Roberto Verrastro
A proposito di “Yellow Star, Red Star”

L’era del nazionalismo

La studiosa Jelena Subotić analizza l'uso del nazionalismo nel Novecento slavo, dal Regno di Jugoslavia alla Serbia di oggi, passando per la stagione di Tito: l'anticomunismo lo ha usato per nascondere razzismo e fascismo

Milivoje Jovanović morì nel 1984 a 79 anni, età che in vita dubitò molte volte di riuscire a raggiungere. Nel 1938 era il caposcorta di Pavle Karadordević, ovvero del principe Paolo (1893-1976), reggente del Regno di Jugoslavia. Il 6 aprile del 1941, quando era diventato capo del dipartimento di polizia generale di Belgrado, Jovanović ricevette una telefonata che lo informava che aerei da guerra tedeschi erano decollati dalla Romania. Poche ore dopo cominciò il bombardamento della città. Il 12 aprile l’esercito jugoslavo era già stato sbaragliato e le truppe tedesche marciarono su Belgrado. Il giorno seguente Jovanović cambiò mestiere. O quasi. Era sempre un poliziotto, ma il suo dipartimento fu rinominato dai tedeschi “polizia speciale”: continuò a dirigerlo per tre mesi con un nuovo compito, quello di mettere in atto la persecuzione di ebrei, comunisti e rom. Dovette compilare un questionario, la domanda numero dieci suonava: “Nazionalità e razza; c’è qualcuno nella sua famiglia di origine ebraica o rom?”. Jovanović rispose prontamente: “Serbo-ariano puro”. Da aprile a luglio del 1941, la Gestapo fornì alla sua unità 16mila dinari jugoslavi al mese, soldi sottratti agli ebrei serbi e impiegati per il loro annientamento.

Milivoje Jovanović era il nonno materno di Jelena Subotić, docente di scienze politiche alla Georgia State University di Atlanta, che ne rievoca la figura nella prefazione del suo saggio pluripremiato Yellow Star, Red Star, “La memoria dell’Olocausto dopo il comunismo” (Cornell University Press, 264 pp., 26,63 euro, ebook 9 euro), vincitore nel 2020 del Best Book Award assegnato dall’American Political Science Association, del premio Joseph Rothschild dell’Associazione per lo studio delle nazionalità della Columbia University di New York e del Barbara Heldt Prize al miglior libro sull’Europa dell’Est scritto da una donna. Jovanović fu poi arruolato in una commissione che smistava gli internati nel primo campo di concentramento della Serbia, quello di Banjica, un sobborgo di Belgrado, dove furono imprigionati e torturati almeno 24mila tra comunisti, ebrei e rom. Ma nel marzo del 1944, Jovanović fu arrestato dalla Gestapo per sospetta collaborazione con la resistenza comunista. A ottobre dello stesso anno, l’esercito comunista di Josip Broz Tito (1892-1980) entrò nella Belgrado liberata. Jovanović fu arrestato e rilasciato più volte anche dal nuovo regime. La sua detenzione più lunga durò nove mesi tra il 1949 e il 1950.

“Il crollo incredibilmente rapido del comunismo in soli due anni (1989-1991) creò una sensazione di profonda insicurezza ontologica nell’Europa dell’Est”, scrive Subotić nel primo dei quattro capitoli del volume (La politica di memoria dell’Olocausto dopo il comunismo). La piena equiparazione del fascismo e del comunismo quali totalitarismi europei, che la studiosa liquida come riduzionista, si è materializzata in un progetto chiave dell’Unione europea, la Casa della storia europea, inaugurata a Bruxelles nel maggio del 2017 con un’idea di integrazione che considera parti costitutive della storia continentale tanto l’Olocausto quanto il terrore comunista. “Il problema”, come l’autrice sa bene anche per la sua storia familiare, “è che il desiderio dell’Europa dell’Est di trovare legittimazione nazionale nel passato precomunista, si imbatte in molti regimi collaborazionisti, inclusi regimi fascisti autoctoni in Slovacchia, Croazia, Ungheria e Romania. Si cercano buone memorie, ma se ne trovano solo di pessime”. La strategia più prevedibile per elaborarle non è affatto la più innocua, e coincide con la tendenza a incolpare il comunismo per i crimini dei nazisti e dei loro sostenitori locali, “creando condizioni che possono contribuire a vecchi e nuovi tipi di revisionismo e negazionismo dell’Olocausto, e di rinascita neofascista”.

Emblematico è il caso della Serbia, analizzato nel secondo capitolo (Alle porte di Belgrado). Meno di 5mila ebrei serbi sopravvissero alla seconda guerra mondiale, e circa 3mila di loro tra il 1948 e il 1952 si trasferirono in Israele. Prima della guerra se ne contavano 33.500. Dall’agosto del 1941, il governo di salvezza nazionale di Milan Nedić “operava completamente sotto gli auspici della potenza occupante tedesca e assisteva pienamente la Germania nel suo progetto genocida in Serbia”, osserva Subotić, ricordando che in quel governo erano ampiamente rappresentati esponenti dell’organizzazione antisemita Zbor (Assemblea), fondata nel 1935 da Dimitrije Ljotić, che riteneva che il solo modo di evitare la guerra fosse quello di eliminare “l’influsso di ebrei, massoni e ogni altra progenie spirituale degli ebrei”. Ljotić e Nedić erano cugini. Nel luglio del 2018, l’Alta Corte serba ha dovuto negare (ma con una sentenza soggetta ad appello) la riabilitazione di Nedić ormai comune nei circoli intellettuali d’élite e formalmente sostenuta da uno storico spesso presente sui mass media nazionali, Bojan Dimitrijević, dell’Istituto per la storia contemporanea serba, secondo il quale Nedić si sarebbe limitato a “combattere il comunismo, in quanto era quello il male più grande con cui si confrontava la Serbia all’epoca”.

