Giuliano Capecelatro
A proposito di “Helgoland”

L’isola dei Quanti

Carlo Rovelli racconta come un romanzo l'avventura scientifica e umana di Werner Heisenberg e la nascita della fisica quantistica. La scoperta che cambiò l'umanità e ne certificò, in modo definitivo, l'indeterminatezza

Ci sono isole – frammenti, particelle di mondo, dell’esistere – dove tutto cambia; la prospettiva abituale si ribalta; ogni cosa appare diversa agli occhi di chi guarda. Un’illuminazione, un’epifania, l’estasi di Heidegger, vecchio volpone criptocattolico. Può essere l’isola di Prospero, quella che non c’è di Peter Pan. O Helgoland. Nel Mare del Nord. L’Isola Sacra. Toponimo che suggerirebbe percorsi misticheggianti, non fosse che per l’assonanza con la Montagna Sacra, lussureggiante allegoria cinematografica di Alejandro Jodorowsky. Ma non è così.

A Helgoland, nel 1925, qualcosa accadde. Di molto importante. Di decisivo, forse, nella tortuosa e interminabile strada della conoscenza umana. Lì si era rifugiato un giovanissimo fisico, Werner Heisenberg. Per curarsi una brutta allergia; e per tentare di raccapezzarsi con i capricci degli elettroni, che ora saltavano di qua, ora di là, senza mai seguire una benedetta traiettoria; il che mandava ai matti gli scienziati. Dibattiti, discussioni, teorie, ma nulla che davvero convincesse. Quand’ecco che, su quell’isola brulla, il ventitreenne studioso ebbe l’illuminazione. E la prospettiva con cui interpretare il mondo cominciò a cambiare radicalmente. A Helgoland, in quei giorni, prese forma la nuova meccanica quantistica.

Helgoland (Adelphi, pagg. 232, euro 15), appunto, è il titolo del nuovo lavoro di Carlo Rovelli. Che di meccanica quantistica, partendo da quel viaggio proficuo di Heisenberg, parla. Ma non si tratta di uno delle centinaia di testi divulgativi, più o meno decifrabili. Rovelli, fisico rinomato, non è un divulgatore ma un affabulatore. Non c’è ombra di supponenza accademica (benché non gli manchino certo i titoli) nei suoi scritti, ma una spiegazione garbata e appassionata; è un fratello maggiore che ti prende per mano e cerca, con la massima semplicità, e con mirabile chiarezza, di farti capire quello che lui ha appreso, e continuamente sottopone al vaglio del dubbio, in decenni di studio e riflessioni. Solo quando è strettamente indispensabile, non più di un paio di volte nel libro, squaderna le formule matematiche che sostanziano il ragionamento. 

Piano piano comincia a sollevarsi il velo che nasconde il mondo infinitamente piccolo dei quanti (o i quanti che reggono il mondo). Persino quell’insopportabile ed enigmatico gatto di Erwin Schrödinger, che fa apparire giochi da bambini gli Achille e le tartarughe di Zenone l’eleatico, esce dalle nebbie del mistero con la sua pretesa di essere al tempo stesso vivo e morto, e viene ricondotto alla ragione della “sovrapposizione quantistica”, che c’è ma non si vede, ed è appunto lo scherzo da prete escogitato dagli elettroni, che giocano a rimpiattino con l’osservatore: cippirimerlo, prova a beccarmi. Fenomeno che, nel nostro mondo macroscopico, non viene neppure lontanamente percepito.

Su tutto si staglia una generale indeterminatezza che faceva rizzare i capelli in testa ad Albert Einstein, riluttante genitore del nuovo corso del pensiero scientifico. Così è; non si pensi che tutto nasce nella testa di un genio isolato, si chiami Einstein o Heisenberg. Ogni passo avanti è il frutto di un incessante lavorio collettivo, di scambi di idee, di dispute anche accese. E il lavoro dello scienziato non si svolge nel chiuso di un polveroso laboratorio, tra alambicchi e provette. Alle spalle c’è una ricerca incessante, un interrogarsi continuo e un misurarsi con il pensiero filosofico.

