Alberto Fraccacreta
“Le belle lettere” di Marino Biondi

Carlo Bo e Piccioni maestri e amici

Vita e letteratura è il binomio che unisce il percorso intellettuale e umano dei due critici a cui lo studioso fiorentino dedica due “portrait littéraire” carichi di ammirazione ed emozione. Raccontando come hanno segnato la storia della cultura e della letteratura italiana del ‘900

Il dittico di ritratti, sul modello francese del portrait littéraire, a opera di Marino Biondi, Le belle lettere. Carlo Bo e Leone Piccioni. Maestri e Amici (Helicon, pp. 152, 12 euro), intende ricordare «con ammirazione, e comprensibile emozione» due figure che hanno segnato la storia della cultura e della letteratura italiana del Novecento e, particolarmente, la vicenda personale dello studioso (Biondi è professore associato in pensione presso l’Università di Firenze). 

Il primo contributo, Carlo Bo. Lezione di Urbino, versione ampliata della XVI Lezione urbinate svoltasi alla Fondazione Carlo e Marise Bo il 16 maggio 2019, racconta l’uomo di Sestri Levante – si celebrano oggi, 25 gennaio, i centodieci anni dalla sua nascita – come colui che si sentiva «investito di una missione, erede affaticato da tutti i peccati commessi dalla generazione che l’aveva preceduto nell’ardua contesa con la letteratura, con la critica e l’arte altrui, e quella condizione gli suggeriva di rimediare alla rovina della casa della letteratura». Per Bo, lo sappiamo, la letteratura è come vita, al di là di ogni possibile gabbia storica e ideologica, solipsistica e collettiva. Inoltre, l’«antistoricismo – sottolinea Biondi – era maturato anche come reazione nel suo coscienziale antifascismo», tanto che essenziale gli parve la precisazione per la quale «la poesia evocava l’assoluto, non il relativo delle relazioni di cultura (e delle relazioni storiche)». 

L’ermetismo, il fondamentale ruolo di Ungaretti, il critico come «registratore di soluzioni spirituali», il debito verso Du Bos (e Claudel): tutto concorre, secondo l’abile ricostruzione di Biondi, a illustrare una letteratura in qualità di «inesauribile» «movimento di verità», e anzi – aggiungerei – a santificarelo spazio del poetico in un momento storico di aggressioni alle istituzioni e all’identità umanistica. Anche quando si manifesta la seduzione del «fallimento», con un sentire alquanto beckettiano: «Il fallimento che rifulge in gloria, iscritto al destino della grande letteratura novecentesca. Il fallimento in grande come il prezzo dei tanti piccoli scontati successi ottenuti strada facendo. Fu questo il fallimento che Carlo Bo ebbe a dichiarare al termine del suo cammino ricco di successi».

Il secondo saggio, Leone Piccioni. I bei giorni della letteratura, è dedicato agli «studi sulla poesia» del grande allievo ungarettiano, scomparso nel 2018. Sulla scia di Sainte-Beuve (simili nel metodo, nella «menscritica», tranne per il fatto che Leone «credeva, era un uomo di fede, non era uno scettico, ma un cristiano che sapeva del mondo»), Piccioni era provvisto di una curiositas prodigiosa che non si esauriva nella lettura di un libro, ma procedeva alla ricostruzione integrale del mondo dell’autore in un «corteggio di carte e cartigli», «manoscritti e stampe». L’esistenzialismo à la Maritain, l’alto magistero di Bo, la lezione dell’ermetismo («Arcaicità novecentesca. La concentrata purezza della poesia. L’essenza della prosa. Lo stesso continismo, come barriera eretta alla vista – e alla comprensione – dei più») e ovviamente la presenza granitica di Ungaretti e Luzi, rinsaldano i «gusti letterari» di Piccioni che ha così modo di confrontarsi sempre di più con il fiore della letteratura novecentesca (non si dimentichi il pazientissimo lavoro variantistico e di filologia d’autore che impegnò Piccioni «con perizia e discrezione, dovizia di mezzi e acume» nella curatela delle opere di Ungà; giustamente Biondi ricorda come tale «liaisonfra critico e poeta» sia stata al pari soltanto di quelle tra «Serra e Pascoli, Contini e Montale, Debenedetti e Saba»). (Nella foto: Carlo Bo, Leone Piccioni e Piero Bigongiari).

Un altro elemento decisivo per celebrare la statura intellettuale di Piccioni è la sua assidua «frequentazione» con l’opera di Leopardi, che portò ad alcuni interventi importanti, tra i quali giova rammentare il magnifico Lettura leopardiana e altri saggi. Commenta Biondi: «Suddiviso in tre parti (Idea della poesia del LeopardiIl primo Leopardi e le dieci canzoniLe varianti nelle dieci canzoni), il volume segnò una tappa significativa negli studi, e fu anche per il suo autore un contenitore di motivi che fecondarono altre analisi e interpretazioni, sui poeti del suo culto, privato oltre che critico, Ungaretti e Montale».

Non solo Leopardi: la conoscenza approfondita di Gadda, Landolfi, Pavese e tanti altri dimostra l’eccezionalità della cultura, la vastità degli interessi; eppure a essa si somma per l’autore del libro un crisma ben più imprescindibile, «il valore assoluto della sua amicizia». Con sentita commozione Biondi conclude lo scritto, facendo leva – ed è questa una caratteristica che lo accomuna eminentemente a Bo – sulla profonda humanitasdi Piccioni: «Dirò soltanto che durante la malattia mi fu vicino con telefonate quasi quotidiane. Uscivo dall’ospedale e mi chiedeva come stavo. Leone Piccioni era un uomo che aveva ricevuto molti doni dalla vita, dalla sorte, e a quelle larghe elargizioni aveva corrisposto con la bontà. Come se volesse ridistribuirli. La fraternità cristiana di un cristiano vero».

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