Gabriella Sica
Ricordo del giovane poeta scomparso

Lo stile nuovo di Gabriele Galloni

Lo esercitava, nella sua troppo breve ma potente vicenda esistenziale e letteraria, percorrendo (insieme all’amico Giorgio Ghiotti) “la via semplice” della scuola romana di poesia. Leader di una nuova generazione di poeti a Roma, torna ora allegro e implacabile, con “Bestiario dei giorni di festa”

Asciutto e spiazzante, potente e visionario. Così era il giovane talentuoso Gabriele Galloni che a venticinque anni ha già compiuto la sua opera di vita e di poesia, come una stella cometa nel cielo di Roma. Se n’è improvvisamente andato il 6/9/2020, un inverso parziale del 9/6/1995 natale, dove i numeri sono multipli del 3, oltre che del 5, come se la sua morte abbia una corrispondenza con la sua nascita. La morte di ogni persona è clamorosa, ma quella di un poeta in modo particolare. Se non altro perché permette di ricostruire nella sua finitudine un’opera e la sua rinascita. E se tu te ne sei andato giovanissimo io mi ritrovo qui stupita a fare ordine, con dolore e attenzione, tra i tuoi molti libri di un’opera già magnificamente intera. In quattro anni almeno sei-sette libri, indubitabile spia di fecondità, e anche di affanno e presentimento del poco tempo a disposizione. Inaspettatamente Gabriele già torna con un nuovo libro, Bestiario dei giorni di festa, libro giocoso, scardinante e surreale, solo all’apparenza impersonale e minimale, e che lui stesso aveva licenziato presso l’editore romano Ensemble (e confermato dalla madre di Gabriele, Irma). 

Libri spavaldamente e generosamente offerti al pubblico dei molti fan e amici ammiratori che già aveva in abbondanza, come ho potuto constatare in un’affollata lettura di poeti, una delle ultime, un bel 16 giugno 2019, nel corso del “Roman Poetry Festival”, al WeGil, quando appunto mi ero stupita della vera claque che l’aveva calorosamente accolto e molto applaudito. Ho capito dopo che già l’avevano consacrato poeta impareggiabile e caposcuola di una nuova generazione, la prima che io abbia visto stagliarsi all’orizzonte del primo ventennio del secolo nella sua ricca varietà, la prima nativa digitale, che ha di fatto rinnovato la presenza e la resistenza della poesia anche in questi anni liquidatori e supponenti con ogni diversità non assimilabile a merce. Gabriele faceva riviste, ovviamente in digitale (“Inverso – Giornale di poesia”, con Mattia Tarantino), e collaborava a blog e riviste, come “Pangea”, ma amava pensare alla tradizione lontana e vicina della poesia, alla sua sopravvivenza letteraria, in particolare ai ragazzi di altre riviste giovani come “Prato pagano” e “Braci”, e gli piaceva rinnovare tra le rovine lo spirito sprezzato e coraggioso di quei poeti ricalcandone le orme. Era molto attivo, scambiava commenti e prefazioni con gli amici (Gabriele a Città metafisiche dell’amica, brillante autore di prose e poesie, Ilaria Palomba, e Ilaria al Bestiario). Scopro che aveva partecipato (solo idealmente perché non era andato) alle letture poetiche del 2019 a cura di Angelo De Florio, tra la gelateria Fassi e Palazzo Merulana, ma c’è in una bella antologia, Esquilino Poesia, sempre a cura di De Florio, con una poesia, breve e lapidaria come sempre. E ho scoperto, spigolando tra impreviste vicinanze, anche una sua prefazione a un poeta-pittore bravo e appartato, Franco Frainetti, per il quale anche io ho scritto una nota. 

I libri li pubblicava rigorosamente su carta e poi li promuoveva alla velocità del suono nell’illimitato spazio virtuale pieno di luce, ottenendo consensi, perfino traduzioni in altre lingue, e anche critiche, mentre correva la vita limitata. Quella luce che brillava ancora di più all’orizzonte del mare e sapeva di utopia o di impronta divina, e che lui cercava di trattenere con i suoi bellissimi frammenti lirici da L’estate del mondo: «è bello correre, andarsene via / da ogni luce che sia / troppo grande per queste nostre mani». Si chiede se i vivi e i morti vedranno la luce, come nel potente libro In che luce cadranno(Rp libri, con una nota di Antonio Bux). In una luce estiva, allo zenit, accadrà qualche cosa.

Galloni era appena un giovane uomo eppure infanzia e maturità sembravano fuse in un solo corpo e in una sola poesia col sapore d’infanzia prolungata e di maturità esacerbata. Sa che ci sono state voci precedenti, ci devono pur essere le voci che possano funzionare da maestri, guide o avatar, in quella sua urgenza, nella capacità di creare in una poesia cortocircuiti istantanei e vertiginosi e di avvicinare grandi distanze e intime prossimità e farne memorabile sintesi: «… L’eternità felice / … / dalla Magliana vecchia alla mia stanza». Sa che quello che sta cercando già è stato cercato, esistono le radici agli alberi come alle poesie, se no cadrebbero allo stesso modo, alberi e poesie, a terra miseramente. Con notevole spirito rabdomantico ha estratto da un tempo precedente poeti affini, quelli dei meravigliosi e pure lancinanti anni Ottanta a Roma, quelli che avevano scommesso sulle parole giovani e sulla parola ritrovata, fratelli maggiori della stessa amatissima Roma, per vocazione e per fato. Andava a ripercorrere le strade dove erano passati, o dove avevano abitato, come la casa con terrazzino di Beppe Salvia, in via Fontanile Arenato, che ha fotografato e postato, ad agosto dello scorso anno, come si fa oggi. 

