Pier Mario Fasanotti
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I corti di Tabucchi

Dai racconti immaginifici di Antonio Tabucchi (raccolti da Paolo Di Paolo) al “gulag delle anime" raccontato da Jean-Paul Dubois fino ai ricordi perduti della scrittrice americana Shirley Jackson

Brevità. Antonio Tabucchi è stato uno dei più apprezzati scrittori dell’ultimo Novecento (è morto nel 2012). Di lui, pisano ma fortemente legato alla Lisbona di Fernando Pessoa, parla Paolo Di Paolo, narratore tra i più valenti di oggi. Questi raccoglie alcuni suoi racconti nel libero intitolato Che ore sono da voi?, Feltrinelli, 247 pg., 17 euro). Il titolo è lo stesso di uno dei racconti dell’uomo, schivo e fantasioso, che si lamentava della forte diffidenza degli editori davanti a testi brevi. Di Paolo, in una limpidissima presentazione, cita una frase di Tabucchi facendone un esergo: «Credo di aver capito una cosa, che le storie sono sempre più grandi di noi, ci capitarono e noi inconsapevolmente ne fummo protagonisti, ma il vero protagonista della storia che abbiamo vissuto non siamo noi, è la storia che abbiamo vissuto».

Nell’arco di dieci anni Tabucchi sforna una serie di romanzi brevi come la Donna di Porto Pim, Notturno indiano, e nel 1981, con il Saggiatore, la raccolta di racconti che ha per titolo (emblematico) Il gioco del rovescio.  Il pisano innamorato di Lisbona si sente a proprio agio nella brevità. Finalmente la critica è dalla sua parte. Giovanni Giudici: «Un flusso di scrittura personalissimo, teso, ironico». Di Paolo annota che Il gioco del rovescio «aveva qualcosa di eccentrico anche rispetto alle atmosfere. Basta l’incipit del racconto di apertura a piombarci nel mezzogiorno di luglio infiacchito dalla calura madrilena che spinge il protagonista, in uno stato di dormiveglia, a percepire il ronzio del condizionatore, “il motore di un piccolo rimorchiatore azzurro” che attraversa la foce del fiume di un’altra città, Lisbona». È come se Tabucchi sfogliasse il vecchio atlante De Agostini, e allora i suoi personaggi si muovono a seconda delle pagine che ha davanti: dai crepuscoli portoghesi ai mastodontici alberghi bianchi di Mar del Plata, attorno a Buenos Aires, da un porticciolo del Mozambico al Panthéon di Parigi. Osserva Di Paolo: «Ogni racconto di Tabucchi diventa un racconto fantastico anche quando resta crudamente ancorato a una vicenda storica… interpretabile all’infinito, e mai una volta per tutte». Il visibile e l’invisibile s’intrecciano, e mai si contrappongono, semmai sono complementari. Nel romanzo postumo Per Isabel (scritto però a metà degli anni ’90) il protagonista chiede alla donna: “dove siamo?”, e Isabel risponde “siamo nel nostro allora”. Certo, si può essere nell’ora e nell’allora, contemporaneamente. L’autore non vuole recuperare il tempo perduto perché sa che «passato, presente e futuro sono un filo aggrovigliato, che il bandolo è perso in partenza» e sa anche che nessuna Arianna può davvero aiutare Teseo a uscire dal labirinto. Nel racconto Che ore sono da voi? Tabucchi parla dell’orologio, «uno strumento che in fondo “riacciuffa” il Tempo per i capelli, altrimenti quello se ne scapperebbe per conto suo».

