Loretto Rafanelli
Poesia e teatro secondo Roberto Mussapi

Eternità della voce

Parola come strumento della visione, visioni in forma sonora, suoni da cui nasce il prodigio. Da “I nomi e le voci”, monologhi in versi emblematici di un intero percorso poetico, (variamente interpretati sui social Mondadori), prende avvio il dialogo con l’autore

In tempi di covid-19 la cultura, per non fermarsi, ha intensificato la sua presenza sul web. Visite a musei virtuali, presentazioni di libri, lezioni di storia, filosofia, riflessioni spirituali, senza contare la scuola a distanza. Anche la poesia sparge le sue voci su internet. Così, l’ultimo libro di Roberto Mussapi, I nomi e le voci, a cui succedeoggi ha dedicato al momento della sua uscita un numero speciale, molta attenzione riceve sui social Mondadori , editore del volume nella collana dello Specchio (su Facebook ‘Poesia Mondadori’). Riflessioni e letture dei monologhi in versi, tra cui i più recenti di Laura Marinoni, Valerio Binasco, Teo Ciaravella, Walter Le Moli, Omar Galliani. Un’epica quella di Mussapi che esprime «emozioni che si trasformano in immagini archetipiche del viaggio umano». A parlare della sua poetica, di cui questa nuova raccolta è emblematica, è lo stesso autore in questo dialogo con Loretto Rafanelli.

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Loretto Rafanelli – “I nomi e le voci”, il tuo libro di monologhi in versi, pubblicato recentemente da Mondadori (monologhi interpretati in questi anni da grandi attori: Marinoni, Popolizio, Bessegato, Ornella Vanoni, Ivana Monti, Paola Pitagora, altri…), mi pare che riproponga i temi ricorrenti della tua poesia, senz’altro definibile come una delle più centrali e decisive dei nostri anni. Riconosciamo: l’alta vocalità, la forza irriducibile eppure accogliente e caritativa, la capacità di rivivere molteplici presenze di oggi e del passato, la ricchezza di senso, lo scorrere tragico e festoso della storia e ancora il tratto «riflessivo ed esplicito… una identità di universale e di singolare» come ebbe a dire il grande poeta, nonché tuo caro amico, Bonnefoy, infine quella tua capacità, come dice, centrando il tutto, il Nobel Soyinka, di esprimere «emozioni che si trasformano in immagini archetipiche del viaggio umano».
Appurato questo filo ininterrotto tra la tua scrittura in poesia e quella dedicata al teatro, possiamo comunque pensare che vi sia una “crescita”, allorché scrivi di teatro, che ti consente di entrare in uno spazio più ampio, una sorta di plurilinguismo. Peraltro i nomi e le voci, come recita il titolo del libro, fanno intendere, appunto, uno scenario vasto e articolato, con una molteplicità di presenze e di mondi, anche interiori, quasi uno scorcio dantesco, allo stesso tempo assoluto e terribile, ma pure pietoso e incline a una continua vicenda dialogante ed accogliente.
Ma se approdare al teatro è riuscire a entrare in un terreno ulteriore, possiamo anche dire che il tuo ‘ritorno’ alla poesia non ti riporta alla situazione di scrittura precedente. Vale a dire che il “dopo” si presenta con fisionomie diverse, perché penso che il teatro arricchisca e “complete” il poeta, ponendolo al di là della primaria parola per collocarlo infine in una visuale più ampia e complessa. 

