Lidia Lombardi
Lo scaffale degli editori

Buzzati poeta di nera

Dai delitti terribili, come la strage a opera di Rina Fort (1946), alla morte di Marilyn Monroe, Un libro raccoglie gli articoli di cronaca nera scritti dall’autore del “Deserto dei tartari”. E dimostra come con i suoi affreschi d’epoca di taglio neorealistico seppe creare un genere letterario

Poco prima dell’alba, un genio “che girava rastrellando l’estrema landa per raccogliere le anime appena giunte e avviarle alla grande porta” si incaricò di sollevare dal letto il corpo di Marilyn Monroe. Era il 5 agosto del 1962. Lei, nuda sotto il lenzuolo, “così rosa e pura”, non voleva destarsi, ma continuare a dormire. Lui se ne innamorò all’istante, e ripeteva: devi svegliarti, devi vivere. E la condusse in un volo attraverso il futuro: le mostrò la sala nella quale le avrebbero consegnato una statuetta d’oro, l’uomo che sarebbe diventato il suo quinto marito, altre preziose residenze. Lei nei decenni avrebbe perso appena appena il suo fulgore. Ma nelle sue regge piene di maggiordomi, cani di razza, fiori, non c’era neanche un bambino. Nessuno dormiva in una culla. Infine, diventata una graziosa vecchietta, Marilina disse al genio: “Hai visto, amico mio, che non ne valeva la pena?”. Allora “lui non ebbe il coraggio di insistere. Tenendola per mano, ridiscese le vertiginose scale del futuro, in un batter d’occhio la riportò nella sua stanza, dove Marilina, toltasi la vestaglia, si gettò sul letto con l’evidente intenzione di riprendere il sonno interrotto”. Ma mentre il torpore la stava di nuovo invadendo tese una mano verso la cornetta del telefono. “Fu colto però dalla pietà anche il genio. Il quale fece un affettuoso cenno di saluto con la destra. Dio sia con te, povera ragazza. E svanì come un fantasma, mentre dalle finestre entravano le prime luci dell’alba. Marilina lo vide sparire. Restò là, immobile, con la mano sul telefono. Si lasciò portare via, scivolando, nei gorghi neri del sonno”.

Chiediamo scusa al lettore per la lunga citazione. Ma queste parole, da un articolo che Dino Buzzati scrisse per il Corriere della sera il 7 agosto del 1962, dicono tutto del Buzzati cronista di nera rilanciato ora da un bel libro della Mondadori: La nera appunto (596 pagine, 30 euro). Un’operazione editoriale che a un prezzo contenutissimo ha realizzato un cartonato con pagine in carta patinata, abbondanti illustrazioni, inediti fogli tratti dagli appunti di Buzzati. Riunisce, il presente volume, i due dalle stesso titolo pubblicati nel 2002. Ma aggiunge altri articoli dell’autore veneto, che entrò al Corriere della Sera, timido ventiduenne, il 10 luglio del 1928, e vi rimase fino all’anno della morte, dieci anni dopo quella di Marilina, per la quale scrisse il “pezzo” sopra citato, una favola come quelle tratte dai miti greci nelle Metamorfosiovidiane. Una favola, si badi bene, che non trascura i dettagli della cronaca: ci sono dentro il comodino con sopra il flacone vuoto di pillole Nembutal, il corpo della diva trentaseienne vestito solo dal lenzuolo che la copriva, la mano tesa ad afferrare la cornetta, nell’ultimo inutile tentativo di rimanere viva. Il giorno prima Buzzati aveva scritto per il suo giornale un altro articolo intitolato “La favola sbagliata”. Sempre quella della Monroe, della quale Buzzati conosce la fine mentre si trova su una spiaggia del Lago Maggiore. La apprende dall’animazione che all’improvviso scuote i bagnanti intorpiditi dal caldo e incollati alle radioline. Qui il “pezzo” è come una sequenza cinematografica, dipinge i vacanzieri che “parlavano, discutevano, commentavano, deploravano scuotendo la testa”. Dolore tuttavia non ne mostravano. “Ma non è cinismo. Proprio per questa impossibilità di pianto mi sembra meraviglioso e commovente il destino di quella splendida creatura”.

