Raoul Precht
Periscopio (globale)

Sciascia e Stendhal

Nell'elogio di Stendhal fatto da Sciascia lungo tutto il corso della sua vita c'è la passione per uno scrittore che mescolava narrativa e saggistica, spesso anche “inventando” quel che voleva far credere vero...

In occasione del centenario della nascita, avvenuta a Racalmuto l’8 gennaio 1921, di Leonardo Sciascia si è scritto un po’ di tutto, con particolare riferimento non solo alla sua opera, ma anche alla sua passione civile e politica. Come sempre, si è molto insistito sui concetti di mafia e antimafia (nonché su quello di “professionisti dell’antimafia” coniato a suo tempo polemicamente dallo stesso Sciascia), concetti che sono però ben lungi dall’esaurirne il portato e il lascito. Tra gli aspetti forse di minore impatto, ma non per questo meno utili a interpretarne e lumeggiarne la scrittura, ne sono stati tralasciati diversi. Cercherò d’illustrarne qui almeno uno. Mi riferisco alla passione, durata tutta la vita, per certi scrittori, e per uno in particolare; l’unico, credo, che lo stesso Sciascia abbia definito “adorabile”: Stendhal.

L’adorabile Stendhal è appunto il titolo, postumo, di una raccolta di scritti dispersi uscita per Adelphi nell’ormai lontano 2003 a cura della moglie, Maria Andronico Sciascia, con un’illuminante nota finale di Massimo Colesanti, studioso che a Stendhal ha dedicato numerosi saggi. Una raccolta in qualche misura eretica e malgré lui: sappiamo bene, infatti, come Sciascia si sia sempre opposto a raccogliere in volume articoli e brevi saggi scritti per delle riviste o in occasioni particolari. In questo caso, e fortunatamente per il lettore, il divieto è stato aggirato o ignorato (Max Brod ci insegna che a volte si può, e forse si deve osare), e disponiamo ora, raccolti comodamente in volume, di una buona parte dei risultati degli studi e delle elucubrazioni su Stendhal, la passione per il quale sospingerà Sciascia anche in direzioni inaspettate, come la valutazione tutto sommato bonaria − inaspettatamente bonaria, diremmo − non solo di Casanova, ma soprattutto, e perfino, di Napoleone, un Napoleone abile condottiero ma letterato mancato (si veda nel volume il microsaggio “Napoleone scrittore”), di entrambi i quali Stendhal era un grande ammiratore.

Oltre che mirabile scrittore, il francese − e questa è un’altra cosa che sappiamo bene −  era un falsario e un mistificatore, seppure, appunto, adorabile; è una delle ragioni, spesso inconfessate, per le quali ci ispira tanta simpatia. È risaputo che l’intero Rome, Naples et Florence (1817, poi 1826 per l’edizione definitiva) è il resoconto diaristico di un presunto viaggio in Italia del 1817 mai avvenuto, o almeno non in quei termini e nei giorni indicati. Un esempio concreto per tutti, sempre d’italica ambientazione: nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1823 si sviluppò a Roma un terribile incendio che in poche ore distrusse quasi integralmente la basilica di San Paolo. Benché vi fossero forti indizi di un attentato da parte della carboneria, le autorità papali si affrettarono a dichiararlo un incidente, attribuibile all’imperizia di due stagnari impegnati in lavori di ristrutturazione, i quali “nel far jeri diversi lavori sul tetto della basilica di San Paolo fuori le Mura lasciarono cadere de’ carboni accesi da una padella” e senza accorgersi di nulla se ne andarono poi a gozzovigliare in città. Solo diverse ore dopo un mandriano, un “buttaro”, come scrissero le gazzette papaline, notò il fuoco che cominciava a divampare, alimentato da un gran vento, e lanciò l’allarme. Henri Beyle, in arte Stendhal, narrerà per un giornale parigino l’incendio della basilica di San Paolo da vero cronista, sostenendo (e ribadendolo nel 1829 anche nelle Promenades dans Rome) di essersi trovato casualmente a Roma in quei giorni e di aver visto le macerie fumanti già l’indomani. Niente di più falso: il 15 luglio del 1823 il buon Beyle se ne stava invece tranquillo nella sua Parigi − era dal giugno 1821 che non toccava il suolo italiano − e la passeggiata a San Paolo l’avrebbe fatta solo in dicembre, a macerie ormai più che raffreddate. La veridicità dei suoi resoconti derivava solo dalla sua bravura nel rielaborare e riscrivere le testimonianze rilasciate a caldo da altri, primo fra tutti l’amico (ma non troppo…) Delécluze, che ne scrisse nel Journal des Débats il 31 luglio e il 10 agosto di quell’anno.

