Raoul Precht
Periscopio (globale)

Parola di Steiner

A pochi mesi dalla scomparsa, tornano in libreria alcuni degli studi più importanti di George Steiner. Shakespeare no, Heidegger sì: ritratto di un intellettuale inquieto che seppe ammettere i propri errori

La dipartita di un grande studioso comporta talvolta la ristampa di alcune sue opere che rischierebbero altrimenti di essere dimenticate o di andare fuori commercio. Non sarebbe forse questo il caso di George Steiner, visto che i suoi libri sono ristampati da Garzanti con sufficiente frequenza, ma non è del tutto casuale che a pochi mesi dalla morte, avvenuta il 3 febbraio scorso a Cambridge, di Steiner vengano ora ripubblicati ben quattro volumi: I libri hanno bisogno di noi, che contiene fra l’altro il discorso tenuto nel 2000 al Salone del libro di Torino ed è un estratto del più ampio Les logocrates; La passione per l’assoluto, una conversazione di taglio personale e autobiografico con la giornalista Laure Adler dal titolo originale Un long samedi; Errata, una vera e propria autobiografia intellettuale in cui svela con rara onestà gli errori commessi, fra cui la sottovalutazione di certe forme espressive come il cinema, o i crucci, come quello di non essersi dato maggiormente alla creazione letteraria; e infine, last but not least, la raccolta di saggi Nessuna passione spenta, che idealmente andrebbe letta insieme a Errata perché i due libri sono del tutto complementari. È su quest’ultima raccolta che vorrei soffermarmi in particolare, perché, sebbene abbia un carattere composito, contiene in nuce molti elementi del pensiero di Steiner che ritroviamo anche in altri suoi brillanti contributi alla saggistica letterario-filosofica, come Linguaggio e silenzio, Dopo Babele o Morte della tragedia.

Pubblicato nell’originale inglese nel 1996, Nessuna passione spenta (No Passion Spent) raccoglie una quindicina di saggi e interventi a conferenze e congressi scritti a partire dal 1978, che coprono quindi gli anni più intensi dell’attività di critico e studioso portata avanti da Steiner nei suoi novant’anni di vita con rara coerenza e soprattutto tenacia. Non potrò soffermarmi per ragioni di spazio su tutti questi saggi, la cui lettura porta – in tutti i sensi – molto lontano, ma cercherò di lumeggiare almeno alcuni temi fondanti e di dare un’idea della prodigiosa ricchezza di letture e riferimenti storici, filosofici e (naturalmente) letterari di Steiner. Il quale già in apertura di libro milita con chiarezza in favore del lettore, magnificandone il ruolo e le numerose funzioni; ma attenzione, si tratta, anzi deve trattarsi, di un lettore avvertito e impegnato, il quale usa la penna o la matita per correggere ed emendare e in un certo senso diventa così corresponsabile, come avrebbe detto Spitzer, dell’armonia del mondo, armonia che il refuso minaccia.

“Colui che lascia passare i refusi senza correggerli,” scrive Steiner, “non è soltanto un ignorante: bestemmia contro lo spirito e contro il senso.” E più avanti: “L’intellettuale è, semplicemente, un essere umano che legge i libri con una matita in mano.” Questa celebrazione dei marginalia, cioè delle reazioni ed emozioni che il lettore fissa sul margine del libro – vero e proprio dialogo fra autore e lettore –, lo induce poi ad analizzare il modo in cui la lettura è cambiata nel corso dei secoli, sottolineando quanto abbiamo perduto a causa di un modo di avvicinarci ai testi che si fa sempre più frettoloso e superficiale, puro intrattenimento, e che non lascia spazio ad alcuna creatività nella reazione del lettore. La centralità del ruolo del lettore è rafforzata per Steiner dal fatto che molto raramente l’autore sarà in grado di conoscere davvero il senso recondito di ciò che egli stesso ha scritto: “Che cosa può sapere l’autore dei significati nascosti o proiettati dalle risonanze reciproche delle potenzialità semantiche da lui momentaneamente circoscritte e formalizzate?” Significati che sarà semmai il lettore-critico, sostiene Steiner, a dover enucleare e mettere in luce.

