Valentina Fortichiari
A proposito di "Cuore di furia"

Encomio del narratore

Romana Petri ha (quasi) messo in parodia l'avventura editoriale e umana di Giorgio Manganelli. Ne è venuto un romanzo formidabile, dedicato non solo all'arte di scrivere, ma anche a quella di ascoltare. E di vivere

Perché ho amato tanto il libro di Romana Petri: Cuore di furia (Marsilio Romanzi, pp 154, €16) ? L’ho amato, sottolineato, riletto, perché dentro ci sono la vita e il mondo editoriale, ma anche molto di più, materia forgiata come metallo a fuoco lento. Sono innumerevoli i temi sui quali merita fermarsi a meditare, e davvero non basta una lettura.

Il rapporto padre-figlia. Romana Petri è stata molto amata da un padre ingombrante, famoso, un padre speciale; lo ha venerato e gli ha dedicato un libro (Le serenate del ciclone, Neri Pozza 2015). Mario Petri, “ciclone romantico”, era un uomo affascinante, prestante, sportivo, dalla voce possente (basso-baritono), attore, uomo colto, buon padre, che sulla figlia ha impresso una sorta di marchio. Era solito portare la bambina sulle spalle, nuotando mentre le raccontava storie, e certamente, fra queste, la storia che più l’ha incantata è stata quella di Jack London, scrittore adatto ai loro temperamenti, al punto che Romana ne ha raccontato vita e opere nel romanzo Figlio del lupo (Mondadori 2020).

Romana Petri è cresciuta in un alveo familiare sereno (da lì forse l’amore per le storie familiari intrecciate e tentacolari), nella venerazione per due genitori felici, bellissimi. In questo libro ha toccato invece gli opposti: l’incomunicabilità fra un padre anaffettivo e una figlia trascurata, abbandonata, perduta nel dramma di un inseguimento perenne, ogni volta frustrato, e nella condanna a un eccesso d’amore che si intreccia con l’odio. Il bisogno di riscattarsi agli occhi del genitore è una sconfitta che potrebbe ispirare nel lettore una sorta di empatia, è qualcosa che sfiora le corde delicate di un rapporto universale in perenne debito affettivo, se non fosse che la figlia qui non cerca il non detto, gli abbracci mancati, ma agisce con puntiglio persecutorio e imperdonabile scempiaggine.

La scrittura, il gran tema dei temi. La solitudine dello scrittore, il corpo a corpo coi fantasmi di una testa in perenne ribollire, che deve trovare la propria voce a dispetto di tutto e di tutti, fino a sacrificare ad essa il mondo intero e la propria esistenza. La vocazione alla scrittura per raccontare cosa si nasconde dietro il vivere (la tragedia ilare di una vita) e mostrare al lettore menzogne e trabocchetti della realtà, una realtà esatta e mentita insieme (ciò che pare vero e vero non è). Ma quando nel libro il protagonista spiega alla figlia in che modo lo scrittore, quando è ispirato, resti gravido di una consapevolezza che gli è del tutto estranea, una consapevolezza non cercata, mi pare che qui – scopertamente – sia Romana Petri a definire, e meglio non poteva, la natura del processo creativo: «Non si sceglie mai in che modo scrivere un libro… sono i libri a scegliere lo scrittore. …i libri, anche quelli che non sono stati ancora scritti, anche quelli che non lo saranno mai, esistono». Bella, singolare questa sua ipotesi di una “cosmica esistenza” di libri non ancora scritti.

Il mondo dell’editoria. Un microcosmo imperfetto, fragile, precario, teatro di illusioni che non salvano la vita, ma che a volte strappano contratti vantaggiosi, congrui anticipi (perlomeno negli anni sessanta, anni in cui si svolge la vicenda), a prezzo di gelosie, delusioni, vendette, frustrazioni.

Romana Petri è una scrittrice che la pasta della scrittura sa bene come manipolarla (trent’anni di carriera alle spalle, una fantasia esuberante, libera di praticare anche generi diversi), persino quando – in veste di traduttrice – si insinua nella scrittura altrui per renderne ogni sfumatura, ogni consonanza. Ma è stata per otto anni anche editore di una piccola casa editrice, e dunque ha imparato i meccanismi del rapporto sinergico, a volte contraddittorio, ambiguo, ricattatorio, fra l’autore e il suo editore, il suo mentore.

