Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Casa d’altri”

Per Silvio D’Arzo

Torna in libreria il bel romanzo breve che fece conoscere Silvio D'Arzo. Il ritratto impietoso di una comunità che riesce a nascondere rabbie e rancori sotto la facciata della "normalità" quotidiana

«Un’assurda vecchia, un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo». Questa è una delle frasi finali di Casa d’altri, il breve romanzo capolavoro di Silvio d’Arzo (riproposto da Marietti 1820, 108 pg.,  10 euro). Eugenio Montale lo definì «un racconto perfetto». Attilio Bertolucci scrisse: «Scrittore straordinario e sfuggente, angelico e diabolico». D’Arzo fu bersagliato dai rifiuti editoriali, anche da Natalia Ginzburg, che lavorava all’Einaudi e – come è noto – si rese in qualche modo celebre, a parte che per i suoi libri, anche per aver detto no a Se questo è un uomo di Primo Levi (questione controversa, ma vera: l’editore-dittatore Giulio puntava sullo sdegno civile e sull’impegno sociale e spesso, dava la colpa al pubblico: sì, ma quale? visto anche che di libri, si diceva, che ne leggesse pochi).

L’autrice di Lessico familiare lesse Casa d’Altri e diligentemente (atteniamoci a questo avverbio) scrisse una scheda: «Abbiamo letto con vivo interesse il suo racconto, è una cosa certo notevole, ma non ha la densità di un libro: è un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue… un racconto certo di grande verità, ma con il fiato di un passerotto». Nulla di più feroce e di più sbagliato. Una solenne cantonata, non infrequente allora come adesso. Una domanda è d’obbligo a questo punto: esiste forse un redattore di casa editrice o in genere un intellettuale che abbia fatto, o faccia ora, il mea culpa? Non è certo qualcosa che assomiglia a un suicidio dire «mi sono sbagliato».

Per fortuna, Silvio d’Arzo non lesse mai quella scheda. Non si sa perché; si sa soltanto che seppe del gran rifiuto torinese. Che non lo costrinse a buttar via penna e fogli, tanto è vero che soleva dire: «Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male, anche in modo da far ridere la gente». I rifiuti gli cadevano addosso come la pioggia. Maltrattato lo fu sempre, nella sua brevissima vita. Tra i tantissimi “no” ci fu anche quello della Vallecchi che, gli spedì per posta questa frustata a proposito del suo racconto Ragazzo in città: «Teniamo ad assicurarVi che lo abbiamo letto con simpatia e piacere… purtroppo la nostra pratica impossibilità ad assumere nuovi impegni è assoluta e irrinunciabile». I due ultimi aggettivi paiono essere vergate con l’inchiostro mussoliniano.

Prima di addentrarci nella sua opera – in un indiretto riferimento alle parole della Ginzburg – ricordiamo che D’Arzo, giovane timido, capelli impomatati, sguardo dolce, amava particolarmente alcuni versi di Paul Valèry: «Il faut etre lager comme l’oiseau, et non comme la plume». Sì, perché D’Arzo era un uomo molto colto. Prese la maturità classica a 16 anni da privatista, si laureò a Bologna in Lettere classiche (con tesi in glottologia). Sostenne a Roma anche un esame col quale ottenne la cattedra di Lettere nella sua città. Ma la guerra deviò il suo percorso quando frequentava la scuola Allievi Ufficiali, prima a Como poi a Barletta.

Poco dopo l’armistizio i tedeschi lo imprigionarono scaraventandolo su un vagone-merci (antico vizio teutonico, evidentemente). Lo consideravano probabilmente debole e passivo. E fecero male: con un gesto veloce scardinò la porta del treno. Fuggì attraverso i campi e a piedi raggiunse la sua città natale e la casa materna. Silvio d’Arzo non si chiamava così. Il suo era solo uno pseudonimo. Capitò che passeggiando sotto i portici della città fu fermato da un tale che si presentò come il signor Comparoni e si disse disposto a riconoscerlo come figlio. Lui accettò pensando anche al fatto che sua madre avrebbe avuto una fonte di sostentamento. Non dimentichiamo che all’anagrafe venne registrato come figlio di NN.

Era diventato Ezio Comparoni. Pur molto grato (Comparoni era il cognome della mamma), quel nome non gli andava proprio a genio. Assunse il nome de plume Silvio d’Arzo. Nato nel 1920, all’età di 31 cominciarono altri guai, non editoriali ma di salute. Un linfogranuloma lo stroncò a soli 32 anni. Quando fu ricoverato, non volle che nessuno sostasse nella sua stanza. Nemmeno la madre, che rimase paziente in corridoio senza che lui la potesse vedere.

Il suo romanzo Casa d’altri si svolge in una zona prealpina, dominata da un inverno di cinque mesi, dalla miseria e dal fango. E sovente è descritta con un’insolita insistenza cromatica: la luna è viola, certi sentieri sono viola, per esempio, a significare che il combinato chiarore-serenità non esiste. L’agglomerato di casa di pietra si chiama Montelice (in realtà è Monselice, nel Padovano), non così distante da Bovio. Nella prefazione, il filosofo e docente universitario Silvano Petrosino scrive che se anche ci fossero i colori, questi sono inghiottiti dalla «stessa immobilità dappertutto».