In uno dei saggi successivi, in cui rimette in discussione Shakespeare, e fra le righe l’interpretazione di assoluta centralità data al Bardo da un altro grande critico suo coetaneo e morto appena pochi mesi prima di lui, Harold Bloom, il Nostro parte da una disamina storica dei rapporti fra Shakespeare e gli altri drammaturghi suoi contemporanei, mettendo poi in luce il ruolo propagandistico svolto dai romantici, ai quali quella figura inarrivabile di drammaturgo andava benissimo quale modello da additare per compiere la propria rivoluzione soprattutto a teatro – si vedano, oltre a Keats, Coleridge e Shelley, le interessanti posizioni assunte nei vari cenacoli letterari dal giovane Stendhal, che Steiner tuttavia non menziona in questo contesto.

Proseguendo la propria trattazione, s’ispira piuttosto, oltre che alla famosa stroncatura di Tolstoj, che trovava il Bardo puerile, immorale, esagerato e insostenibile, a un’osservazione di Wittgenstein, per il quale la reputazione di Shakespeare è il prodotto di secoli di lodi sperticate tributate pigramente da migliaia di professori di letteratura. L’analisi wittgensteiniana, che ricerca in Shakespeare una verità poetica, ma anche etica e filosofica, che non trova, talché rimane puntualmente deluso, è ripercorsa da Steiner con puntiglio e in modo critico, sostenendo l’importanza di tener conto anche di voci minoritarie nell’esame dei testi letterari, che deve essere quanto più limpido, onesto e completo possibile.

Questa considerazione ci conduce a un altro bel saggio, dedicato alla funzione che svolge e ai risultati che può dare la letteratura comparata. Qui Steiner prende le mosse dal concetto goethiano di Weltliteratur e ricorda anzitutto come la letteratura comparata nasca per reazione sullo sfondo delle tensioni fra Francia e Germania, fra la fine della guerra franco-prussiana e l’inizio della Grande Guerra, con le grandi sintesi di Curtius, Auerbach e Spitzer volte a ridefinire la comune latinitas. Ma Steiner non si ferma all’excursus storico, bensì analizza i problemi della disciplina, fra cui il fatto che nessuno studioso conosce mai un numero sufficiente di lingue ed è quindi costretto a rifugiarsi nella traduzione per poter poi procedere con le sue analisi – e questo, naturalmente, dà vita a tutta una serie di problemi specifici (e ancor sempre irrisolti) legati alla possibilità di trasporre significati e sfumature da una lingua all’altra. (Per una trattazione più ampia di questi problemi si veda soprattutto Dopo Babele, in cui, rifiutando molte delle correnti teorie della traduzione, troppo riduttive, pone l’accento sulle relazioni reciproche fra retorica, linguistica, critica della letteratura e filosofia del linguaggio.) Steiner, che peraltro di lingue ne parlava fluentemente quattro, passa poi ad analizzare gli studi tematici compiuti in particolare dai formalisti russi e dallo strutturalismo, con l’individuazione di certe regole fisse e di modelli narratologici che si ripetono, studi di primaria importanza per qualunque approccio comparatistico.