Andava alla ricerca “matta e disperata” dei libri rari e introvabili dei poeti un tempo giovani a Roma. I libri li cercava sulle bancarelle o per le librerie dell’usato, per esempio, alla libreria Simon Tanner di via Lidia, mi dice la sua amica Ilaria Grasso, o li andava a snidare nelle biblioteche rionali, li inseguiva ovunque: «Certi libri di poeti / scovati in biblioteche sotto il mare». E poi li mostrava su facebook come un bottino prezioso, come ha fatto per Altre visionidi Tripodo, il 7 giugno del 2019, scrivendo: «Immenso Tripodo. La scena poetica romana degli anni ’80, radunatasi intorno a riviste come “Braci” e “Prato pagano”, è sempre uno scrigno delle meraviglie. Del resto, anche Salvia viene da lì». Scambia qualche parola su facebook, ormai regesto di testimonianze letterarie, anche con Gino Scartaghiande. Cerca i loro libri, ma in un certo senso, prima ancora di trovarli, li conosceva già, sapeva che gli erano vicini, vi aveva letto quello che loro avevano scritto nella freschezza della giovinezza, come tenendola in serbo per lui, per chi, dopo, avesse capito o voluto capire. 

Il 24 luglio del 2017 mi contatta via messenger, suscitando il mio stupore, e comincia così, con piglio diretto: «Buongiorno. Lei non conosce me, ma io conosco i suoi libri! (Ho conosciuto la sua opera approcciandomi, un paio di anni fa circa, ai poeti romani che gravitavano attorno alle riviste romane “Prato pagano” e “Braci”). Be’, insomma. Lunedì 24 – cioè oggi – è uscito ufficialmente il mio esordio poetico e vorrei regalargliene una copia, se me lo permette». Gli avevo risposto entusiasta che aspettavo il suo libro d’esordio, che era Slittamenti (Alter ego). Avevo percepito qualche cosa di speciale, in quella dichiarazione, alla ricerca timida e imperiosa di riconoscimento. Però ci siamo persi, o era lui che si sottraeva con chiunque, come mi dicono, quasi in calcolate toccate e fughe, un po’ alla maniera di Dario Bellezza, il cui spirito non gli è certo estraneo, dal momento che ha avuto come primo mentore Antonio Veneziani, e non si può non immaginare che abbia letto Morte segreta

Se questo non bastasse si possono trovare le tante espressioni di ammirazione, sparse da Gabriele a voce e su facebook, per i poeti della scuola romana, almeno quella nata negli anni Ottanta, ben distinta da quella dei fratelli maggiori. Conferma di una predilezione letteraria che ho avuto da alcuni amici, per esempio Tommaso Giartosio, e in particolare da Giorgio Ghiotti, amico di Gabriele, come lui altrettanto giovane, fecondo e impetuoso, che, dopo un ventoso Alfabeto primitivo (Perrone editore), affianca, presso Ensemble, un libro-omaggio per l’amico scomparso, dal titolo piano e profondo, La via semplice. Ah, quanti gli amici poeti scomparsi a Roma! Scrive in nota Giorgio: «La via semplice è quella della scuola romana di poesia, accolta e esercitata da Gabriele e da me». Che bellezza! E io che ho arrancato a trovare una formulazione corretta di sostantivo e aggettivo da unire (che non fosse “lo stile semplice”, che non ho mai voluto usare), una parola efficace da accostare all’aggettivo “semplice”, per sempre memorabile. Giorgio c’è riuscito. Era “la via semplice”! Non è stata di fatto una via semplice, ma era cantata semplicemente.

“Cercava i poeti della scuola romana”, quelli delle due riviste, ne sentiva tutta la fragilità e orfanezza, senza puntelli di alcun tipo e senza guide se non la poesia. Erano stati ragazzi come lui, con orecchie allenate alla poesia e un eccellente fiuto per individuare i loro maestri, magari antichi per rinascere con loro. Sentiva comunque Salvia come il poeta più prossimo, maestro e fratello, tallonato in vario modo, dal ricalco volutamente manifesto di alcuni dei memorabili versi salviani («È in questa vita un’altra vita nuova / e in questo corpo un altro corpo ancora», che nel poeta potentino suona: «Sembra d’avere qui nella casa un’altra casa, d’ombra, e nella vita un’altra vita eterna») allo stesso titolo del suo libro più compiuto e ampio, L’estate del mondo, ripreso con ogni evidenza da Estate di Elisa Sansovino, eteronimo salviano che si era specchiato nel candore della fanciulla Elisa Sansovino. E così Galloni, multiforme e vivace poeta pronto a giocare con molteplici identità, inventa la figura fittizia di Olimpia Buonpastore, con cui sui social si attira molte critiche. Ma Galloni rifà con il “cuore” la vita, e dunque la poesia, che l’intelligenza distrugge, come aveva fatto Salvia, che Cuore aveva intitolato molto controcorrente il suo libro. La nuova lirica riparte da quel libro, in uno “stile nuovo”, e Galloni lo sa e da lì riparte, con i suoi piccoli idilli.  