Curato da Lorenzo Viganò, Dino Buzzati – La nera ci conduce nell’Italia che, finito il fascismo, sdogana anche il racconto dei fattacci che invece il Trentennio epurava dalle fonti di informazione, in ossequio all’immagine di una Nazione dove tutti dovevano apparire felici, ogni cosa liscia e dove nessuno delinqueva. A malapena, potevano esserci dei ladri di biciclette, come annota Buzzati nel “registro delle notizie” (di nera e di bianca) che compilava ogni giorno per ordine del suo capocronista, scrittura ordinata e spazi bianchi riempiti da disegni di pupazzetti che impugnano un coltello, il volto coperto da un cappellaccio, o remano su una barchetta di fronte alla vittima designata da buttare giù nell’acqua torbida. “Doverista”, disse di lui Indro Montanelli per quella disciplina che contrassegnava il giornalista Buzzati, comunque sul fatto con il diligente taccuino, anche quando diventò un grande della letteratura (del resto la disciplina non è il tratto essenziale di Giovanni Drogo, l’ufficiale protagonista del Deserto dei Tartariche uscì nel 1940?).

Viganò nella prefazione dà conto anche del redattore prima della Liberazione. Inviato di guerra, lavora sull’incrociatore “Trieste”. E giù usa un tono favolistico che gli serve per raccontare le sconfitte italiane, che altrimenti non avrebbero passato le maglie della censura. Dopo il ’45 scrive sul Corriere dell’informazione, l’altra veste del quotidiano di via Solferino voluta dal Comando Militare Alleato in seguito alla chiusura delle testate del Nord Italia compromesse con la Repubblica Sociale. Buzzati può ora parlare di delitti terribili. Ma fa della nera un vero e proprio genere, dandole uno spessore letterario: ne derivano affreschi d’epoca di taglio neorealistico. 

Ecco allora un articolo che non era stato inserito nell’edizione del 2002. “Sono entrato nella casa della strage”, prima pagina, 6/7 dicembre 1946. Si riferisce all’eccidio compiuto otto giorni prima da Rina Fort, che massacra a colpi di spranga la moglie e i tre figli – sette e cinque anni, il terzo pochi mesi – del proprio amante, il siciliano Giuseppe Ricciardi, detto il “Magliaro” (ogni capitolo è corredato da una scheda che spiega il delitto, dal compimento alla eventuale condanna dei colpevoli). Buzzati riesce dunque a entrare nel povero appartamento al numero 40 di via San Gregorio, dopo che Rina aveva confessato e tutto era stato ripulito. Ma c’è ancora un pentolino nell’acquaio della cucina, il fondo sporco di purè, nel quale sbatte la goccia che esce dal rubinetto. Tic, tic, tic, l’unico suono nella casa buia, osserva Buzzati. Poi riferisce del brusio di curiosi che dalla strada guardano le finestre sprangate, degli orologi (uno con una damina in ceramica, l’altro in finto bronzo ornato da una biga) fermi alle 6,40. Nella camera di là, finita sotto un mobile, la lettera che Giovanni, il ragazzino più grande, stava scrivendo ai nonni, prima di andare a letto. “Caro nonno, vi baccio forte, vostro nipote Giov…”. “Ma il campanello suonò. La penna restò sospesa, la mamma corse ad aprire. Dio mio chi erano, che cosa accadeva? Tra i colpi della lotta infernale la lettera per i nonni lontani scivolò dal ripiano, si capovolse cadendo, finì sotto il mobile”.

Altri delitti da prima pagina, altre tragedie restituisce la penna di Buzzati: la sciagura di Albenga, l’arresto della banda Cavallero, lo schianto della squadra del Torino contro la collina di Superga, il crollo della diga del Vajont, Kappler e le Fosse Ardeatine, il caso Fenaroli…. L’apparato fotografico ricrea nella memoria i grandi gialli, come in un album delle tenebre tricolori. Buzzati alterna nelle parole la pietà alla staffilata sarcastica. Accade in un altro pezzo, “Il giallo del bitter”. Un commerciante di formaggi viene avvelenato ad Arma di Taggia: stricnina messa in una bottiglietta di aperitivo fattagli recapitare dall’ex amante della moglie con la scusa di fargli assaggiare il nuovo bitter della San Pellegrino e dargliene la rappresentanza nella provincia di Imperia. Buzzati comincia con un pistolotto contro le adulterazioni, alimentari e non, e fa parlare in prima persona un ex diavolo licenziato da Lucifero per “scarso rendimento”: insomma, uno che se ne intende di diavolerie. Però ora, commenta il demone disoccupato, le adulterazioni toccano anche i veleni: l’arsenico infilato dai nipoti avidi di eredità nella torta del nonno non ha funzionato, e nemmeno quello mischiato ogni giorno nella minestra del marito dalla moglie stanca della sua dabbenaggine: che anzi è aumentata a causa proprio delle gocce malefiche ma di poco effetto, e la signora si deve tenere il suo consorte così…

Buzzati entra nella realtà sempre appena un po’ sopra (o sotto) le righe, eppure è capace di renderla fantasticamente più vera. Ovvero, disse Gaetano Afeltra, uno dei suoi direttori, di “trasformare la cronaca in poesia”.

Facebooktwitterlinkedin