Un altro saggio è dedicato alle differenze profonde a livello culturale fra il modello accademico europeo e quello americano. Avendo insegnato letteratura comparata tanto negli Stati Uniti (Princeton e Stanford), quanto in Europa (Oxford, Innsbruck, Ginevra e infine il Churchill College di Cambridge), Steiner è in ottima posizione per cogliere e approfondire tali differenze. In un passaggio lucidissimo del suo saggio scrive: “L’accettazione su scala continentale di un’escatologia del successo monetario-materiale rappresenta un taglio radicale con la tipologia periclea-fiorentina del significato sociale. L’imperativo centrale e categorico secondo il quale fare soldi non è soltanto il modo abituale ma anche il più utile in cui l’uomo può occupare la sua vita terrestre (…) è una cosa. La convinzione eloquente che fare soldi sia anche la cosa più interessante che l’uomo possa fare è ben diverso. Ed è precisamente questa convinzione a essere così singolarmente americana (con il correlativo che si tratta della sola cultura dove il mendicante non ha nessuna aura di santità o di profezia).” Questo lo porta a interrogarsi sul significato stesso di cultura e sui (limitatissimi) progressi che il singolo (o una sparuta minoranza) può far compiere all’umanità, censurando ogni forma di bigottismo, didatticismo, banalità e disonestà che a suo parere purtroppo allignano nella formazione accademica delle grandi università statunitensi, a cominciare proprio da Princeton, dove i suoi esordi furono accompagnati da polemiche e contrasti perché la sua apertura mentale e l’universalità dei suoi temi non lo facevano apparire abbastanza specializzato.

Vi è poi tutta una serie di saggi dedicata al tema dell’ebraismo e della persecuzione degli ebrei in cui Steiner assume posizioni controverse e molto vicine a quelle di poeti come Paul Celan o di pensatori e studiosi di mistica ebraica come il suo maestro Gershom Scholem. Inizia ricordando che, per l’ebreo, nella relazione con Dio “i concetti di contratto e patto non sono metafore”, ma sono sottoposti dopo ogni disastro o persecuzione patita a una revisione continua “di tipo morale, giuridico e testuale”. Per Steiner la cosiddetta questione ebraica consiste nel comprendere come un popolo abbia potuto sopravvivere con tante prescrizioni e proscrizioni divine, avendo cioè nel proprio destino, e messo per iscritto, l’obbligo a una perpetua condanna a morte, e dove abbia trovato la forza e la tenacia per sopravvivere anche a dispetto, spesso, della divinità, fidando nell’orizzonte messianico finale che la Torah prospetta, ma al prezzo di indicibili sofferenze e “non necessariamente nel tempo secolare”. Steiner ipotizza che solo la dispersione, l’esilio e il viaggio perpetuo abbiano potuto conferire agli ebrei quell’inesauribile vitalità che (per ora) li ha salvati in quanto popolo. Seguono alcune mirabili pagine d’interpretazione di Kafka, Mandel’stam e del Tradimento dei chierici di Julien Benda, che da sole valgono l’acquisto e l’attenta lettura del libro. Ricorda fra l’altro Steiner – e ritorniamo qui al primo motivo menzionato, quello del lettore con la penna in mano – come per la tradizione ebraica il Male si sia insinuato nel mondo a causa della trascrizione errata di una singola lettera o parola al momento della dettatura della Torah da parte di Dio; e sottolinea come l’ebreo divenga adulto solo nel momento in cui “gli viene chiesto e permesso di leggere correttamente un passo della Torah” e la sua vita si converte dunque in quella del lettore costantemente all’erta, che non lascia passare alcun errore, soprattutto nei testi sacri.

Accennavo prima a Paul Celan. Il suo Salmo è al centro di un’acuta analisi, imperniata soprattutto sulla rappresentazione del Roveto Ardente e sul famoso passaggio in cui Celan afferma “Dir zuliebe wollen / wir blühn. / Dir / entgegen” nonché sul valore da dare a questo “entgegen”, che può significare “verso” ma anche “contro”. (Ne abbiamo già parlato qui, nel contributo dedicato recentemente a Celan). Scrive Steiner: “Celan cancella il nome di Dio come la Shoah ha cancellato i nomi, le identità delle sue vittime. Nel suo “anti-salmo” Dio è Niemand, un nessuno, un outis nel regno infernale dei ciclopi. Eppure è, come nella più tetra delle teologie negative, un Niemand carico di assenza, un vacuo causato dalla sua ritirata o dalla sua impotenza o dalla sua malevolenza gnostica. (…) Adesso è Dio, non l’interlocutore umano, a venire cacciato dal terreno che il massacro bestiale di quello che una volta era il suo popolo eletto ha santificato e reso inaccessibile a Lui.”

