Gabriella Sica
“Semicerchio” sul poeta traduttore dei classici

Sulla via maestra di Pietro Tripodo

«Sornione e affettuoso, dubbioso sempre e umile fino all’esagerazione ... andava dai rifacimenti dal greco e dal latino, dal provenzale e dal tedesco alle proprie poesie, e così, sempre all’insegna del rigore, parevano antiche ed erano invece irrequiete e nuove. C’era in quello che scriveva “uno svolgersi del suo spirito”»

È stato presentato nei giorni scorsi su Facebook, su invito della Società Dante Alighieri, il numero on line della rivista “Semicerchio”, a cura di Niccolò Scaffai, dedicato a Pietro Tripodo, poeta e traduttore di classici scomparso nel 1999. All’incontro sono intervenuti, fra gli altri, Francesco Stella, Ignazio Visco, amico di Tripodo fin dai banchi del liceo romano “Tasso”, Eleonora Rimolo, Arnaldo Colasanti e Gabriella Sica, anche lei legata a Tripodo da antica amicizia. Di Gabriella Sica pubblichiamo questo ricordo.

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Il sei aprile 1985, in una data assai emblematica letterariamente, se n’è andato il poeta Beppe Salvia e come per miracolo ha raccolto la staffetta Pietro Tripodo che aveva letto Beppe Salvia dedicandogli, dopo una recensione, un lungo saggio pubblicato su “Capoverso” in due puntate. Sono i doni della vita, quando poeti e scrittori si incontrano e formano una comunità, a volte anche quando non si sono frequentati ma sanno di appartenere a una stessa famiglia. Ogni tanto accade e ad alcuni di noi a Roma è toccato anche di essere l’ultima generazione che l’ha fatto in presenza, fuori da ogni schermo, sia in senso etico che in senso digitale. E l’ha fatto a Roma, scivolata poi verso un declino troppo triste, da cui risorgerà come sempre Roma è risorta. Questo è successo sullo scorcio del Novecento, all’inizio degli anni Ottanta, come in una accurata preparazione di un periodo durato vent’anni, quando alcuni poeti che hanno provato a rifondare la poesia, senza darsi alcuna etichetta, senza ammantarsi di parole che avrebbero coperto, senza farlo respirare, un nuovissimo spirito, ritrovando la via maestra degli antichi, della latinità e della grecità su cui i poeti latini si erano rifondati. Senza parole se non quelle della poesia, quelle “ritrovate”. Non era facile farlo mentre ben altre parole imperversavano, infatti è stato una specie di testacoda davvero immane e strepitoso, un moto istantaneo e per niente conflittuale, come la cosa più semplice del mondo.

Pietro (nella foto, ndr) ha partecipato con quel suo irresistibile spirito sornione e affettuoso, dubbioso sempre e umile fino all’esagerazione, e tuttavia ben determinato a fare degli amici estimatori il primo pubblico della sua poesia. Aveva gruppi di amici che frequentava con il criterio imperturbabile del divide et impera: il gruppo dei poeti, il gruppo degli amici critici, il gruppo dei filologi romanzi, e tutti riusciva a sollecitare e da tutti ad avere attenzione. Così come è sempre stato, anche dopo la sua scomparsa. E funzionano ancora i diversi drappelli sotterraneamente uniti. La sua poesia è in un certo senso rizomatica, come un fusto con le sue aree di riserva: andava senza distinzione dai rifacimenti dal greco e dal latino, dal provenzale e dal tedesco alle proprie poesie, e così, sempre all’insegna del rigore parevano antiche ed erano invece incredibilmente irrequiete e nuove. C’era in tutto quello che Pietro scriveva “uno svolgersi del suo spirito”, come lui stesso ha scritto. 

Ci siamo visti tante volte, mi veniva a trovare a Trastevere, abbiamo parlato, mi ha portato la foto di Giulia nata da poco che raccoglie gli aghi dei pini, mi ha dato il dattiloscritto delle sue poesie, abbiamo scelto e discusso i suoi testi usciti su “Prato pagano”, nella seconda serie, poi inclusi in Altre visioni. E intanto si svolgevano gli anni della splendida scrittura di Pietro, che continuava pubblicando appunto Altre visioni, nel 1991, per Rotundo, piccola sigla editoriale che curava Arnaldo Colasanti, dove un po’ tutti ci siamo spostati. E scrivendo saggi bellissimi, giacimenti preziosi del suo pensiero che andranno raccolti in volume. Cercasi curatore colto e fino ed editore a questo scopo. Lui intanto li pubblicava spargendoli tra i diversi gruppi di amici e un paio almeno sono nati insieme ai poeti. Nel ’93 partecipa con sua grande gioia, lo ricordo, al convegno La parola ritrovata (c’era insieme l’importanza della parola e in particolare quella della parola “ritrovata” e antica) da me promosso a Roma con un Comune che ancora offriva spazi e sinergie. Nell’antologia omonima che raccoglie i testi dei partecipanti, uscita nel 1995, che stamani ho sfogliato, dopo tanto tempo, con curiosità e nuovo interesse ritrovando temi non tanto lontani da quelli di oggi e utili per considerare come sono andate le cose, Pietro pubblica un testo come sempre bello, Imitabere pana canendo, da un verso virgiliano e dall’impronta etica sul tema della scrittura che, “nonostante tutto”, nonostante le sventure, riesce a fiorire. 

