Benedetto Marcucci
Al Museo della Città di Pienza

Una collezione critica

Burri, Morandi, Guttuso, Maccari e tanti altri: un percorso nell'arte del Novecento finisce per ritrarre anche il critico che scelse queste opere per viverci accanto e trarne fonte di ispirazione (e amicizia): Leone Piccioni

Entrando a visitare la mostra della collezione di Leone Piccioni, Da Morandi a Burri, “Mio vanto, mio patrimonio” – in corso al Museo della Città di Pienza fino al 10 gennaio 2021 – ho provato ad astrarmi, a pensare di non saperne nulla. L’idea che ho tratto dalle scelte di quei quadri ha delineato in me in modo netto e nitido la figura della persona che li scelse. È raro che si definisca così chiaramente il carattere, la cultura e il gusto del collezionista, come accade in questa mostra osservando le opere scelte da Leone Piccioni.

In fondo è quasi fuorviante definirla collezione, perché il termine rimanda a modalità e attitudini ben diverse: se il collezionista tradizionale basa la sua raccolta su ampie risorse economiche, per Piccioni non è così; perché il suo comprare è un acquisire a sé, al proprio “patrimonio”, non tanto economico, ma culturale e spirituale, per poterne trarre “vanto” soprattutto in termini di realizzazione di un suo percorso, di una sua discreta ma non banale adesione all’opera degli artisti, volendo saziare il suo anelito di curiosità, quasi a voler partecipare la filosofia esistenziale che le opere conquistate restituiscono.

Eloquente del carattere non economico delle sue “conquiste” è un episodio che mi ha raccontato il figlio Giovanni. Quando Piccioni acquistò un Morandi, direttamente dal maestro bolognese, lo pagò cinquantamila lire. Poco tempo dopo il potente gallerista Carlo Cardazzo gli offrì di acquistare l’opera, offrendogli un milione, ben venti volte la cifra spesa. Lui rifiutò, a conferma di quanto quel quadro significasse per lui, ben oltre il suo valore commerciale.

In questo percorso lungo una vita, iniziato giovanissimo poco più che ventenne, Leone Piccioni ha attraversato stagioni e movimenti artistici molto diversi, per certi versi antitetici. Basti pensare alla parallela amicizia con Alberto Burri e con Renato Guttuso, esponenti di due correnti in netta contrapposizione in quell’Italia divisa in due. Seppur con accenti ben diversi – certamente più solido e coinvolto fu il rapporto con Burri – da entrambi seppe trarre quella condivisione sentimentale, quello scambio emotivo, ancor prima che culturale e artistico, che le opere scelte testimoniano in modo cristallino.

Per averne conferma è sufficiente osservare il ritratto di Majakovskij dipinto da Renato Guttuso nel 1963, così anomalo ma efficace ed essenziale nel raccontare l’anima inquieta e luciferina del poeta russo. O ancora la Natura morta del 1965 dello stesso Guttuso, evidente omaggio a Giorgio Morandi. Piccioni insomma non prende partito, non sceglie una delle due parti della barricata. Come succedeva nella sua attività di critico letterario, nella disputa tra crociani e marxisti, anche nella sua alacre e continua raccolta di opere, non si schiera ma traccia una terza via, la sua, nella quale assembla come compagni di strada del suo percorso esistenziale, artisti tra loro molto diversi, a volte avversari nelle dispute di quegli anni.

Così gli capita di esser conquistato dalla fine ironia di Mino Maccari, magistrale il suo De Chirico a spasso col cavallino, come di assistere e partecipare ammirato alla cogente brama di infinito raccontata dai quadri di Burri. O di essere reso compagno di giochi nell’esplosione di vitalità della Foresta+tana+leone+leone, un trittico che s’impone alla vista come felice sintesi dell’approccio all’arte di Mario Schifano. O ancora di scegliere l’arcaica bellezza della Maternità di Venturino Venturi.

Nell’incedere lungo le stanze della mostra e nello scorrere con lo sguardo le opere, si è tentati da un sentimento di malinconica nostalgia di quei tempi andati, durante i quali era possibile che un intellettuale fine, curioso ed elegante potesse creare per sé e per gli altri un suo mondo, nel quale l’armonia delle arti e l’amore per la bellezza travalicassero e sublimassero di slancio qualunque fredda valutazione economica. Ma, al contrario, subito dopo prevale una sentita speranza che la preziosa lezione che Leone Piccioni ci ha lasciato, grazie alla gentile e acuta scelta di queste opere, possa essere d’ispirazione per tanti, più o meno giovani, che coltivino lo stesso innocente, disinteressato e curioso approccio alla quasi epifanica rivelazione del bello nel mondo.

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