Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Sui passi di Dante

A Fonte Avellana, all’ombra del Catria, la vetta più alta delle Marche, in visita all’eremo dove il Sommo Poeta sostò nel 1318. Lo emozionò al punto da evocarlo nel XXI canto del Paradiso, a ridosso dell’incontro con Pier Damiani che proprio in quei luoghi si fece monaco nel 1035

Nell’anno di Dante, sotto il segno del settecentenario della morte (nel settembre 1321), è suggestivo calcare l’eremo che lo ospitò nel 1318. È quello di Fonte Avellana, un’oasi di pietra bianca seppellita tra monti di inestricabile verde. E all’ombra del Catria, la vetta più alta delle Marche, nella provincia di Pesaro-Urbino. Dante sostò qui mentre era ospite del letterato amico Bosone di Gubbio. E scolpì nelle terzine del XXI canto del Paradiso l’emozione provata nel cenobio fondato nel 980 da San Romualdo, poi impreziosito dalla presenza di San Pier Damiani, che proprio a Fonte Avellana si fece monaco, nel 1035, divenendone pochi anni dopo priore. Eccoli, i versi di Alighieri, proprio a ridosso dell’incontro che nel poema fa con Pier Damiani: «Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi,/ e non molto distanti a la tua patria,/ tanto che ‘ troni assai suonan più bassi,/ e fanno un gibbo che si chiama Catria,/ di sotto al quale è consacrato un ermo,/ che suole esser disposto a sola latria».

Gli endecasillabi sono fissati con caratteri di bronzo sul portico a quattro fornici che dà ingresso all’eremo. Lo spiazzo è serrato dai corpi di fabbrica cresciuti nei decenni a partire dall’XI secolo e fino al Cinquecento: l’alta torre campanaria a sinistra, la scalinata che conduce alla basilica, austera nella unica navata, nell’altare appartato in alto e circondato dagli scranni in legno del coro, nella cripta che fu la chiesa primitiva attorno alla quale erano state tirate su le capanne dei monaci. Ambienti scuri per la luce che filtra obliqua dalle alte monofore. Silenzio, atmosfera rarefatta, e mille anni di storia racchiusa da muri spessi, in meandri di celle, corridoi, scale, chiostro, anch’esso austero nelle arcate romaniche, tranne due ogivali, come quelle viste dai frati durante i pellegrinaggi in Fenicia. Facile il richiamo all’aura del romanzo di Umberto Eco, rilanciato dal volto di Guglielmo da Baskerville-Sean Connery e Adso-Christian Slater, il maestro e l’allievo de Il nome della rosa.

E che a Fonte Avellana, pur così remota, pulsasse la cultura medievale, che il companatico fossero teologia, filosofia, greco e latino, lo dice lo scriptorium, uno dei pochi rimasto così come fu costruito, nel XII secolo, al posto di quello edificato un secolo prima, presto insufficiente a fornire un tavolo a tutti i monaci amanuensi, impegnati – secondo la regola benedettina dell’ora et labora – nella copia miniata su pergamena dei classici antichi. La luce proveniente dalle lunghe e alte monofore è un dono divino, a illuminare la scrittura a mano e, oggi, incontri su temi di spiritualità. Quando, nel XV secolo, i libri divennero a stampa, l’ambiente fu modificato, abbassando il soffitto e aprendo sotto sei finestre. Ma il ritorno alla struttura originaria avvenne con un restauro accorto nel 1958. Non sono tornati invece nella biblioteca i codici manoscritti, finiti dal 1500 in Vaticano, dove li portò il frate e rettore Giuliano della Rovere, poi divenuto papa Giulio II. Tutti, tranne undici, tra cui quello individuato come NN, un breviario del quale una tradizione orale assegna la paternità a Guido da Pomposa, autore di un sistema di trascrizione adottato in tutta l’Italia Centrale. Restano invece negli scaffali ventimila volumi a stampa, a partire da un incunabolo del Quattrocento e fino a volumi del Ventesimo secolo. Ma per due volte la raccolta era stata smembrata e portata via, nelle biblioteche di Brera, a Milano, e in quella di Urbino. 

Il fatto è che l’eremo fu oggetto di razzia nel 1811 per la spoliazione napoleonica e nel 1866 per quella sabauda, che si accanì contro gli ordini religiosi e i loro beni. Alterne fortune restano nella storia di Fonte Avellana. La peggior sorte – una decadenza evidente tra il XVIII e il XIX secolo – fu determinata dalla pratica della commenda: con essa di fatto i monaci – prima gli Avellaniti, poi i Camaldolesi – cedevano potere al commendatario di turno, estraneo alla comunità religiosa pur essendo spesso un ecclesiastico, come appunto Giuliano della Rovere, che pure si degnò di abbellire e dar lustro all’abbazia. Una pratica che pian piano minò il primato morale, culturale e socio-economico di Fonte Avellana. A partire dagli anni Trenta del Novecento il ritorno dei Camaldolesi, il recupero del patrimonio e i restauri hanno restituito carisma monumentale al monastero nascosto tra gli Appennini. Quello nel quale visse una schiera di santi e di beati e che stregò il Sommo Poeta.

Facebooktwitterlinkedin