Nello stesso anno, il 1995, un anno straordinariamente fecondo, davvero splendido per Pietro, di grande luce creativa, in cui pubblica più testi e traduzioni (come quella splendida e davvero unica, tentata da Catullo e da Foscolo, La chioma di Berenice callimachea), alcuni di noi partecipano a un libro, anche questo collettivo per spirito, che aveva a fondamento Orazio e la sua Arte poetica, pubblicato in una Fazi delle origini, per la cura di Claudio Damiani e Giacomo F. Rech. Pietro ha partecipato con un suo bellissimo scritto, La pietà delle parole: “pietà delle parole che portano esse stesse offerte funebri a una lingua antica”. Una pietà niente affatto funebre che vuole anzi ricominciare un colloquio, magari per accenni e segni lievi, con gli antichi, farne risorgere il sentimento della lontananza che aguzza la vista. Come lui stesso fa, nel 1998, con Vampe del tempo, quel terso e lucido e pietoso rammemorare un amore che non c’è più, lontano, forse della giovinezza mentre incombono le tribolazioni della malattia. Il che mi conferma quella postura etica diffusa di cui ho scritto altrove e che altro non è che il sostrato perennemente umano, intriso di caritatevole flessione e pietoso sguardo, quando più l’umanità pare arrendersi a un violento post-umanesimo.

Cosa ho fatto per Pietro, dopo la sua dolorosa scomparsa, nel settembre 1999, giusto al volgere del secolo perfino del millennio? Poco, troppo poco. Cerco sempre di lavorare per i poeti amici che se ne vanno prematuramente, per quel poco che posso, quasi per una ricompensa sia pure terribilmente minima. E ho lavorato nelle quinte per far conoscere un poeta che lavorava con inusitata freschezza sui classici e che aveva scritto splendide poesie, certo bel lontane da ogni classicismo e retorica. Non ho scritto molto, a parte un paio di poesiole, una pubblicata in un mio libro, Pietro e i tre cuori, e una inedita, Il trenino di Pietro, ma soprattutto ho provato a trovare interlocutori giovani, che fossero interessati a Pietro, magari annaspando nei flutti del mare aperto. Ho cominciato con una mia allieva, Flavia Giacomozzi, che ha brillantemente, sulle mie indicazioni, compilato una tesi su Tripodo e Salvia. Inutile dire che ha cominciato da zero, ma lentamente insieme abbiamo fatto molto, cominciando a redigere una bibliografia per la quale lui non aveva avuto certo il tempo di compilare, e fino ad allora non esisteva. E intanto mettevo Flavia in contatto con i familiari di Pietro. Prima la tesi nell’anno accademico 2002-2003, subito dopo la pubblicazione della bibliografia in un sito online del “Dipartimento di Studi greco-latini italiani scenico-musicali” della “Sapienza”, infine la tesi si è trasformata nel 2005 in un vero libro, grazie anche all’editore Alberto Castelvecchi, grande amico di Pietro nel cerchio dei filologi: Campo di battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta (antologia di “Prato pagano” e “Braci”). Il libro è stato molto diffuso e letto tra i giovani. 