Roberto Mussapi – Libri come Gita Meridiana, La stoffa dell’ombra e delle cose, e altri, vivono al di fuori della scrittura teatrale. Sono poesia lirica. Ma con la cifra sin dall’inizio germinale, e poi esplicita, nella mia lirica, che tende a epicizzare il fatto lirico stesso, da un lato, dall’altro a drammatizzarlo. Mi accorgo che questo procedimento, inconscio per lungo tempo, e che poi il poeta riconosce a posteriori (di fatto, quando non più approda, ma sbarca al teatro) riguarda due degli autori che più influenzano la mia formazione poetica, tra quelli del Novecento: Eliot, da quando avevo quindici anni, e Luzi, dai venti in poi. Entrambi sono poeti che a un certo punto si ritrovano autori di teatro. E entrambi, a posteriori, cioè dopo avere scritto teatro e averne visto rappresentazioni (fatto indispensabile, poiché oggettiva l’opera che da quel momento non sarà mai più tua, per sempre, più non tua ancora della poesia stampata nel libro che è del lettore ma resta anche tua; no qui, ora, quell’opera è degli attori e di registi che l’hanno messa in scena, si è scorporata da te), si accorgono che il teatro era già nella loro poesia precedente. Luzi è esplicito in tal senso: «Ogni volta che mi è stato domandato della mia scelta per il teatro ho sempre risposto di non aver mai voluto diventare un autore drammatico. Il dramma o la drammaturgia che porta alla scena era implicita nei miei testi; insomma, a un certo punto la morfologia si è esplicitata, ma il contenuto drammatico era già nella poesia stessa».
Per me è accaduto lo stesso: mi sono accorto che il teatro era nella mia poesia dalle origini, nella mia lirica. E che il teatro che nasce in seguito è anche poesia. Non solo poesia, grazie a Dio: in tal caso non sarebbe teatro. Ho avuto a tratti questo timore, che fosse esclusivamente poesia, ma sul fatto che questi monologhi in versi fossero anche teatro, ho avuto rassicurazioni indiscutibili, perentorie: quanto afferma Nicola Fano (https://www.succedeoggi.it/wordpress2020/07/roberto-mussapi-teatro-e-una-parola/) conoscitore e esegeta del teatro assoluto e in assoluto, esprime in forma teorica quanto sostenuto da attori e registi come Massimo Popolizio, Laura Marinoni, Ivana Monti che considerano da sempre questi miei monologhi o dialoghi in versi vero teatro. Altri, come Valter Malosti, affermano addirittura che il teatro puro è quello a cui appartiene questo mio genere, che discende dalla poesia dei tragici greci e degli elisabettiani. Anche un altro Walter, ma con la v doppia, Walter Le Moli, sostiene che questo è teatro assoluto e il genere di teatro che predilige, accanto a quello cantato, o meglio, aggiunge, «questo in versi è già cantata».
Condivido quanto afferma Luzi che non sente differenza tra il poeta e il drammaturgo, condivido in parte. Mentre a volte mi trovo a condividere a volte meno l’affermazione di Derek Walcott, secondo cui sono la stessa cosa. Ma sia Luzi sia Walcott hanno sempre scritto teatro in versi, e nel caso di Mario il teatro più felice, a mio parere, è il primo e l’ultimo, vale a dire SpaziaLa passione, i due testi svincolati dall’intreccio teatrale, più naturalmente oracolari. Quando Luzi affronta la storia, la trama, e il dialogo non assoluto ma funzionale all’azione, il suo teatro brilla di accensioni liriche, ma non è assoluto, quanto la sua poesia. La storia di Histrio, o di Rosales, è drammaturgicamente ingenua, debole in scena.
Quello di Walcott è esplicitamente un volto mitico della sua poesia, una parte del suo canto in cui la voce si moltiplica, sì, stessa stoffa della sua opera poetica… In Eliot invece l’aspetto mimetico del teatro emerge fortemente, portando il rovello in quello che resta comunque dramma borghese da Cocktail party all’Impiegato di fiducia. Forse anche in lui, come in Luzi, i momenti teatrali più alti sono però quelli più congenitamente poetici, come Assassinio nella Cattedrale e i Cori della Roccia.
Io, accanto al teatro in versi, sono anche autore di drammi in prosa, con quattro o cinque personaggi. 
Sento affinità tra la mia poesia e il mio teatro, ma non identità. Questo però lo penso io. Paola Donati, Paolo Bessegato, Raffaele Esposito, Gigi Dall’Aglio, che hanno messo in scena Villon, mio primo testo teatrale, in prosa, sostengono che è scritto non in versi ma è teatro poesia. (Foto di Roberto Mussapi © Montagnani).

L.R. – Senz’altro Mario Luzi fu un tuo grande punto di riferimento poetico, ma crediamo che lo sia stato anche nell’ambito drammaturgico, però ci sono differenze sostanziali tra te e lui, innanzitutto perché tu privilegi frequentemente il monologo, che pare essere il tuo respiro plausibile e necessario, oltre che una architettura fondante un pensiero, monologo che è invece pressoché assente nel maestro fiorentino; quindi perché Luzi riteneva decisiva la scena collettiva, con il coro che era una presenza continua nei suoi drammi, coro che diveniva una espressione pressoché identitaria del suo pensiero umano e sociale, mentre nel tuo teatro il coro non assume una tale rilevanza?

