza di una serie di chicche sgranate a stimolare la fantasia e a deviarne il percorso verso un versante narrativo meno paludato, sicuramente più ammiccante, probabilmente anche più fedele: quello del sogno.

Creatura che genera sogni lo stesso Napoleone. E non è solo la stima e lo stupore per il suo folgorante passaggio sul palcoscenico che trasuda dai versi indimenticabili del Manzoni e di altri poeti dell’epoca. Ma una condivisione popolare che lo trasforma in un supereroe da fumetto. Ecco in una vetrina due vignette di una biografia firmata da Job, un illustratore francese fine Ottocento: in una il soldato che si è trasformato in monarca è ritratto mentre sguazza da pupo in un tappeto di giocattoli che profetizzano le sue straordinarie missioni di condottiero, nell’altra veleggia colla sua inconfondibile divisa da generale scrutando come il capitano di un vascello fantasma le nubi dell’isola di Sant’Elena. Ed eccolo in un quadro coevo, lì a fianco, immortalato dal pittore Horace Vernet come uno zombie, mentre risorge, tricorno in capo, sguardo d’aquila, abiti neanche un po’ sgualciti da Imperatore, un ramo d’ulivo nel pugno a promettere pace.

Ad aggiungere sfumature oniriche alla fama di corte e di battaglia contribuì, è evidente, anche la piaggeria e l’adulazione dei suoi contemporanei. Esemplare la grottesca vicenda per trovargli un santo in calendario e dedicargli un degno onomastico che il suo buffo cognome corso, sembrava negargli. San Napoleone, perché no?: ci fu – racconta una didascalia in mostra – anche un alto ecclesiastico parigino che con grande diplomazia, per azzittire ogni polemica, ripescò nella palude dei martiri ignoti dell’Impero pagano un nome che ricordava il suo.

Quanto ai rapporti di Napoleone con Roma, richiamati nel titolo, non hanno forse anch’essi i contorni sfumati di una meta da sogno, mai davvero raggiunta? Visto che in città Bonaparte non riuscì mai ad entrare per prendere diretto possesso della reggia che si era preparato, sloggiando il papa dal Quirinale. E che il dominio francese durò appena cinque anni: dal 1809 al 1814.

Unica, certo, la sua capacità di partorire fantasie dalle proprie smisurate ambizioni e trasformare il suo stesso corpo, goffo e sempre più  panciuto,  il suo volto rotondo e qualunque, in una maschera cangiante, che adottava come proprie le icone dei suoi idoli e a quelle sembianze rubate imponeva agli agiografi forzate somiglianze. A partire dalla posa da antico tribuno del popolo di quella aggraziata statua, qui esposta, con cui si fece ritrarre quando era ancora cadetto d’Accademia, ma già pronto a fare, sull’onda lunga della rivoluzione, il balzo in avanti di una inarrestabile ascesa. Prima come triumviro, poi come primo console, poi come console a vita e infine farsi consegnare a furor di popolo lo scettro di imperatore.

Un percorso da Fregoli costellato da continui cambi di costumi, di identità, di biografie rubate e riplasmate a proprio consumo dai sogni di grandeur di Napoleone. Da Alessandro Magno, di cui dopo la spedizione in Egitto avrebbe voluto senza riuscirci seguire le orme fino a Babilonia e poi all’India, ad Annibale di cui prese ad esempio mosse e strategie diversive nella sua prima discesa in Italia.

La figurina preferita per restare, invece, qui a Roma? Sicuramente quella di Cesare, l’artefice del trapasso dalla repubblica all’impero, il conquistatore delle Gallie, di cui commissionò per il suo appartamento al Quirinale, dove è ancor oggi esposto, un quadro al pittore Pacetti che lo immortala mentre detta il commentario delle sue imprese, il volto, non a caso forse, ringiovanito per ridestare l’eco di una sia pur vaga rassomiglianza.

Sulla carta avrebbe dovuto preferire seguendo il suo istinto di primattore Augusto. Ma perché imparentarsi idealmente – notano gli stessi curatori della mostra – con la fama di un imperatore così poco legata alla guerra? L’altra sua grande pietra di paragone fu Traiano, l’imperatore soldato che domò la rivolta dei Daci e fece incidere la memoria delle sue imprese in una colonna di rocchi di marmo. Già la Colonna Traiana. È il capitolo su cui la mostra si sofferma più a lungo. Un modello di gloria personale esaltata dal sublime dell’arte che in Francia faceva tendenza dal tempo del Re Sole e che Napoleone al culmine del suo successo risfoderò per innalzare un monumento analogo nel cuore di Parigi, a ricordo della vittoria di Austerlitz. Senza dimenticare di ridare nuova vita all’originale con un progetto per fargli spazio nell’agglomerato rinascimentale che gli era sorto attorno, affidato a due architetti di alto rango, Valadier e Camporese. Il Piano, illustrato in mostra da tre disegni originali prestati dall’Accademia di San Luca, prevedeva di isolare la Colonna Traiana, creandole attorno una sorta di mini anfiteatro dopo l’abbattimento del Conservatorio di Sant’Eufemia, asilo di giovani madri senza marito ribattezzate «Zitelle sparse» e di un altro edificio. Gli scavi portando alla luce i resti della Basilica Ulpia e alcune statue di Daci che ne adornavano i portici obbligarono ad una drastica e meno immaginifica revisione, che il papa Pio VII, tornato in sella con la definitiva rinuncia di Napoleone a Roma come capitale del Regno d’Italia, affidò a Pietro Bianchi. Confermando comunque il sacrificio dell’ospizio di S. Eufemia: lo sgomento delle suore per la demolizione è evocato in un quadro di lacrime e sospiri che è tra i cimeli più gustosi con cui ci congeda questa rivisitazione. Per capire quale traccia profonda abbia lasciato questa incompiuta impresa archeologica voluta da Napoleone non resta che affacciarsi dalle terrazze dei Mercati Traianei che dominano la spianata dei Fori. Tutte le successive sistemazioni nascono da quei primi colpi di piccone guidati dai funzionari francesi. Una grandezza di visioni e d’impegno di cui da anni i custodi dell’area archeologica centrale hanno smarrito la lezione.

Ma l’eredità che Napoleone ha lasciato va ben oltre. E meritava più attenzione, più documentazione e più spazio. Tra i suoi sogni urbanistici c’era anche la cura del verde, con cui pensava di migliorare l’aspetto e la qualità della vita di Roma. La mostra si limita ad evocarla, con taglio un po’ sciovinista rispolverando un colloquio tra Napoleone e Canova, improbabile come una fakenew. L’Imperatore che si vanta: riempiremo Roma di alberi. Poi guarda il suo interlocutore come a sfidarlo. E voi? E lo scultore che replica sprezzante: «Noi abbiamo piantato obelischi».

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