Il carcere. Splendido romanzo sulla vita in carcere. Qui si trova a scontare due anni il signor Paul Hansen, franco canadese, figlio di un pastore nella zona dello Jutland, e di Anna. Il primo s’accorgerà di non avere più fede e di preferire le corse dei cavalli, la seconda era proprietaria di un piccolo cinema, poi rovinata dalla scelta di pellicole “oscene” (Gola profonda), destinata ad andarsene e a ricominciare sposando un inetto svizzero, prima di darsi la morte. Il figlio, stabilitosi poi in Canada e per più di vent’anni primo custode di un enorme condominio, L’Excelsior, viene scaraventato in un “condò” (ironicamente chiamato così perché vanta qualche centimetro in più rispetto alle altre celle). Perché Hansen è rinchiuso nel penitenziario di Montreal, detto di Bordeaux, assieme a 1357 detenuti? L’autore lo svelerà nelle pagine finali. Noi ci limitiamo a dire che la colpa è una brutale aggressione. Hansen convive con un omone, Patrick Horton, amante delle Harley Davidson, grezzo, superstizioso, ma sotto la ruvida pelle sostanzialmente buono e infantile. Una galassia di personaggi( viventi e non) si muovono nella testa del figlio del pastore e l’autore, Jean-Paul Dubois (premio Goncourt), nel romanzo intitolato Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo, Ponte alle Grazie editore, 326 pg., 16 euro) descrive questo gulag delle anime piegate e umiliate senza dimenticare nulla, nemmeno lo sforzo di chiudere, anche col ferro, quei buchi dai quali escono i topi, nemmeno la diffusa gastroenterite diffusa che costringe il detenuto a fare cose cui prima non aveva mai immaginato:« Dover sedersi davanti all’altro e svuotarsi nell’urgenza è un’umiliazione devastante. Nessuno nasce per vivere cose simili. Accetto sempre meno la violenza di questo universo e la sua brutalità».  Lo stile di Dubois sorprende: a pagine di sottile riflessione sull’esistenza, passa d’acchito a un realismo crudo. La sua penna si alza come un gabbiano, s’infila tra le nubi, per poi, improvvisamente calare in picchiata nella merda e nel fango. Descrive il lusso cattolico e la folla protestante, meno opaca quando un organista dà prova della sua genialità. Dubois si addentra nelle «condutture del destino» con il racconto effervescente della detenzione, la quale «allunga le giornate, dilata le notti, stira le ore, dà alla notte una consistenza pastosa, vagamente nauseante». Non c’è redenzione salvo quella, si fa per dire, di ritrovarsi imbambolati al punto di partenza.

La stanza.  Basta leggere la introduzione alla raccolta dei suoi racconti per avere idea di che tipo fosse la scrittrice Shirley Jackson (1916-1965).  Si aggrappa ai ricordi di quando era adolescente: la sua famiglia si spostò dalla California alla costa Est. «Ricordo anche una tremenda e frustrante irritazione verso tutto quel che leggevo in quel periodo… tanto che una sera presi una decisione: dal momento che non esisteva al mondo nessun libro che valesse la pena leggere, ne avrei scritto uno io». Oltre a romanzi scrisse, nell’arco di un trentennio (fino all’inizio degli anni ’60) una trentina di racconti (La luna di miele di Mrs Smith, Adelphi, 279 pg., 19 euro). In tutti, alcuni dei quali “demoniaci”, c’è un non detto. È questa la peculiarità della sua scrittura. Nel racconto intitolato La brava moglie si parla di James ed Helen Benjanin e dello stralunato rapporto coniugale. James attende la posta del giorno. Ha molta curiosità. Legge tutte le lettere, anche quelle indirizzate alla consorte. Risponderà lui, fingendo che sia Helen, con una ferita al dito, a dettare. Poi sale al primo piano, afferra la chiave appesa al muro e apre la porta. In quella stanza – e noi non sappiamo da quanto tempo – è segregata la donna. La saluta senza guardarla. Lei è in veste da camera davanti al vassoio della colazione. Passa i giorni leggendo i libri che il marito, o la cameriera le fanno avere. Sempre a letto. James le chiede chi sia Mr Ferguson, Helen dice di non conoscerlo e di non sapere la ragione per cui quell’uomo le scrive. «Mai incontrato» dice. Ma James insiste, col sospetto che quel tizio possa raccattare dal giardino i biglietti con cui la moglie forse chiede aiuto. Una tattica per fuggire? Probabile, visto che Helen una volta tentò di uscire dalla porta mentre la stava chiudendo il marito. Questi le ricorda che avrebbe il diritto di indossare tutti i suoi abiti, a suo tempo (ma quanto?) regalati alla cameriera. Un pensiero di Mr. Benjamin: «È sempre la stessa donna che aveva sposato e che, probabilmente, un giorno avrebbe seppellito». Il lettore ovviamente s’interroga, come se avesse in mano una storia piena zeppa di cose non rilevate.  La Jackson passa poi, disinvoltamente, a un altro tema: «E il diavolo sedeva nel desolato silenzio dell’inferno, perso nei suoi pensieri…».

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