R.M. – Condivido perfettamente questa considerazione. Lui (nella foto, ndr) fu subito, per me, lo scrissi negli anni Settanta, il massimo poeta italiano del Novecento. Intendo il Novecento di tanti grandi, tra cui primeggiava l’intoccabile binomio Montale Ungaretti. Luzi per me andava oltre ancora… Uno dei maestri della mia poesia, tra quelli del mio tempo, con Rilke, Yeats, e poi, un po’ più del mio tempo, Eliot, e poi Pound, Thomas, Bonnefoy. Ma l’influsso di Luzi sul mio teatro fu minimo: forte quando scrisse Spazia, poesia che diviene teatro fuori dalla scena, poesia drammatica pura. Sì, quello fu influente. Ma in parte. Io coltivavo in me il teatro dall’adolescenza. E quando prese forma il teatro di Luzi più drammaticamente articolato, teatro per la scena, non mi parve molto convincente. Il Luzi autore di teatro dopo Ipazia, e prima della Passione, non è un mio punto di riferimento. La sua prima e l’ultima opera drammaturgica sono fuori dai canoni del teatro tradizionale, sono due oratorii, l’azione è nella parola. Capolavori. Ma Hystrio, Rosales, il Luzi che scrive storie da mettere in scena non mi ha mai convinto. Luzi ha cominciato a andare a teatro quando hanno iniziato a rappresentarlo. Io ci andavo a quattordici anni, conoscevo e frequentavo gli attori, ho studiato recitazione, interrompendo presto perché sapevo bene che ero un poeta, con una vita che mi attendeva diversa da quella di un attore o un regista, ma l’ho fatto comunque, per poco tempo ma convinto, per integrazione della mia ricerca, per necessità formativa.

L.R. – L’elemento epico, mitico compare anche in questo tuo libro, ma possiamo semplicemente ricordare che questo per te e per altri scrittori, è semplicemente un riappropriarsi e un proporre un pezzo di vita collettiva smarrito o oscurato, che può invece condurci a una virtuosa conoscenza del proprio essere in questo mondo? Non pensi che sarebbe utile dare quindi una chiave di lettura di questo approccio, e illustrare il senso profondo del riprendere mondi lontani (Enea e Didone, Arianna, Cassandra, Penelope), apparentemente fuori dal nostro contesto quotidiano?

R.M. – Io agisco nel mito. Che non è la mitologia. Ho una concezione eliadiana, non certo neoclassica del mito, che non è assolutamente esclusiva del mondo classico. Infatti considero i personaggi che hai citato, “figure del mito antico”, nel mondo greco e romano, mentre appartengono analogamente al mito, almeno nelle mie intenzioni, i protagonisti della Grotta azzurra o di Lezioni elementari
Il mito non è solo antico, perché non ha tempo. Antico ma originario, e quindi contemporaneo. O è sempre o non esiste. Il problema è svelarlo. I poeti sono al mondo per questo.

L.R. – Il tuo libro riprende miti, storie, vicende che ci parlano di diversi mondi, dall’antichità classica all’Oriente, all’oggi, ciò credo sia il frutto della tua cultura affatto etnocentrica, la quale ti permette di avere un respiro pluriculturale, plurilinguistico, e una sensibilità rara che significa rispetto per l’“altro”. Sei lontano quindi, penso anche per via del tuo straordinario tradurre, da una visione asfittica, chiusa nel proprio cortile, come accade a molti scrittori. Ecco, questa tua attenzione a scritture e culture “altre”, credo sia il resoconto più evidente della tua vita di poeta.

R.M. – Sono comparatista nel Dna, non posso pensare alla poesia contemporanea senza riferirmi a Shakespeare, e a Shakespeare senza Eschilo. Ma non posso lasciar fuori Plotino, o Jung, o gli inni orfici. Questa fu la ragione principale della mia attrazione per Pound, questa affinità: per scrivere nel Novecento Pound non guarda solo a Yeats e Eliot, ma, contemporaneamente, a Properzio, Cavalcanti, ai poeti dell’antica Cina. Sono comparatista non solo a livello linguistico, ma anche disciplinare, mi sento naturalmente antropologo.

L.R. – Concordo con i tanti che sottolineano la bellezza del testo La Grotta Azzurra, con la storia semplice e per certi versi eroica della persona addetta alle pulizie di un bagno autostradale. Intendevi con questo scritto porre in risalto in generale la condizione della donna o semplicemente porre all’attenzione la distanza che intercorre fra la realtà e il sogno? 