La gente vive, anzi si lascia vivere. E ancora: «È questo il primo nucleo del racconto: con una calma insistenza, con una scrittura pacata e avvolgente, la storia non fa che disegnare la monotonia di una quotidianità all’interno della quale non succede mai niente». L’autore fa dire a uno dei protagonisti (pochissimi): «Qui non succede mai niente di niente». Descrivere il niente, sia pure delineando scene di assoluta povertà e di pazientissima stanchezza esistenziale, è uno dei pregi del romanzo.

Pare che un prete, che si autodefinisce curato «da sagre e nient’altro», e un’anziana lavandaia giochino a rimpiattino. Ovviamente senza giocosità, ma diffidenza, silenzi, imbarazzi, titubanze. La donna, Zelinda Icci ha 63 anni e ha l’urgenza di ottenere una risposta dal prelato, il quale si barrica ostinatamente dietro la millenaria storia della chiesa cattolica (e anche di altre). Zelinda fa chilometri e chilometri per comprare carta e penna e si decide di scrivere una lettera. Il foglio va e viene, una volta è in chiesa, un’altra volta davanti a una porta. Non così strampalata l’ipotesi che qualcuno l’abbia rubata. E invece no: è la stessa Zelinda, sempre china sui lastroni di pietra a lavare i panni, unica compagnia una capra e unico utensile una carriola, che l’ha gettata nel torrente. La lavandaia pone una questione d’eccezione, scrive il prefatore, «e la pone nell’unico modo possibile, vale a dire non all’eccezione in generale (dove il “generale” finisce inevitabilmente per mancare l’eccezione, ma all’eccezione che ella stessa è)».

«Nella lettera c’era scritto… che io capivo benissimo quello che dite voi preti, perché guai se non fosse così e il mondo andrebbe… ma siccome il mio era un caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno… io chiedevo se in qualche caso speciale… qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima». Questione spinosissima: si può invecchiare e morire senza aver neppure iniziato a vivere?

Il dramma personale s’accende tra poche case, in una stagione pre-invernale, nel gelo contro il quale s’abbassano i muri d’ingresso delle case, nella fame che fa sì che quando cade un sacco di farina, non importa se piove, accorrono in tanti a raccoglierla, bastano poche cucchiaiate. Fatica, fatica, fame, freddo. E rassegnazione. Dice un protagonista: «Quando ci si mette sul serio, il mondo sa ben essere triste. Quel che importa però è non accorgersene. E poi gli occhi qualche volta sono fatti anche per chiuderli, no?». Vento gelido, frane, spari dei carabinieri, nulla di veramente utile da trovare perché i tedeschi hanno fatto razzie, anni prima. D’Arzo riassume così il buio interiore di un prete: «Ci sarà da vergognarsi, non dico: e per un prete tre volte di più. Ma un paese che brucia è soltanto un paese che brucia, e una guerra soltanto una guerra, e così terremoto e diluvio. Voglio dire che i grossi flagelli non sono mai riusciti a toccarmi granché. Non è affar nostro, mi pare. Nessuno li chiama e non chiaman nessuno, e, oltre a tutto, non san niente nemmeno di sé… quanto a complicazioni, da un pezzo non ne ho molte di più di quel mulo che bada a mangiare la sua ortica: ma la vecchia là in fondo al canale era proprio qualcosa di più. Altroché se lo era».

Sì, proprio Zelinda Icci, che si alza alle cinque, va giù in fondo alla valle, si ferma a mezzogiorno a mangiare olio e pane sopra l’erba di un fosso, poi riprende la carriola e a al canale a lavare. Fino alle sei o alle sette, il lunedì fino alle nove. Non è finita: carica la carriola e torna a casa, «in tempo per mangiare ancora olio e pane e anche un po’ di radicchi, e poi andare a dormire». Zelinda mette alle spalle il prete: con la vita che faccio e avendo fatto quel che Dio dice di fare. E nessuno può dir niente di me. Di grosso non ho mai fatto niente. E dice: «Io pensavo che adesso un piacere Dio potrebbe anche farmelo, perché io non gli ho mai chiesto niente». Ecco perché s’azzarda a chiedere a un prete se, «senza fare un dispetto a nessuno», può accorciare quella vita. «Anche uccidersi…sì» spiegò con una tranquillità da bambina.

L’inverno si fa ancora più impietoso, «le nuvole erano più grandi di un prato. Il prete e la lavandaia sostanzialmente si sono parlati pochissimo. Pochi gesti, abbozzi di parole. Lei sempre lì, china sui lastroni di pietra. «Un’assurda vecchia, un assurdo prete: tutta un’assurda storia di un soldo» scrive Silvio D’Arzo. Alla fine un ragazzo dà la notizia: la vecchia è morta. Il prete, guardando di tanto in tanto le capre che s’affacciano sugli usci «con degli occhi che sembrano nostri», decide di tornare a casa propria. Fa le valigie. Il biglietto ce l’ha. Il suo ultimo pensiero: «Tutto questo è piuttosto monotono, no?». O è il pensiero dell’autore?

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