Marta Morazzoni
I racconti di Maria Attanasio

Il valore dello scrivere

Come uno dei suoi personaggi - che passa dai colori e dalle forme dell’argilla ai colori e alle forme della grammatica - le storie di coraggio raccontate dall’autrice sullo sfondo della Sicilia del ‘600, rivelano la sua grande “capacità di piegare la logica della prosa alla frantumazione del verso”

Maria Attanasio la chiama Calacte ed è la città dell’anima e il luogo delle sue narrazioni, ma sotto questo nome, che in realtà rimanda a un territorio della costa occidentale siciliana dall’etimo affascinante, Bella costa, si nasconde la memoria favoleggiata di Caltagirone, città natale dell’autrice. Le sue strade, le case povere che fanno corona ai palazzi dei nobili sono più che un fondale di scena dove si dipanano storie d’amore, di rivalsa, di resistenza contro le convenzioni del tempo. Le raccoglie insieme un piccolo libro dal titolo Lo splendore del niente e altre storie (Sellerio, 232 pagine, 14 euro).La fine del 1600 è il tempo di questi racconti, un tempo documentato eppure favoloso, dentro cui vivono persone, donne soprattutto che affermano la loro diversità e la sostengono a dispetto di tutto, uscendo dall’ombra per stagliarsi nella luce in una terra di grandi contrasti: sole e buio, il buio che a volte viene dalla troppa luce. 

Nel cantare, più che raccontare, le vicende dei suoi personaggi, da Francisca che, vestita da uomo, va a lavorare in campagna insieme agli uomini, a Ignazia cui l’essere donna nega la possibilità di esprimersi nel canto come le sue qualità e la sua passione vorrebbero, Maria Attanasio evoca un paesaggio aspro e avvolgente a un tempo, e qui entra in gioco la sua qualità di poeta prima che di narratrice, la capacità di piegare la logica della prosa alla frantumazione del verso. Questo scelta espressiva le permette di costruire figure di grande immediatezza e potenza, disegnando storie che toccano l’assoluto, con scelte estreme e portate alle estreme conseguenze, dalla morte tra le fiamme di una donna del popolo per amore del marito, al lungo silenzio della nobile Ignazia, cui è avvenuto di nascere troppo presto, in un tempo e in un luogo che non possono capire, nell’etimo di ‘contenere’, le sue alte qualità. 

Lo stile della Attanasio ha bisogno di poche, secche pennellate per costruire un mondo e i suoi abitanti, per farcene sentire la suggestione senza bisogno di enfasi. E qui mi pare di riconoscere lo spirito della sicilianità severa, di poche parole e molta sostanza; quella che conosciamo nel mondo amaro di Giovanni Verga, che continua nel tempo e nella riflessioni di Leonardo Sciascia, nella misura straniata di Bufalino. Proprio lui aveva definito lo scrittore “copista e legislatore del caos, guardiano della legge e insieme turbatore della quiete”. Un paradosso che sottende l’equilibrio tra realtà e immaginazione, tra storia e interpretazione, ma soprattutto richiama alla potenza della parola che sa dare corpo all’immagine. Non è un caso che Giacomo Polizzi, personaggio della Premessaai racconti, vasaio incolto, scopra a un certo punto la scrittura, il suo potere e la sua seduzione, e alla scrittura dedichi il resto della vita, raccontando i fatti della sua città. Dai colori e dalle forme dell’argilla ai colori e alle forme della grammatica e della sintassi che nella sua incultura riesce a comporre. Mi viene in mente allora un’analogia appesa a un filo con l’ultimo romanzo di Kader Abdolah, l’iraniano olandese che Iperborea ha reso popolare anche in Italia. Nel suo ultimo lavoro, Il sentiero delle babbucce gialle, racconta di un regista iraniano di chiara fama, finito a Delft in esilio dalla sua terra e dalla sua lingua, che comincia a scrivere la sua storia, perché scrivere si rivela una funzione narrativa potente, quasi più dell’immagine in cui si è espresso sempre. 

È una coincidenza alimentata magari dalla mia fantasia, che cerca quanti più argomenti può per dare corpo al valore dello scrivere, ma in questo c’è una luce che rischiara la strada della letteratura. 

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