R.M. – Niente di tutto questo. Ricordavo uno dei primi autogrill, autostrada Genova, uscita Celle Varazze, che i “foresti” recitavano come il cartello, Piani di Ivrea. Autogrill unico, non uniformato a uno standard, come erano unici tutti i pochissimi, allora, anni Sessanta. Incombente sul mare, il bagno di piastrelle azzurrissime, siamo vicini ad Albisola centro di ceramica, siamo nel Mediterraneo ceramico per nascita. Mi hanno sempre colpito le donne che sovrintendevano alle toilettes degli autogrill: pulitissime, grembiuli azzurri, rumore di acqua corrente come in un fondale sottomarino e loro a sovrintendere quella sottosfera al confine con il regno delle acque. Facendo il lavoro più umile, pulendo cessi. Lo ha scritto meglio di me, nella postfazione al libro, Elio Gioanola: permetti che la citi, letteralmente, qui nell’intervista, che è palesemente scritta, il lettore stia tranquillo, non la sto recitando a memoria:  «Sul deciso stacco della poesia di Mussapi dalla tradizione novecentista mi sento di insistere ancora di più dopo la lettura di La Grotta Azzurra, che mi sembra davvero uno splendido, definitivo congedo da tutte le dolenzie esistenziali, espressionistiche o no, dagli istrionismi e piccoli realismi neocrepuscolari, dagli sperimentalismi delle avanguardie antiche e recenti (…) Ebbene, La Grotta Azzurra è un vero trionfo della “luce” che tanto più ferma e irradiante scaturisce dal confronto con i regni sotteranei a cui si oppone (…) La storia di Maria, che dall’azzurro delle piastrelle di un cesso d’autogrill va alla conquista dell’azzurrità dei cieli di Giotto, diventa la metafora stessa della poesia».
Poi Celle Ligure, il sogno del cabriolet dell’allora quindicenne (sogno che avrei realizzato, a suo tempo), una storia d’amore, una ragazza bella come le vedevo al mare, sentendo la più grande canzone di sempre al pari di My way, ma superiore come testo, Sapore di sale… Mentre scrivevo quel libro ascoltavo, come sempre, la stessa musica, auricolari, volume alto e pieno, in  quel caso Nick Cave…

Frequentai per breve tempo Paola Pitagora (nella foto, ndr), le parlai della cosa, eravamo a cena una sera con Teresa (la pittrice Teresa Maresca, moglie di Mussapi, ndr) sul lago di Garda, Paola mi fece scoprire il pesce persico impanato. Le parlai a cena della storia: «ma una storia nei gabinetti, forse la sposto nel bar di un pub, non vorrei che diventasse testoriana. «Non corri il rischio, Bob». Ripartii, le avrei letto a Roma l’apparizione di Mastroianni, ne fu commossa. L’avrebbe letta, a Milano e a Torino, con la sua voce che mi aveva suscitato l’incanto, ascoltandola una sera in una delle sue rare letture poetiche. Incanto perdurante, e poi ripreso da Miriam Mesturino che la portò in scena per due anni, straordinaria, regia limpida di Nanni Garella, le luci di Gigi Saccomandi, che conobbi e battezzai Manolenta, fa con le luci quello che fa Eric Clapton – slowhand – con la chitarra. Poi, dopo averle parlato e letto Marcello a Roma, continuai a scrivere, ricordo tutto e non  ricordo niente. 

L.R. – Dovessi dire quale sia il monologo dove hai posto una emozione particolare e la tensione più alta, direi Lezioni elementari. Monologo sul maestro Gabriele Minardi, il testo penso meno monologante, perché è un’intera comunità che ci parla, quella degli alunni e del maestro, dove ognuno per la sua parte ravviva una storia epica di una lontana infanzia, età terribilmente distante, ma che per te rimane un periodo da non rimpiangere perché vissuto come momento di formazione culturale ed esistenziale, fondamentale nel tuo percorso umano.