Poco importa che l’innesco di Cuore di furia sia nato da un episodio ricordato nella contro copertina (bella la copertina con uno schizzo quasi picassiano su fondo nero): vale a dire il suggerimento fatidico della madre di Romana, ascoltato alla radio, di consultare lo scrittore preferito per farsi pubblicare. Nel 1982, lo scrittore scelto da Romana, il tutore dalla nota “concupiscenza libraria”, rappresentò un segno del destino, e divenne per lei quasi un secondo padre: Giorgio Manganelli, trovato squadernando un elenco telefonico, con il quale, impercettibilmente ma non troppo, l’autrice condivide un certo gusto manipolatorio della scrittura, uno stile incline al gioco linguistico, all’enigma, un delirio creativo immaginifico e funambolico.

Quest’uomo complicato, segnato a sua volta da un rapporto materno difficile, poco padre, poco fedele, caotico e maldestro in tutto ma non nella genialità letteraria, è protagonista senza voce del romanzo, ma di Manganelli possiamo anche dimenticarci: Manganelli c’è e non c’è (lo stesso dicasi per Romana che occhieggia divertita da ogni pagina), il libro si gode per quello che è, una piacevolissima parodia, uno sguardo dal buco della serratura nei territori dove vita e letteratura giocano a rimpiattino.

La controfigura romanzesca, l’alter ego, ne ricalca l’aspetto grasso e molliccio, i baffetti castorini, il pallore, il sudore di un quarantenne precocemente anziano, la tendenza infine a un riflettere continuo e disperato sulla morte. Ha preso il nome di Jorge Tripe (formidabile l’invenzione del nome della figlia, Norama Tripe, anagramma del nome dell’autrice), e vive in Spagna, a Siviglia, dove è arrivato diciottenne in una calda giornata estiva, scappando da Barcellona su un trattore non suo, complice un colpo di sole o un calcio di fucile dei falangisti.

A Siviglia, bagnata dal Guadalquivir, Jorge Tripe trova lavoro come magazziniere in un antro di granaglie, ma tanto si sfinisce in letture nel tempo libero che gli viene il ghiribizzo di provarci lui stesso e si mette furiosamente a scrivere.

Refrattario a ogni dolcezza, votato al perenne disordine fisico e non solo, Jorge è ostinato quando arriva finalmente il momento di mettere in chiaro le condizioni del contratto con l’editore: niente interferenze, non si cambia una virgola, un aggettivo, “scriverò ciò che il mio genio mi detterà”. Col tempo si dimostra spietato, persino capace di divorarsi in un boccone l’antagonista scrittore che che lo accusa di plagio, ma anche di raccontare menzogne private e pubbliche al suo editore, il signor Arroldez della casa editorial Salinero in calle Salinero. E qui devo confessare la sorpresa di riconoscere il caro amico Edmondo Aroldi sotto le mentite spoglie di Arroldez, omarino macrocefalo, dal motto arguto, anzi caustico, dall’impazienza con gli intrusi che pretendono di violare la sua sconclusionata esistenza, in una parola piuttosto refrattario al consesso umano (anche Aroldi aveva una madre odiata-amata).

Editore all’antica, curiosissimo («Un libro, prima di leggerlo, bisognerebbe forse farselo raccontare dallo scrittore, ascoltarlo e cercare di vederlo con gli occhi prima della lettura»), ma granitico di fronte alla vanità dello scrittore, e infine crudelmente diabolico con la vedova di Jorge, Dolores, e la figlia Norama, impegnate ad accaparrarsi, a contendersi gli scritti di Jorge Tripe post mortem («Distruggere? Vuole scherzare, spero. Di uno scrittore non si distrugge nulla. Quando muoiono in genere diventano galline dalle uova d’oro»).

È una partita a scacchi quella che si gioca fra un autore, gli eredi (quando ci sono) e l’editore, tutti cercano di fregarsi a vicenda, di tradire restando vittime essi stessi, nessuno si salva. Dunque, è lecito talvolta manovrare i fili invisibili di un teatro grottesco delle parti, e divertirsi persino a ingarbugliare i ruoli. Romana sa bene come fare: per primo il “suo” feroce, astutissimo Manganelli ci aveva mostrato la corte dove il principe, vale a dire l’editore, «essere moralmente dubbio, anche equivoco, sordido, intento al conseguimento del denaro”, si fa beffe dei giullari o servi che lo circondano, ovverosia gli autori, pennivendoli, sciantosi delle lettere, cortigiani, mercenari» (Encomio del tiranno, scritto all’unico scopo di fare dei soldi, 1990).

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