Cambiando ancora argomento, il ruolo, per nulla scontato, dello studioso e dell’intellettuale in una società come quella europea, in cui fascismo e nazismo avevano potuto allignare fin quasi a provocare la scomparsa della civiltà, si pone fin da subito al centro delle riflessioni di Steiner, che, ricordiamolo en passant, era nato in Francia nel 1929 da una famiglia di ebrei viennesi e da bambino si era salvato dall’Olocausto per puro caso, grazie a una soffiata che il padre ebbe da un conoscente filonazista poco prima che cominciassero le persecuzioni più feroci. A colpirlo è la facilità con cui tanto lo scrittore di genio (si veda Sartre, o ancor più Céline) quanto lo studioso, il mandarino, a cominciare da quell’Heidegger che Steiner ha sempre considerato come uno dei suoi maestri o da Lukács che ha studiato con acribia, possa essere attratto dalla violenza e dai regimi autoritari, come se l’immersione nell’astrazione e l’intransigenza testuale fossero fattori in grado di favorire e provocare una simile attitudine alla violenza passiva, e di dispiegare nell’intellettuale una sorta di perversa fascinazione.

Mi fermo qui, anche se ciascuno dei saggi raccolti in questo volume meriterebbe una trattazione approfondita, così come del resto i volumi menzionati in apertura, alcuni dei quali hanno rappresentato altrettante pietre miliari negli studi all’incrocio fra comparatistica, teoria della traduzione e storia della cultura. Aggiungo solo che ruotano sempre intorno a controverse questioni di filosofia del linguaggio, e in particolare al rapporto fra linguaggio e storia, anche due prove narrative di Steiner meno note dei saggi, ma altrettanto significative e controverse: i romanzi Proofs (Il correttore), del 1992, un apologo sui pericoli dell’utopia e del messianismo, e The Portage to San Cristobal of A.H. (Il processo di San Cristóbal), del 1981, in cui Steiner immagina che Hitler non sia morto ma si sia nascosto in Brasile e che un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, debba catturarlo per processarlo in Israele. Partendo dalle potenzialità negative che il linguaggio può assumere, Steiner accosta la figura di Hitler a quella di un falso messia, Shabbetaj Zevì (menzionato peraltro anche in No Passion Spent), e il confronto fra le due figure lo porta a ipotizzare che l’uso spregiudicato, propagandistico e criminale del linguaggio abbia fatto di Hitler in certo qual modo il “vero” e occulto messia, il quale ha consentito alla fine con la sua persecuzione la creazione dello Stato di Israele e la protezione forse definitiva del popolo ebraico. Stato di Israele al quale peraltro non andavano le sue simpatie, in cui Steiner si rifiutò di andare a vivere (rimase sempre un ebreo della diaspora) e che considerava, per la sua stessa esigenza di sopravvivere in quanto Stato e di militarizzarsi, una specie di tradimento dell’ebraismo, giungendo a scrivere (torno a No Passion Spent) che “ogni essere umano umiliato, torturato o cacciato di casa da un ebreo costituisce una vittoria postuma di Hitler”. Per Steiner sarebbe paradossale e doloroso se tutte le sofferenze patite dagli ebrei dovessero condurre, quale risultato finale, unicamente alla creazione di uno Stato armato e violento come tutti gli altri, dove, come in tutti gli altri, regnino speculazione, corruzione e mafia, senza alcuna specificità o eccezione. La normalità, ragiona Steiner, sancirebbe davvero la fine dell’ebraismo e della sua miracolosa sopravvivenza. Anche se poi, relativizzando qual era suo costume, osserva che forse gli unici abilitati a sciogliere l’aporia sono coloro che abitano in quel paese e vivono quotidianamente i pericoli e le minacce a cui esso è esposto.

Facebooktwitterlinkedin