Giuliano Compagno
È morto Diego, viva Diego

Impossibile Maradona

Di Maradona vogliamo celebrare il passaggio simbolico nel mondo dei giochi, il suo resistere a ogni idea di combinazione, di perfezione. E la sua fallibilità, che andava ben oltre l’ipocrisia di quella società di compulsivi a cui egli non apparteneva

Diventai del Napoli che ero un bambino in cerca di una maglia. All’epoca, se non avevi un padre tifoso oppure legatissimo alla città natìa, la squadra la sceglievi verso i sei anni e non era mai la stessa del fratello maggiore. Enrico era già della Roma e quell’estate il Napoli aveva acquistato un giocatore formidabile: Omar Sivori. Con lui sognavo che il Napoli avrebbe finalmente sconfitto gli squadroni del nord. Non accadde. In oltre vent’anni vinse una Coppa Italia. Io ero trattato con pietoso affetto dai tanti amici juventini, interisti o milanisti, che insomma avevano scelto di vincere facile. Mentre io, di perdere sempre, me l’ero proprio andata a cercare. Romano di origine siciliana e persino del Napoli! Quale pastrocchio!

Era una notizia che temevo tanto. Sapevo che, nel leggerla, ci saremmo ritrovati al San Paolo il 10 maggio del 1987 senza Diego Armando Maradona. Che fosse una folla sarebbe tanto per dire, perché ciascuno era meravigliosamente solo, come accade quando si gioisce in tal misura da caderci dentro. Dentro se stessi. Il senso di un’intimità lo provai da quel fischio finale sino a notte fonda, a passeggiare per Napoli come ne fossi cittadino onorario.

La morte di Maradona, a me non arriva col senno di poi. Non mi consola la verità di un organismo stremato che mai sarebbe transitato nel corpo di un ottuagenario. Me lo ha detto, commosso, un amico, uno di quelli che sanno leggere il calcio come una materia umanistica. E aveva ragione, a dirmi di una precocità un po’ scritta. Eppure sento che ciò non è avvenuto. Che non è morto. Può mai morire chi non ha eguali? Vi sarà un luogo della memoria adatto a contenerlo?

Emir Kusturica, nel 2008, ci raccontò di un uomo perduto e poetico, il quale nemmeno sapeva di che gloriarsi, tant’era ovvio che fosse l’unico a saper vincere da solo: 1986. Da solo, per sette volte di fila. Non è calcio, è una narrazione differente, è un orizzonte che sorvola una traversa e la palla termina chissà dove. A me non interessa collezionare i suoi prodigi, perché sono stati tali e tanti da confonderci persino stasera, da farci provare una mancanza che è pochissima rispetto alla sua presenza. A me preme il suo passaggio simbolico nel mondo dei giochi, il suo resistere a ogni idea di combinazione, di perfezione. La sua fallibilità, che andava ben oltre l’ipocrisia di quella società di compulsivi a cui, in sostanza, egli non apparteneva. Intendo dire, chi mai oggi, dopo aver letto Zone, si soffermerebbe sulle dissolutezze ancor più che sulla fantasia impetuosa di Guillaume Apollinaire?

Scendevi in acque così chiare
Io annegavo nel tuo sguardo.

Due righe, due tocchi. Vi sono poeti in qualsiasi campo da gioco, che un loro verso ti cambia un secolo e intanto hai vinto per la prima volta su coloro che vincevano con qualsiasi cosa stringessero tra le mani. Com’è stato possibile, non che sia mancato oggi ma che sia esistito per sessant’anni uno così sublime… Così indifeso come imbattibile. Così leale. Amico. Fosse stato soltanto calcio, oggi piangerei un campione. E invece a me fa piangere Maradona che canta se stesso impudicamente e socchiudendo gli occhi domanda alle figlie di raggiungerlo sul palco e abbracciarlo. Loro si lasciano convincere da quell’impercettibile espressione da padre. «Non lasciatemi solo, ragazze.» Quanto a me, per quel che conta, il calcio muore qui. A me importa che Diego non finisca mai. E se servirà continuerò a piangerlo vivo, come se assurdamente mi mancasse.

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