Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Il moai di Vitorchiano

Per celebrare una contiguità di pietra (un particolare tipo di peperino, che a Vitorchiano è di casa) gli scalpellini dell'Isola di Pasqua realizzarono qui nel viterbese una loro tipica statua. Che ben si integra con il clima medioevale del borgo

Strano borgo, Vitorchiano, nella Tuscia viterbese. Perché all’aspetto medievale e all’idea di appartenenza, caparbiamente romana, affianca un segno più che mai esotico. È un “moai”, una di quelle statue tipiche dell’Isola di Pasqua, nell’altro capo del mondo. Mica una imitazione, anzi. Lo ha scolpito una famiglia di Rapa Nui, come si chiama la comunità dell’Oceano Pacifico. Giusto trent’anni fa, nel 1990, venne in Italia, invitata dalla Rai della trasmissione “L’Arca di Noè”.  Scopo del viaggio, trovare sostegno e fondi da destinare alla conservazione dei totem/divinità che popolano il misterioso territorio nel mare cileno. Ebbene, trovarono a Vitorchiano una pietra tanto somigliante a quella indigena che la elessero a materia prima per i necessari restauri laggiù, nell’Isola di Pasqua. E in segno di ringraziamento scolpirono un moai, collocato nella campagna circostante, significativamente sul tratturo che dal paese conduce al santuario del patrono, San Michele.

La pietra è il peperino, essenza del borgo. Sono di peperino gli “scogli” che si ergono dalla vallata del Rio Acqua Fredda, contrafforti possenti sui quali fu edificato. Ed è grigio peperino tutto il paese: le chiese, le case, le mura, le fontane, i portali, gli architravi, i blasoni, gli animali fantastici scolpiti su tante facciate trecentesche. In un’unitarietà di materiali e di stile architettonico che si fa identità. Appartiene infatti al Medioevo, alla seconda metà del XIII secolo, l’avvenimento attorno al quale ruota l’intera vicenda di Vitorchiano. Fu assediata dalle milizie della vicina Viterbo, ricca e potente. Non si piegò, chiese piuttosto aiuto a Roma. Riuscì infine a cacciare gli invasori e da allora la città del Papa la pose sotto la propria protezione. C’è un atto preciso, conservato con molti altri documenti e pergamene nell’Archivio storico del paese. E’ datato 1267 e firmato dal senatore romano Enrico di Castiglia. Vitorchiano vi viene definita “fedelissima all’Urbe” e le si conferisce il simbolo capitolino per eccellenza, quell’SPQR nato nell’antica Repubblica. Da allora, ogni anno, dieci vitorchianesi vengono inviati a Roma nella qualità di Guardie del Campidoglio: hanno il nome di Fedeli di Vitorchiano, vestono un abito giallo e rosso che si vuole disegnato da Michelangelo. “Sum Vitorclanum castrum membrumque romanum” il loro motto. E romane sono le loro trombe, le clarine dall’acuto timbro. Arrembante al punto che “suonare le clarine” è frase proverbiale, significa chiamare a raccolta il popolo per la lotta.

Ecco perché lo stemma su cui campeggia SPQR dilaga nel centro storico, addirittura replicato due volte sulla severa fontana della piazza principale. Ecco perché tutto parla di Roma: si chiama Porta Romana l’unico accesso alla città, nella cinta possente delle mura tirata su dopo l’assalto dei viterbesi; e piazza Roma è il cuore del municipio. Perfino la nocciola tipica del luogo omaggia la metropoli, appellandosi “tonda gentile romana”. E’ invece austero l’aspetto del paese: non solo per il grigio della pietra. Lo è anche per i merli ghibellini che orlano il torrione svettante sui calanchi, che visti da lontano, al di là della valle, sembrano gigantesche radici di molari, impersonati dal profilo asimmetrico delle case, in uno skyline seghettato eppure armonioso. Nella chiesa principale poi, intitolata a Santa Maria Assunta, le bifore del campanile e il fonte battesimale, il rosone e il portale coniugano gotico delle forme con sobrietà del peperino.

Altre chiese, invece, restituiscono affreschi carichi di colori. In San Nicola le vite dell’aureolato e di Gesù posseggono i rossi, i verdi, gli ocra del Rinascimento e l’azzurro domina nella raffigurazione della Madonna, braccia allargate e mantello accogliente. L’oro sfolgora dall’urna con le reliquie di Sant’Amanzio, l’altro protettore del borgo. Dorati sono gli apparati delle Confraternite, pronti a sfilare in secolari ricorrenze. Le preghiere si moltiplicano in uno dei luoghi più riservati della Fede: il monastero delle Trappiste, suore di rigida clausura e di instancabile operosità. Escono dalle loro campagne i frutti per venticinque tipi di marmellate, così come dai torchi provengono biglietti per comunioni e battesimi e libretti per la messa. E si levano dalla loro cappella canti corali di raccolta suggestione. Da lontano, il Moai “osserva” pensoso l’abitato. Gli undici maori della famiglia Atanm che lo scolpirono tre decenni fa spiegarono che la scultura è sacra e porta prosperità al luogo verso il quale è rivolta. Per questo non deve mai essere spostata. Finora la medievale e cattolicissima Vitorchiano ci ha creduto.

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