Prima di mettere giù le rivoluzionarie basi della relatività, Albert Einstein, che sempre avrebbe palesato una forte simpatia per il geometrico Deus sive Natura di Spinoza (purché non si mettesse a giocare ai dadi), si era sciroppato Kant. Ma soprattutto aveva meditato la lezione di Ernst Mach – filosofo strenuamente antimetafisico, del tutto trascurato nei manuali di filosofia dei licei italiani – e ne aveva assimilato il richiamo all’osservabilità. Concetto che non allude alla possibilità, del tutto impensabile, di scrutare ad occhio nudo, armato di lente, le piroette malandrine dell’elettrone e i movimenti di protoni e neutroni, ma alla verifica sperimentale che può confermare o meno intuizioni ed ipotesi di partenza. E l’osservabilità rappresentò il binario su cui si mosse il pensiero di Heisenberg e degli altri grandi scienziati dell’epoca, da Niels Bohr a Wolfgang Pauli, Max Born e quanti gravitavano intorno alla Scuola di Copenhagen.

Ma la teoria dei quanti non si limita ad avvertirci che l’elettrone è un discolo inaffidabile. Il suo avvento rimette in gioco consolidate certezze, impone una prospettiva del tutto nuova con cui guardare quella che chiamiamo realtà. Spazzato via il rassicurante determinismo della fisica classica, preferisce parlare di probabilità. E il mondo non è più il contenitore di innumerevoli oggetti separati e distinti che immaginiamo. La sostanzialità si dissolve. «La migliore descrizione della realtà che abbiamo trovato – scrive Rovelli – è in termini di eventi che tessono una rete di interazioni. Gli “enti” non sono che effimeri nodi in questa rete». Gli enti, quindi anche l’essere umano; il che vuol dire che persino la perniciosa ipostatizzazione dell’“io”, il Soggetto (scopiazzatura in sedicesimo del padreterno), che ha mietuto e continua a mietere guai, potrebbe avviarsi sul viale del tramonto (il solito Mach, ci informa l’autore, su questo punto non cedeva al dubbio: «l’io non può essere salvato»).

Lo sguardo di Rovelli non è circoscritto al campo della scienza. Né potrebbe esserlo. La scienza ha bisogno dello sguardo del filosofo, e il pensiero filosofico trova una sponda fertile nella ricerca scientifica (Heisenberg, per dire, ha scritto il pregevole Fisica e filosofia). Così l’esposizione della teoria dei quanti spazia dai presocratici e Platone, passando per l’imprescindibile Eraclito, sino a Kant e Mach, rievocando un’acuta definizione dell’ormai misconosciuto Hyppolite Taine sul percepire come un’allucinazione che ha ricevuto conferma. Che oggi, con la teoria dei quanti, cede il passo ad un’«allucinazione meglio in armonia con il mondo».

Werner Heisenberg

Non è quindi una sorpresa quando tira in ballo un filosofo indiano del secondo secolo, Nāgārjuna, il cui concetto di base, la vacuità, indica che «…non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro»: la risonanza di questo pensiero con la meccanica quantistica, chiosa il fisico, è immediata. Il pensiero umano batte mille sentieri. Può passare, spesso passa, attraverso la parola profetica del poeta. Rovelli cita un’altra geniale enunciazione: «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, la nostra breve vita è circondata dal sonno». Le struggenti parole di Prospero ne La tempesta di William Shakespeare.

Helgoland, a ben vedere, è un multitesto, in cui si intrecciano romanzo (l’abilità narrativa dell’autore), esposizione scientifica (la sua abilità di docente), solida conoscenza e contenuta riflessione filosofica. Un’opera poetica coinvolgente, profonda; pervasa addirittura, non sembri incongruo, di una spiritualità che tracima nell’entusiasmo da neofita con cui l’autore descrive la nuova frontiera della conoscenza umana; il primo paragone che viene in mente è il Cantico delle creature di san Francesco. Un testo che lo scienziato si augura possa contribuire a calare l’imperscrutabile teoria dei quanti «nelle maglie dell’intera cultura contemporanea». Già, sarebbe davvero ora.

NOTA. Il 18 aprile 1947 – racconta Rovelli – Helgoland, l’isola in cui Wolfgang Goethe scriveva di aver percepito lo “spirito del mondo”, venne adibita a discarica bellica. La marina inglese vi fece esplodere 6700 tonnellate di dinamite abbandonate dai nazisti. L’isola si dissolse. E anche questo vorrà dire qualcosa.

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