Ma, dicevo, non è che un esempio, e molti altri se ne potrebbero fare. In uno dei brevi saggi che compongono il volume, Sciascia ricorda il debito di Stendhal nei confronti dell’incisore Giuseppe Vasi: è noto a tutti, infatti, come per descrivere i monumenti romani nelle Promenades Stendhal abbia fatto ricorso (o, meno eufemisticamente, scopiazzato), oltre che a varie guide all’epoca già famose come quelle di Nibby e di Fea, anche a un volumetto pubblicato in prima edizione nel 1763 dal corleonese Vasi, l’Itinerario istruttivo di Roma; ma i prestiti non confessati in Stendhal sono assai copiosi, e inoltre il Nostro aveva l’inveterata abitudine di passare sotto silenzio le vere fonti e di citare invece doviziosamente, forse per una specie di legge del contrappasso, testi di cui, per una ragione o per l’altra, alla fine non si sarebbe servito.

A volte i falsi letterari di Stendhal riguardano anche la geografia dei suoi spostamenti. In Italia Stendhal non si spinse oltre Ischia e Napoli (22 agosto – 23 settembre 1827); a Paestum, dove in Rome, Naples et Florence afferma di essere passato il 30 aprile 1817, non andò invece mai. E nemmeno in Sicilia arrivò mai nella sua vita mortale, benché abbia affermato di esserci stato − altra contraffazione − tanto nelle Promenades, quanto nella Vita di Rossini e nell’introduzione alla Duchessa di Palliano. Con sicurezza possiamo dire che la Sicilia  − “cette partie de l’Afrique qu’on appelle la Sicile”, come scrive imperdonabilmente, guardandosi però bene, non avendola visitata davvero, dal descriverne alcunché − l’ha a lungo vagheggiata, al punto di tracciare perfino un itinerario dettagliato del viaggio, ma non è poi mai riuscito a realizzare il progetto. Sciascia ne parla diffusamente in “Stendhal e la Sicilia”, non a caso il saggio più lungo e complesso del libro, dove ricorda anche come nel dicembre 1830 il Nostro, prima di essere nominato console a Civitavecchia, avesse esplicitamente menzionato Palermo quale destinazione preferita e fosse rimasto assai deluso dal diniego subito. Si sofferma anche, Sciascia, sulla ricezione di Stendhal da parte dei maggiori scrittori siciliani, da Verga a De Roberto, per ricordare poi gli approfonditi e appassionati studi stendhaliani di Borgese, Vittorini, Tomasi di Lampedusa e Brancati (i parallelismi fra Armance e Il bell’Antonio sono peraltro oggetto di un acuto saggio a parte).

Per Sciascia, Stendhal è anzitutto il miglior narratore di tutti i tempi, e questa predilezione si spiega in vari modi. In primo luogo, Stendhal è il modello dello scrittore che, con grande anticipo sui tempi, rifiuta di scegliere fra narrativa e saggistica, ma mescola tutto con maestria e non per questo si sente un narratore impuro o contaminato. Anche e soprattutto nei suoi scritti di argomento storico, Sciascia prende il lettore per mano, proprio come il suo maestro, e lo accompagna a cavare dalla descrizione dei fatti storici delle vere e proprie lezioni valide per la contemporaneità. Il secondo motivo (si veda “Duecento anni dopo”) è il fascino, come già in Montaigne, di un’autobiografismo che non si situa come sfondo della scrittura, ma è la scrittura stessa. La terza ragione risiede probabilmente nel fatto che, come Stendhal, Sciascia non è mai retorico, enfatico, roboante, tonitruante: il suo stile è la misura, e in tutto ciò che scrive non c’è alcuna esibizione di buoni sentimenti, né la tentazione della leziosità. Sussiste semmai in entrambi gli scrittori un fondo d’impazienza e di orrore della noia, che si sostanzia della loro infinita curiosità, una curiosità volta anzitutto, almeno in Sciascia, a negare e mettere in scacco la paura che tanto dominava e domina nella sua Sicilia. E si snoda nelle opere di entrambi, naturalmente, quella ricerca della verità che va oltre la mera fedeltà a date e fonti, ma mira all’essenziale (si veda in “Tracce stendhaliane” l’episodio degli shrapnel nella battaglia che si svolge nella Certosa di Parma, dove quella letteraria si rivela superiore alla presunta verità storica). Infine, la vera e propria idolatria di Sciascia per lo scrittore francese si spiega con la gioia che l’imprevedibilità delle notazioni stendhaliane regala al lettore e che porterà Sciascia a passare via via dall’ammirazione partecipata e giovanile per Il Rosso e il Nero alla fascinazione razionale e adulta per la Certosa di Parma, fino a quella che lo stesso Sciascia definirà “l’inevitabile conversione” all’Henry Brulard: come se Stendhal avesse saputo attraversare e interpretare magistralmente tutte le tappe della vita di ciascuno di noi, e di questo Sciascia intendesse dargli un definitivo credito. Per aver dato corpo, insomma, come glossa, a una letteratura intesa come “sistema di ‘oggetti eterni’ (…) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi − e così via − alla luce della verità. Come dire: un sistema solare.”

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