R.M. – La partenza da un’intuizione: il ricordo di una vecchia fotografia di classe. Telefonai a Maria Vittoria, la figlia del mio maestro. Ci incontrammo, di corsa, perché quel giorno ero passato a trovare i miei genitori a Cuneo, ma poi dovevo scappare perché avevo un appuntamento in un teatro di Torino. Quel giorno nevicava e Maria Vittoria venne a prendermi in macchina sotto casa dei miei genitori. Quando lei mi mostrò quella fotografia, fu una grande emozione. A distanza di cinquant’anni ho riconosciuto tutti i volti dei miei compagni di classe. La poesia è questa: riconoscere quei volti, dando loro eternità. Ho pubblicato il libro nel 2009, almeno dieci anni dopo aver composto il poema, che scrissi di getto e concepii come monologo teatrale-poetico. Volevo che venisse pubblicato come opera singola, non lo concepivo parte di un libro, e allora, in quel momento, rimandai. Maurizio Cucchi lo lesse e ne fu entusiasta. Inizialmente non ero molto convinto: talmente abbondante era la materia autobiografica che temevo fosse troppo autoreferenziale. Maurizio mi rassicurò: secondo lui, non era così, perché si parlava certamente dell’infanzia, ma non solo, anche più in generale dell’universo. È uno di quei casi in cui altri comprendono il tuo lavoro meglio di quanto tu non possa fare. Anche Francesco Napoli, mio critico amico e solidale, oltre che critico e storico in generale, ne fu ultraconvinto, e già Fabrizio Pagni, da subito. Infatti, scritto nel 2005, uscì ben dieci anni dopo nel 2015, per l’editore Stampa 2009, collana diretta da Maurizio Cucchi. Ora è qui, tra i Nomi e le Voci

L.R. – Tu che sei uno studioso e un critico di teatro nonché uno dei pochi poeti drammaturghi, come pensi si possa conciliare la parola scritta con la vocalità, il silenzio della parola con l’esibizione dei corpi e degli spazi, l’“isolamento” poetico con l’azione, e ricordando, per inciso, che lo stesso Luzi riteneva che non si potesse dire “teatro di parola”. 

R.M. – «Il teatro non è mai di parola»: dal Vangelo secondo Binasco. Soprattutto nei suoi autori massimi. Binasco si riferisce a Shakespeare, a Molière, e specifica che il teatro non può essere mai “solo” di parola.Lo stesso concetto alla base di un libro fondamentale di Nicola Fano, Che cos’è il teatro (Succedeoggi, 2018). Il miracolo del teatro, mai astratto. D’altro canto, aggiungo, anche la poesia, quella assoluta, non è mai solo di parola: la parola è strumento della visione, il fine ultimo della poesia. Una visione in forma sonora, come è stato il suono a far nascere il prodigioso lavoro della voce in simbiosi con gli occhi.

L.R. – E oggi, questi monologhi?

R.M. – Molti sono stati letti, nel corso di vent’anni, interpretati da attori, che a volte li avevano richiesti. E molti sarebbero stati interpretati dagli stessi e altri attori, dopo l’uscita del libro. Dalla poesia teatrale di questo libro, erano in programma, nella primavera estate 2020, alcune  serate, con attori, registi, e in teatri  di primo livello e da me  amati. Laura Marinoni (nella foto, ndr), Bessegato, Edoardo Siravo, Miriam Mesturino, Le Moli, Binasco, Malosti, Oricco. All’uscita del libro, maggio, due mesi dopo quella prevista, ovviamente e giustamente, tutto era andato a monte, rinviato a ottobre novembre e ora andati a monte di nuovo. Ma gli attori non hanno minimamente rinunciato. Intanto, nel frattempo, anzi, subito, a maggio, da un’idea di mia moglie Teresa è nato qualcosa di piccolo, ma emozionante.
Una presenza comunque della voce: un filmato di 3 minuti circa, in cui un  attore si presenta, cita il libro e ne legge dei versi. Sui social Mondadori, entusiasta, oltre che sui miei.
Sono video bellissimi. Tre minuti di tensione perforante. Ivana Monti se ne è presi sette, ha fatto un film, scegliendo l’abito, la scenografia, i colori.
Non sbagliavo, a quattordici anni, a sentire che ero e sarei stato un poeta, e che amavo il teatro non meno della poesia, ed ero affascinato dagli attori, che rischiano la loro vita più ancora dei poeti: sul palco, dove lo spettacolo ogni sera dilegua, senza la memoria che accompagna il poeta, la pagina scritta. Vivono la poesia in assoluto.
Li ringrazio, mi sento loro complice e fratello: la voce non muore mai.

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