«Non sai più dire quando torneremo» scriveva Gabriele Galloni nel suo mirabile L’estate del mondo, direi il suo più bello, nel tempo estivo più caduco di altri, pubblicato solo poco più di un anno fa per Marco Saya editore. E tuttavia Gabriele, che è in un certo senso un poeta leopardiano, invece di scrivere canta, e in modo semplice, come si fa nei nostri tempi: «Siamo in spiaggia, è l’estate che precede / la nostra nascita». Tra gli elementi di prestigio ne L’estate del mondo c’è una Roma un po’ metafisica che ha, come quella di Salvia, l’odore del mare, orientata al litorale tirrenico, «giù a Fiumicino, / tra i Dioscuri e le case popolari». «Più lontano Corviale; il Serpentone», Ponte Galeria, e poi il Trullo, quartiere popolare della capitale, bianco e astratto, scenario deserto dove viveva e dove è stato magnificamente fotografato dal grande Dino Ignani, il fotografo dei poeti e degli artisti. Nella piena luce estiva ci sono «i campi di Maccarese» e «i campi di Torvaianica», le passeggiate e i tragitti verso la spiaggia, la sabbia tra le dita, e poi luci e stelle, tra le dune e la luna. Di questa architettura marina sopravvivono traiettorie lessicali e sintattiche, sempre ariose ampie e laceranti, e rigorose nella metrica, fulminanti come stilettate. Erano “i ragazzi alla spiaggia di Focene”. Corpi giovani in fuga dalle strettoie gelide e silenziose, quasi metafisiche, di Roma, corpi adolescenti impregnati di quella luce marina, di quegli orizzonti vasti, corpi sensitivi e meteorologici fatti dal clima, dal vento, dal sole. 

Ed ecco arriva festoso e allegro, surreale e gnomico, e implacabile il Bestiario dei giorni di festa, giusto giusto per tenerci compagnia in questi giorni di festa e di prigionia, all’estremo di questo triste 2020, scavallando l’anno e continuando a pensare a questo suo e nostro vivere. Un vero bestiario, spiazzante e niente affatto un testamento, ancora un esempio di libro elaborato come un preciso progetto a tema unico e grande prova di vigilanza e duttilità, di apertura al cambiamento. Occasione per indagare il terreno perturbante dell’animale, ancora una volta un terreno limitrofo, come era stato quello dei morti giovani in Creatura breve: «E saremo l’Immagine dell’uomo. Non la creatura breve, ma la traccia». Un terreno di solito inesplorato, quello dei morti e degli animali, dove quello che non si vede non è detto che non esista. Animali senza la parola ma con un pensiero affine alla poesia, e non tanto ignari del “sacrificio estremo”, immersi come l’uomo nella circolarità del vivere, morire ed esistere. E riprendendo il tema del bestiario, riprende rispettosamente, come sempre fa Galloni, una tradizione, da Esopo al Medioevo e ad Apollinaire. Quaranta poesie per quaranta animali, per lo più domestici, qualcuno irreale, nella forma breve preferita da Gabriele. Questa volta quasi sempre terzine, quasi sempre rimate ABA. Surreale, scardinante e spoglio di ogni retorica, di aggettivi superflui: «Il pesce rosso è aruspice celeste». Non c’è Orfeo, ma è sottinteso. Quale sarà il suo animale preferito? Forse il camaleonte: «di notte capita che sembri me», ma una briciola autobiografica c’è in tutti. 

A neanche quattro mesi di distanza, le ceneri di Gabriele sono state traslate a Focene, frazione di Fiumicino, nel Cimitero di Santa Ninfa (una santa con quel nome di fanciulla pagana!), non lontano dal luogo dell’omicidio di Pasolini, lì alla foce, dove il fiume si apre al mare come una luce, che gli era già apparsa come «spiaggia del Cielo», dove i ricordi estivi sono schegge di memoria. Erano «i ragazzi alla spiaggia di Focene», dov’era «una porta che si apriva / sul mare» e dove amava «cogliere una lucciola / dal bagnasciuga». E così i suoi versi suonano come epitaffi: «Quanto mare: mi sveglierò nell’acqua. / Camminerò in eterno, le caviglie / sempre bagnate». 

30 dicembre 2020 – 12 gennaio 2021

L’immagine vicina al titolo è tratta dalla copertina del libro “Il cielo in bocca” del poeta e pittore Franco Frainetti (edizioni Dialoghi); la foto di Gabriele Galloni è di Dino Ignani

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