Poi sono stata sempre all’erta. Ho partecipato ad alcuni dei convegni e incontri allestiti in sua memoria e per la sua poesia. Ricordo quello del 2014, promosso a Frosinone da Tarcisio Tarquini, che ha poi, in un suo scritto reperibile su “Nazione indiana”, auspicato, su mio suggerimento, che era ormai tempo di “una critica oltre gli amici”. Ho molto parlato di Pietro con la cugina Ines Morisani, che ha promosso tre o quattro incontri, con l’appoggio della famiglia, dei figli Giulia e Valerio in particolare, sollevando davvero con la forza delle mani l’interesse per la poesia di Pietro. Quasi improvvisamente è apparsa la nuova generazione dei trentenni, più o meno. Ed è apparsa una giovanissima studiosa, Eleonora Rimolo, che si era rivolta a me per una prefazione al suo libro di poesia e che da studi classici era trasmigrata a studi contemporanei: mi è sembrata la persona giusta a cui far conoscere Pietro. L’ho seguita dunque, ho segnalato il suo nome a Sabrina Stroppa che per il suo terzo volume La poesia italiana degli anni Ottanta, aveva già accolto Tripodo, e la sua tesi magistrale già in corso sulla figura di Lidia ha potuto includere Tripodo, già cultore dell’oraziana Lidia, già punta di diamante della sua poesia.  E siamo qui, in questo nuovo e proficuo percorso di Petro Tripodo che cammina da “Prato pagano” a “Semicerchio”. E sono contenta che il cerchio dell’interesse si stia allargando, con questo numero unico su Pietro della fiorentina “Semicerchio” (nella foto la copertina del numero dedicato a Tripodo, ndr), e dunque a Francesco Stella e Niccolò Scaffai, che si aggiungono ai molti amici di Pietro, che non posso qui elencare, tra cui segnalo Ignazio Visco, amico di Pietro fin dai tempi dei banchi al liceo classico “Tasso” di Roma, e ora partecipe e assiduo agli incontri tripodiani.

Aggiungo infine una notazione che mi preme molto. I giovani arrivano sempre al cuore dei poeti veri. Qualcuno ha bisogno di indicazioni dai maestri, a volte ci arrivano per vie traverse con una velocità irresistibile. Penso a un giovane Gabriele Galloni e ai suoi amici coetanei e vivaci fan di una nuovissima immaginabile scuola romana che in tempi lunghi o meno lunghi sempre ha attecchito a Roma. Lui stesso mi aveva scritto per dirmi che ammirava “Prato pagano” e “Braci”. Colta alla sprovvista non avevo dato troppo peso alle sue parole, a cui peraltro avevo risposto con entusiasmo. Ho saputo dopo che era questo il suo stile nell’avvicinarsi alle persone, tanto più se poeti: presentarsi e sottrarsi, sfuggire. Non sono i primi giovani che leggono e amano la poesia di Salvia e Tripodo. Galloni e i suoi giovanissimi amici leggevano Beppe Salvia e Pietro Tripodo. I grandi editori non hanno pensato troppo a pubblicarli. Ma loro li leggevano, a costo, qualcuno mi ha detto, di sottrarli con qualche rischio a una biblioteca. E poiché ormai anche facebook fa parte dello scrivere una presumibile storia delle lettere si potrebbero assemblare i numerosi post e messaggini di Galloni dedicati alle due riviste e ai due poeti. 

Il 7 giugno di questo terribile infausto anno, a soli tre mesi dalla sua morte, un venticinquenne Gabriele Galloni, già poeta nella sua splendente interezza, stella di un nuovo firmamento e noto al circolo ristretto degli amici, che cercava e miracolosamente trovava riferimenti di poesia, scriveva con qualche tratto autoprofetico, in un post in cui mostrava la copertina verde di Altre visioni di Pietro Tripodo, quella con i pioppi di Morandi: “Immenso Tripodo. La scena poetica romana degli anni 80, radunatasi intorno a riviste come ‘Braci’ e ‘Prato pagano’, è sempre uno scrigno delle meraviglie. Del resto, anche Salvia viene da lì. E proprio per loro due, Salvia e Tripodo dico, è grande il rimpianto per quello che avrebbero potuto fare se fossero vissuti più a lungo. Altre visioniè un capolavoro assoluto; un libro senza tempo e sul Tempo; su ciò che è perduto, gli eoni, la Perdita”.

Sì, in noi v’è meraviglia 

quando il confine della terra 

lasciamo, e inavvertiti

accostiamo inaspettati amici.

(…)

sereni l’un l’altro nel mistero 

come l’acqua da concentriche vasche 

fiotta di cerchio in cerchio,

E riprendendo un’ipotesi teorica elaborata da Demetrio Marra su facebook come spazio letterario si può aggiungere il post-commento a Galloni di Gino Scartaghiande che scrive: “È un vertice della poesia contemporanea Altre visioni, libro anche composito in cui ogni testo ha la vastità poetico-filologica di intere ere”. E quando un giovane che non cito per delicatezza scrive “Sì, ma a leggerlo ora, con un’inversione a ogni verso suona più invecchiato di altri”, Galloni replica implacabile: “È clamoroso”. 
Pietro avrebbe strabuzzato gli occhi al sentire le parole di un giovane a trent’anni dalla sua morte, e riso, felice come una Pasqua. 

(Nell’immagine vicino al titolo particolare di “Orazio e Lidia” di Albert Edelfelt)

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