Nella Jugoslavia socialista, la memoria delle vittime dell’Olocausto era un prodotto di iniziative ebraiche che, già nell’immediato dopoguerra, portarono a innalzare 14 monumenti in loro onore, i cinque più rilevanti dei quali, realizzati nel 1952, furono quelli di Belgrado e Novi Sad in Serbia, di Zagabria e Dakovo in Croazia, e di Sarajevo in Bosnia-Herzegovina. Lo Stato conservava una memoria che leggeva le sofferenze degli ebrei nel contesto più ampio della lotta antifascista. “Dopo la fine del comunismo, la memoria dell’Olocausto divenne invece un elemento critico nella delegittimazione totale del comunismo stesso”, prosegue Subotić. “Una parte significativa di questo progetto richiedeva di rompere l’impegno alla fratellanza e all’unità pan-nazionale, facendo quindi apparire retrospettivamente la Jugoslavia come artificiosa. In altre parole, il comunismo fu delegittimato non perché non democratico, ma perché antinazionalistico”. Per istituire come Stato la sua sicurezza ontologica lungo linee nazionaliste, la Serbia ha dovuto separare Hitler e il nazismo dall’appoggio che ebbero nel Paese, in modo da costruire una totalitarizzazione retrospettiva del passato comunista jugoslavo, “un processo che ha ricevuto il pieno supporto dell’Unione europea durante il percorso accidentato della Serbia verso Bruxelles, e in questa Serbia immaginaria non c’è posto per la memoria degli ebrei che una volta vivevano come vicini di casa lungo la strada”.

Nel Regno di Jugoslavia dominato dai serbi, nel 1929 si formò il Movimento Rivoluzionario Croato, gli ustasha, che sfruttavano il risentimento nazionale croato per alimentare idee fasciste e razziste, sintetizza l’autrice nel terzo capitolo (Isole di memoria della Croazia). Il 16 aprile del 1941, il poglavnik ustasha (termine equivalente al tedesco Führer), Ante Pavelić, ritornato in Croazia dall’Italia, dichiarò la formazione del nuovo governo dello Stato Indipendente di Croazia, precluso a ebrei, rom e serbi: “L’ideologia di violenza del regime fu genocida verso tutti e tre i gruppi. La massima violenza in Croazia durante la guerra fu esercitata dagli ustasha, non dai tedeschi”. Lo conferma non solo l’allestimento dal 1941 di 26 campi di concentramento, come Jasenovac, Kerestinec e Dakovo, ma anche il fatto che tra tutti spiccasse quello di Sisak, riempito esclusivamente di oltre 6mila bambini ebrei, serbi e rom separati dai genitori, perfino i neonati: ne morirono 1.600 di stenti e malattie, una vetta di orrore ineguagliata in tutta l’Europa della seconda guerra mondiale. Il cattolicesimo croato era una parte integrante dell’ideologia ustasha, che accompagnò il genocidio con conversioni forzate al cattolicesimo e l’omicidio mirato di sacerdoti ortodossi serbi. “La Croazia è ora uno Stato acutamente diviso tra il suo status di membro dell’Unione europea e la sua eredità stratificata di fascismo, comunismo e guerra etnica degli anni Novanta”. La sua identità postcomunista di Stato cattolico ed etnicamente omogeneo è stata anch’essa edificata sulla base di una rimozione.

Una legge del 1997 prevede infatti che possano essere recuperate le proprietà confiscate dalla Jugoslavia comunista, beneficiando le famiglie degli ustasha espropriate dopo il 15 maggio 1945. Ma le famiglie ebraiche che, tra il 1941 e il 1945, anni di “arianizzazione della proprietà” da parte dello Stato Indipendente di Croazia, furono private dei loro beni, non possono reclamare nulla. E ancora vent’anni dopo, nel 2017, il progetto infine approvato di intitolare un parco pubblico di Sisak a Diana Budisavljević, eroica figura che soccorse molti bambini deportati, fu inizialmente bloccato perché il luogo in cui i piccoli morivano era stato definito “campo di concentramento ustasha”. La memoria dell’Olocausto dalla prospettiva dell’Europa dell’Est, compresa la Lituania, al centro del quarto capitolo (Le lunghe ombre di Vilnius), destabilizza anche la “vecchia” Unione europea nel momento in cui decostruisce la narrazione consolidata di una responsabilità primariamente tedesca, aprendo a una varietà di nuove narrazioni su responsabilità multiple per l’Olocausto in Occidente. “Può comportare, per esempio, una nuova rivalutazione del fascismo dell’Italia e del suo inadeguato ripudio postbellico”, nota Subotić, indicando un possibile ambito di ricerca che evidentemente desta qualche attenzione all’estero. Per nulla lusinghiera.

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