Giuseppe Grattacaso
Vivere al tempo del Covid

Torniamo a scuola

L'Italia riparte dalla scuola. Ma non significa solo che dopo molti mesi le aule tornano a ospitare studenti e professori: vuol dire che il Paese deve tornare a progettarsi intorno alla centralità della formazione e dell'educazione. Con o senza il coronavirus

L’Italia riparte sul serio quando riparte la scuola. Lo dicono in tanti, potrebbe essere vero. Sarebbe come dire che senza il suo sistema scolastico che funziona a pieno ritmo, anche il nostro Paese non procede al meglio, zoppica, si attarda. Lo sapevamo eppure l’abbiamo scoperto ora. Lo sapevamo, ma non ci abbiamo mai creduto. Forse non ci crediamo ancora del tutto, se è vero, e anche questo potrebbe essere vero, che il dibattito, quotidiano, serrato, appassionato come non lo era mai stato, preferisce intestardirsi sulle questioni di politica sanitaria, deviare sulle scelte minime, anche se importantissime, delle misurazioni e dei protocolli, quanti metri, quante mascherine, quale percorso, le entrate, le uscite, e ignorare il resto. E il resto sarebbe la scuola come funziona, come potrebbe funzionare, non il 14 settembre, ma nei mesi e negli anni successivi, per far crescere nel modo migliore le generazioni di giovani e dunque far crescere il Paese. Sembra contare invece solo l’immediato, il non ordinario da emergenza virale, le immissioni in ruolo (anche in questo caso da misurare in quantità), il tracciamento dei contagi, i test sierologici. Ma i lunghi mesi di confinamento scolastico, di insegnamento tra le mura di casa, ci hanno detto anche altro.

Se non c’è scuola, il presente è monco, il futuro si appanna. La scuola è trasmissione e condivisione di saperi, è segnare il cammino, è insegnare il cammino, è camminare insieme perché da soli non si va da nessuna parte. È sempre andare avanti, sapendo che ieri e ieri l’altro sono accaduti fatti che dovremmo non dimenticare, è restare fermi nei propri banchi avendo appreso che qualcosa ci conduce, anche immobili, da un’altra parte. Perciò, se la scuola non riparte, se non riparte con il piede giusto, e con lei, insieme a lei, la cultura, il teatro, il cinema, l’Italia resta ferma, o almeno non sa dove andare. Nella scuola c’è scritto quello che saremo domani, quello che faremo. Ripartire senza cogliere l’occasione di crescita a cui l’emergenza ci ha costretti, potrebbe significare fermarsi presto, comunque avanzare con il fiato corto e con lo sguardo rivolto a terra.

La scuola non si è mai fermata. Ha distanziato i suoi attori, li ha difesi ponendoli su palcoscenici di fortuna, ha cercato, protetta dallo schermo del pc, del tablet, dello smartphone, di continuare ad essere scuola, adottando una pratica prima sconosciuta, la cosiddetta didattica a distanza, scoprendo che può essere un’azione utile a integrarne altre da realizzare in presenza, questo almeno per i più grandi, gli studenti delle superiori, perché i piccoli del distanziamento non sanno che farsene.

La scuola ha bisogno di odori, lo sapevamo ma l’abbiamo scoperto ora, cerchiamo di non dimenticarlo. Ha bisogno della presenza degli altri, anche di quelli che ci stanno da sempre antipatici, dei primi della classe e dei saccenti da primo banco, dei problematici che emanano scintille nevrotiche e ne hanno in cambio dissimulati indirizzamenti a quel paese, anche dei prof che temiamo più di ogni altra cosa, degli insegnanti incarogniti da anni di frustrazioni e di quelli che sono nati così, col dna che regala due in pagella per inclinazione costituzionale. Ha bisogno di mani che non siano le nostre, anche solo di guardarle, perché le mani del nostro interlocutore dallo schermo del tablet non si vedono. Anche questo abbiamo imparato, cerchiamo di non dimenticarlo. La scuola è fatta di suoni, quello della campanella, su tutti, di parole che servono e di voci che non servono, le voci senza criterio e senza senno che vengono dai corridoi o dalla strada, attraverso le finestre aperte, che sia o no per necessità da ricambio d’aria. L’insegnamento e la condivisione si costruiscono anche attraverso il tempo che si perde e quello che si rincorre. Di tempo perso e di tempo rincorso a scuola c’è sempre necessità, anche quando sembra di averne troppo a disposizione.

La scuola non si è fermata nemmeno nei mesi estivi. Ha ascoltato, ha studiato le possibili soluzioni, ha costruito norme e nuovi regolamenti, si è dettata vincoli e metodi, ha misurato i perimetri e le aree delle aule, la grandezza delle finestre, ha indicato camminamenti, ha immaginato venti che sconvolgessero le tende e portassero via le invadenze virali, si è affidata a responsabili della sicurezza e si è raccomandata a irresponsabili volontà fatali.

La scuola è fatta di regole. Lo sapevamo, ma forse non lo sapevamo abbastanza. Non sapevamo che le regole non devono servire a togliere la parola e a limitare i pensieri, a mettere le distanze per il gusto di farci sentire distanti, alcuni grandi e gli altri insignificanti. Le regole indicano un percorso di responsabilità comuni, servono a unire e a limitare l’intervallo e la disparità. Se tutti le rispettiamo, in questo caso, possiamo stare insieme, non proprio abbracciati, ma almeno rimanere nello stesso posto. Indossare mascherine, lavarsi le mani, guardarsi negli occhi ma non proprio a un palmo di naso, questa volta vuol dire volerci bene e volerne al compagno di banco, che proprio di banco non è, anche lui singolo, distante com’è di almeno un metro dalla testa dell’amico. È necessario tenere le distanze per essere insieme, per non essere troppo distanti. Può sembrare una contraddizione, ma l’abbiamo già sperimentato, certe volte i paradossi aiutano a sentirsi parte di un progetto comune. Perché in questi mesi, anche nella parentesi estiva tutta spritz e festeggiamenti, una cosa è apparsa chiara, basta un minimo sforzo per non farci del male, per non farne a chi ci è accanto. Lo sapevamo eppure l’abbiamo scoperto ora: le regole, quando sono condivise e frutto di una scelta responsabile, servono a stare bene insieme. Anzi, servono a stare insieme, che è sempre un bene, nella scuola come altrove.

Se l’Italia vuole ripartire davvero, e se senza ripresa delle lezioni in presenza non c’è ripartenza, deve volere bene alla scuola, che significa ad esempio continuare a contare metri quadri, ma per progettare nuovi edifici, come ormai non si fa da decenni, secondo criteri moderni, che tengano conto anche di quello che la scuola vorrà diventare in termini di didattica e di insegnamento. Perché la ripartenza sia davvero l’inizio di un mondo nuovo, del mondo scolastico che farà, non bastano gli auguri di un sereno anno scolastico. Forse è necessario sporcarsi un po’ il cervello, insieme alle mani finalmente di nuovo visibili, risistemare i pensieri e risistemarsi nelle aule, e non per rimanere immobili, ognuno incollato al proprio banco: anche dal metro quadro di pertinenza, bisogna essere contenti di riappropriarsi di quegli odori e di quei suoni che solo nelle aule scolastiche è possibile avvertire, semmai con la voglia di guardare fuori, per provare a capire e a cambiare la realtà.

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