Mario Di Calo
Al Teatro Argentina di Roma

Teatro nella nebbia

Giacomo Bisordi mette in scena "Uomo senza meta" di Arne Lygre, un testo apocalittico, preveggente: una riflessione sull'uomo che sempre cerca di risollevarsi quanto più sprofonda nella catastrofe (e nella conseguente disfatta)

Il mio primo incontro con Giacomo Bisordi risale al 2014 al Teatro Dei Conciatori, con un testo cult, Amore e resti umani di Bred Fraser, oggi lo ritrovo regista di uno spettacolo travolgente in scena nel massimo Teatro capitolino, il Teatro Argentina, fino al 25 ottobre, con un testo dell’autore norvegese pluripremiato Arne Lygre, Uomo senza meta, ed una serie di incontri esplorativi intorno alla drammaturgia dell’opera messa in scena, nonché dalle sue note di presentazione scopro essere collaboratore di uno dei massimi esponenti del teatro globale Milo Rau. Chapeau.

Ebbene si accede, si brancola in platea – dopo la necessaria prassi consentita dal protocollo teatrale – attraversando una cortina di nebbia fendente che ammanta tutta quanta l’immensità dello spazio teatrale a noi circostante. Si riesce appena a percepire il palcoscenico a sipario aperto, nudo, sventrato, di una profondità abissale, inquietante, quasi a rispecchiare la stessa sensazione che si respira in sala, promulgata dal distanziamento sociale con tutta quella vastità di posti non agibili. Ma per fortuna pian pianino si riempie ugualmente di anime desiderose di confronto, una sorta di comunione condivisa, fra palco e platea, il teatro ancora una volta fa da specchio alle necessità e bisogni dei tragici tempi correnti.

Quando finalmente le luci in sala si spengono, quella nebbia, quella vastità smisurata, scopriamo essere nella finzione un fiordo norvegese, dove ha ormeggiato il prode Pietro, imprenditore audace, voluttuoso, capriccioso, che con la complicità indispensabile di suo fratello vuole costruire in quel luogo una città ideale, un posto invidiabile da tutto il mondo sia per la posizione geografica, sia per un perfetto connubio fra natura e architettura. E vi riesce. Pietro, per altro, è l’unico nome pronunciato, enunciato, invocato; mentre agli altri personaggi della pièce non è concesso un nome di battesimo: li caratterizza solo una parentela con il protagonista. Questo Pietro sembra essere un novello fondatore di un moderno ordine religioso, basato sul capitalismo, il progresso/regresso dell’umanità. Una chiesa laica, in cui l’uomo contemporaneo possa trovare un’inconsueta (definitiva?) collocazione, un posto ecosostenibile, una natura incontaminata che si sposa armoniosamente con un disegno demoniaco di una comunità umanoide che tutto fagocita, e tutto distrugge? Difatti il progetto è destinato a fallire, sia perché l’autore di questo colosso architettonico muore del male incurabile – altra ferita insanabile dell’homo sapiens creata e alimentata da sé medesimo – sia per l’incapacità dei suoi collaboratori a sostenere e gestire il ciclopico progetto.

Questo popolo costituito da fratelli, sorelle, mogli, o ex mogli, figli, cugini, parenti affini racconta di un capitale umano imprevedibile, derelitto, malato inguaribile di solitudine, che senza una guida fallace, anche un po’ dispotica mostra tutte le sue debolezze e caducità.

Testo, questo di Arne Lygre, apocalittico, preveggente: una riflessione, aldilà dei propositi che sembrano ispirarsi alla città ideale di Tommaso Campanella, propositi che ancora una volta riportano al centro dell’attenzione lo sforzo titanico dell’uomo di rigenerarsi ogniqualvolta incombe una catastrofe e la conseguente disfatta. La regia di Giacomo Bisordi, con semplicità e intuizione, partendo da un approccio dapprima come studio, reso quest’estate al Teatro India, prende corpo nel cavone del Teatro Argentina con prepotente autonomia, sorprendente maestria, coadiuvata da distorsioni sonore, sospingendo via via gli interpreti a imparentarsi verso l’umanità che rimanda un’immagine imperfetta, con un monumentale sipario di ferro che inesorabile cala giù come una mannaia alle malefatte dell’uomo. Una direzione attoriale esemplare che antepone il simpatico, istrionico, camaleontico gigionismo di Francesco Colella alle interpretazioni più centrate dei co-protagonisti Aldo Ottobrino e Monica Piseddu, coadiuvati da Silvia D’Amico e Anna Chiara Colombo. Sempre più maturo e adeguato l’ottimo Giuseppe Sartori.

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