Danilo Maestosi
In margine alla mostra romana

L’affaire Torlonia

I Marmi Torlonia finalmente visibili a Roma raccontano anche una storia di ambigua gestione dei beni artistici in questo Paese. Le opere, abbandonate a se stesse dai loro proprietari privati, tornano in mostra totalmente a spese dello Stato. Ma una parte dei ricavi andrà ai Torlonia

Tra le tante impressioni, l’ultima è forse la più forte. Sicuramente la più stridente. È l’immagine di una statua di Ercole giovane, collocata a fine percorso della grande mostra con cui in Campidoglio si celebra, nelle sale appena restaurate di villa Caffarelli, la restituzione alla vista dei tesori della collezione Torlonia, la più ricca raccolta antiquaria privata del mondo, dopo un tormentato letargo di oltre mezzo secolo (qui la recensione di Lidia Lombardi su Succedeoggi). La scultura faceva parte del seicentesco fondo Giustiniani, in gran parte confluito due secoli dopo nella collezione dei banchieri Torlonia a riscatto di un ingente prestito che la famiglia dei marchesi romani non era riuscita a saldare. Il corpo dell’eroe è solcato da una rete di incisioni, chiazze e striature scure, che rivelano tutti gli interventi chirurgici, gli innesti di materiali e marmi diversi, antichi e moderni, con i quali è stato ricomposto, per restituirgli non la sua verità di cimelio amputato e malridotto ma la sua aura di semidio. Era il gusto e l’arbitrio dell’epoca in cui nella Roma dei Papi questo e altri reperti venivano dissepolti e preparati a tornare in circolazione come testimoni di un paradiso pagano perduto.

Un mosaico di lesioni e di ombre che fa a pugni con le visioni ammalianti di forme levigate, il bagliore e il candore luccicante dei marmi dei 92 pezzi, un sesto dell’intera raccolta, sottratti ai magazzini e messi in esposizione. Dopo aver rimosso la patina di polvere accumulata nei depositi, i restauratori che hanno lavorato a restituire smalto alla preziosa campionatura scelta per questo evento, ingaggiati e finanziati da una generosa sponsorizzazione del gioielliere Bulgari, hanno deciso di lasciare così almeno uno di questi cimeli.

Assecondando un colpo d’ala di regia dei due titolati curatori, Salvatore Settis e Carlo Gasparri, che a mio avviso va ben oltre il rigore storico e filologico con cui si sono impegnati nell’impresa. E cambia radicalmente l’effetto e la veste di questo straordinario spettacolo che il visitatore si sta lasciando alle spalle. È come se alla platea che ha assistito sbalordita all’esibizione di un prestigiatore fossero svelati a rappresentazione conclusa i trucchi con cui ci ha ingannato. Un accorgimento liberatorio perché ci svincola dall’incanto rapinoso e pigro della bellezza come un traguardo di eternità e non come un’idea, un sogno generato nel solco scavato dalla creatività e dal talento artistico, che segue i mutamenti della storia e del costume, plasmato e riplasmato da fantasie, capricci, interessi che ne assecondano a propria misura corsi e ricorsi. Ma non toglie nulla all’impatto di questo eccezionale campionario di icone che hanno forgiato il nostro immaginario e ancora continuano a suscitare stupore ed incanto, fornendo agli artisti di oggi attenti al passato stimoli di nuove forme e invenzioni, sapere che quelle immagini sono state manipolate. Capire che questa stessa mostra è come un gioco di scatole cinesi, il racconto di una collezione iniziata in epoca napoleonica, come l’inarrestabile ascesa della famiglia che la possiede. Raccolta che è il frutto di altre collezioni nobiliari precedenti, altre narrazioni, un impasto di emozioni che si specchia all’indietro in un vortice di altre emozioni, altri punti di vista su cui siamo chiamati a misurarci.

Ma allora, se questo interrogarci sul vero e sul falso, se questo invitarci a riconoscere le cicatrici, le tracce e le manomissioni della Storia, del potere e dei consumi culturali, sotto la pelle dei capolavori che abbiamo ammirato, è il messaggio, il leitmotiv di questa mostra, perché non applicare lo stesso metro nel giudicare il modo trionfalistico e omertoso con cui si è costruito l’evento, se ne amministrano e se ne pilotano gli echi, se ne valutano le ricadute.

Giusto far festa, dopo cinquant’anni di attesa per poter avvicinarsi dal vivo a questi tesori di cui tanto si è sentito parlare ma solo pochi eletti hanno potuto vedere. Giusta l’euforia, perché il traguardo di una soluzione sembra più a portata di mano. Ma non sa di falso esaltare come un esempio ammirevole e da imitare di sinergia tra il pubblico e il privato lo sblocco di una trattativa tra lo Stato e la famiglia Torlonia senza renderne noti i termini, che non a tutti possono apparire così vantaggiosi e risolutivi?

Senza spiegare ,ad esempio, che nel patto che ha dato origine a questa mostra, sigillato nel 2015, ai tempi del governo Renzi, tra il ministero della cultura, allora come oggi diretto da Dario Franceschini, la ripartizione dei benefici non è ottimale: lo Stato e il Comune, con il prestito di villa Caffarelli, si accollano tutti i costi, che sono stati davvero ingenti, e i Torlonia si riservano un’ampia partecipazione, quasi un terzo, agli utili sugli incassi. Dettagli di non poco conto, visto che le restrizioni imposte dal Covid, hanno fatto saltare le speranze di un afflusso da record e accantonare per il momento il programma di proseguire lo sfruttamento commerciale con le trasferte in altre capitali, da Parigi a New York, altri musei archeologici supergettonati: e se gli eredi delle fortune Torlonia, tornassero a litigare tra loro come è avvenuto prima di accettare di riunirsi nel condominio della Fondazione, e rifatti i conti si tirassero indietro, o riaprissero la contesa?

Senza spiegare quanto sia macchinoso il meccanismo studiato per la messa a disposizione (non un passaggio di proprietà ma una concessione di possesso per 99 anni) delle opere, tutte le 600 registrate dai vari censimenti e dai vincoli che fissano la consistenza della raccolta, a partire dalle 92 scelte per il debutto a villa Caffarelli: i cimeli non passano direttamente dalla Fondazione allo Stato ma vengono affidati in deposito ad una banca privata. Un cavillo giuridico dietro cui in caso di un nuovo contenzioso la famiglia Torlonia può nascondersi e barricarsi, alzando ancora la posta.

Senza chiarire quanto sia lontano il traguardo finale, previsto come condizione essenziale dell’accordo Stato-Torlonia: la individuazione di un museo pubblico nel quale l’intera raccolta dei marmi possa confluire ed essere allestita per essere offerta in modo permanente alla vista del pubblico. Come non lo è mai stata davvero. Perché il museo creato e allestito con sospetto tempismo a cavallo della presa di Porta Pia, da Alessandro Torlonia, trasferendo i marmi del fondo Giustiniani e poi i quattrocento pezzi di altre raccolte, in un ex deposito di cereali in via della Lungara a Trastevere, ha funzionato poco e male per pochi anni. Non si sa con che orari e limitazioni, mette le mani avanti un saggio nel volume Electa pubblicato per la rassegna di villa Caffarelli. Si sono trovate solo alcune foto scattate a inizio 900 dal conte Primoli che immortalano la circolazione di alcuni visitatori in doppio petto e cilindro tra le statue in posa; una serie di guide in varie lingue e poi un vero e proprio catalogo scientifico in pochi costosi esemplari rimasti invenduti, curato da un esperto con le schede e la riproduzione in fototipia delle opere. Mancano dati e prove documenti su quel che è successo dopo, sul come l’apertura al pubblico sia stata centellinata fino ad essere riservata solo a pochi invitati, e infine annullata con la chiusura del museo imposta dall’entrata in guerra dell’Italia.

Foto di Massimiliano Tonelli

Del tutto rimossa invece dal copione ufficiale per non rinnovare lo scandalo e non disturbare le celebrazioni la pagina più scottante della storia di quel museo nato male e finito peggio. La scrisse all’inizio degli anni ’70 con un colpo di mano da ultimo campione della razza padrona responsabile del Sacco di Roma un altro Alessandro Torlonia: i marmi antichi accatastati in poche stanze, il resto dell’edificio trasformato in un alveare di piccoli appartamenti messi in vendita o affittati a cifre da capogiro. E la riscrisse poco dopo Antonio Cederna, rilevando con un sopralluogo e denunciando la vergogna di quell’abuso edilizio e lo squallido trattamento riservato a quei tesori antichi. Dobbiamo al suo coraggio e alla sua tenacia la riparazione tardiva di questo oltraggio alla città e alla sua Storia che ha portato al compromesso di questa mostra. Cinquanta anni dopo. Avrebbero dovuto dedicargli l’evento. Ma sulla vicenda tutte le fonti ufficiali hanno preferito tacere. Un colpo di spugna che ha cancellato il nome e il ruolo di Cederna, rimontato e camuffato in altri modi lacunosi e impropri i frammenti sparsi di quella brutta storia, come è toccato alle sculture oggi finalmente esposte. Lui e noi con lui avremmo preferito un’altra conclusione: l’esproprio di quei marmi. Amnistia e prescrizione hanno diluito il peso penale di quei reati su cui si poteva e forse si potrebbe ancora far leva. L’uscita di scena di Alessandro Torlonia, morto tre anni fa senza mai aver ammesso i suoi torti, ha in compenso aperto uno spiraglio nel muro eretto a difesa del nome e soprattutto del patrimonio della famiglia.

Ma non facciamoci illusioni. La svolta non è dietro l’angolo, anche se il ministro Franceschini in uno slancio di ottimismo ha annunciato di aver trovato una via d’uscita rapida per il nuovo museo dove ricollocare ed esporre l’intera raccolta Torlonia. Quale? Quella di Palazzo Rivaldi, un prestigioso edificio rinascimentale che si affaccia su via dei Fori. Un restauro già partito e rifinanziato con 40 milioni. «Per completarlo servono almeno altri quattro anni», spiega Francesco Scoppola, architetto ed ex direttore di una delle sezioni dei Beni Culturali, artefice del recupero di palazzo Altemps e villa Poniantowski, che ha condotto i primi lavori e preparato un piano dettagliato per trasformare e riadattare a museo il palazzo. «Ma è una previsione che può saltare – aggiunge – se invece di riservarsi la direzione dell’impresa il ministero sceglie la via burocratica di un appalto chiavi in mano a un grande gruppo privato. E se il progetto non perde la spinta con un cambio di guida». 

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