Leopoldo Carlesimo
Una storia inedita di vacanza e montagna

La ciotola di Pit

«Quel giorno Martina giocava sul prato con Pit, il gigantesco cucciolone. Così estroverso e allegro. Che aveva sempre voglia di farsi accarezzare e pareva nutrire una predilezione proprio per loro, forse perché erano l’unica coppia ospite del maso che avesse un bambino»

Gli pareva inverosimile che tutto fosse rimasto come allora. Il cane, persino il cane. Ricordava in modo impressionante quel mostro di Pit.

Il cane – un grosso pastore calabrese dal pelo lungo e nero, il testone da lupo col muso un tantino schiacciato, abbastanza simile a un Terranova – era sdraiato su un fianco quasi a ridosso della porta, enorme ma all’apparenza mansueto.

 “Però,” stava dicendo Anna, “è strano che quassù ne abbiano uno di quella razza. Così lontano.”

 “Sei sicura?” Aveva detto Andrea. “E’ proprio un pastore calabrese?”

 “Sicura. Della Sila. Così mi ha detto la ragazza.”

La ragazza era una biondina esile in costume tirolese, con la lunga gonna nera e il grembiule a disegni rossi su fondo verde, la camicetta bianca scollata ricamata a merletto; parlava un italiano abbastanza corretto, ma maldestro, dava come l’impressione di un mancino che è costretto a usare la mano sbagliata. Non doveva avere più di vent’anni. Certo non era lì, quand’era successo. Troppo giovane. Non poteva averlo riconosciuto.

 “Beh, adesso chiediamo meglio,” disse Milena. “Così ci leviamo la curiosità.”

Ecco, questa era proprio da Milena, si disse Flavio. Lei intendeva chiarire ogni cosa con precisione, non lasciare margini oscuri, sui fatti importanti come sulle sciocchezze. Milena, sua moglie, una bella donna poco sopra i quaranta, capelli castani, carnagione curata, un viso energico dai lineamenti abbastanza marcati e regolari, che s’avvicinavano appena alla durezza maschile; la corporatura longilinea e asciutta, temprata dall’attività fisica, rivelava con l’età qualche spigolo di troppo.

Quella sua mania di illuminare le zone d’ombra, in questo caso era un rischio per lui. Ma sarebbe stato peggio cercare di sviarla, cambiare argomento. Milena aveva un sesto senso per le bugie e i segreti, anche se innocenti. No, non innocenti; tutt’al più innocui. Il suo ormai era innocuo, ma certo non innocente.

* * *

Sicché Milena chiamò la cameriera al tavolo, quella bella biondina tirolese. E le chiese se era proprio vero che il cane veniva dalla Calabria. E la ragazza seppe rispondere. Disse che, per quanto ne sapeva lei, dacché frequentava quel posto c’era sempre stato un pastore calabrese. I proprietari ne avevano già cambiati diversi. Quando invecchiava, e poi moriva, prendevano un nuovo cucciolo: sempre in quell’allevamento, giù nella Sila.

I proprietari erano un’anziana coppia di lì, un certo Hans e sua moglie Jetti, con cui Milena, come suo solito, aveva fatto amicizia. Sarebbe stato interessante capire cosa legasse quella vecchia coppia altoatesina e il loro maso alla Sila e i suoi cani da pastore, ma Milena non spinse così a fondo la sua indagine. S’accontentava di appurare l’esattezza dei fatti, non la incuriosivano le loro cause.

Meglio così, si disse Flavio. Del resto erano molto invecchiati, Hans e Jetti. Avrebbe avuto difficoltà a riconoscerli, se li avesse incontrati altrove. Ed era abbastanza certo che neanche loro l’avessero riconosciuto. Un cliente come tanti, una qualsiasi famigliola arrivata lassù da Milano per qualche giorno di vacanza.

Una bella famigliola. Lui, chiaramente, era parecchio più anziano di lei, s’avvicinava ai sessanta e li dimostrava tutti. Il suo secondo matrimonio, che ormai stava in piedi da un bel po’, aveva tutta l’aria di poter durare a lungo. Anna, la primogenita, era una ragazzina sui dodici anni, magra, capelli rossi, vivace ma riflessiva, già troppo alta per la sua età, anche se non aveva ancora sviluppato; Andrea ne aveva appena dieci, era il cucciolo di casa. Entrambi sportivi, naturalmente, come la madre e com’era quasi obbligatorio tra i loro coetanei. Anna era una campioncina di pallavolo, Andrea prometteva bene a calcio.

E tutt’e tre, con la madre, condividevano l’amore per la montagna. Milena era sempre stata un’appassionata di passeggiate, ferrate, una gran camminatrice. Lui non riusciva a seguirli in quelle escursioni troppo impegnative. Lo lasciavano in qualche baita o rifugio, con un buon libro, visto che gli era sempre piaciuto leggere. E non s’annoiava mica, aspettandoli. Se ne stava lì tranquillo, mangiucchiando e bevendo qualcosa in attesa del loro ritorno.

Insomma questo tranquillo ménage familiare, montanaro, li aveva portati fin lì. Proprio . Se l’avesse saputo in tempo, Flavio avrebbe trovato qualche scusa, avrebbe inventato un improvviso impegno di lavoro per far saltare la gita. Ma quando ne scorprì la meta era troppo tardi, stavano già per mettersi in viaggio. Aveva mascherato a stento lo stupore e il turbamento, allorché Milena, ormai sulla porta di casa, gli aveva fatto il nome di quell’alberghetto: un vecchio maso della Val Pusteria, appena sopra Brunico; gliel’aveva consigliato un’amica, un posto incantevole con un buon ristorante…

Anche in questo caso, a salvarlo fu la sua tendenza all’introspezione, che aveva l’effetto secondario di aiutarlo a superare certe difficoltà esteriori: Flavio si rimproverò la sua mancanza d’iniziativa, che lasciava sempre a Milena l’organizzazione dei week-end in montagna; e questa riflessione immediata, rivolta a se stesso, gli impedì di far trasparire l’ansia, quando Milena nominò l’albergo. Lei, indaffarata negli ultimi preparativi, non colse il suo smarrimento e non sospettò nulla. E dopo, assorbito il colpo, gli fu più facile mascherarlo. Ma provare a cambiare destinazione o cancellare la gita a quel punto, questo era escluso…

Quelle brevi vacanze erano così piacevoli, per tutti loro. Nel senso dell’entusiasmo attivo, per Milena e i ragazzi. Della pigra abitudine per lui. Val Tellina, Trentino, Stelvio… stavolta, pericolosamente, Val Pusteria. Milena aveva quasi esagerato, al mattino, portando i ragazzi a fare rafting in Valle Aurina, mentre lui oziava in un caffè di Campo Tures, dissimulando l’inquietudine. E passeggiava poi nervosamente lungo il torrente, con l’idea, chissà, di vederli da un momento all’altro spuntare da sotto un ponte, scivolando sulla corrente attaccati a qualche specie di gommone… e intanto contava le ore che ancora restavano di quel week-end, quanto mancava a rimettersi in macchina e prendere la via del ritorno. Fingendo, finché poteva, che fosse un posto qualunque, rendere inoffensivi quel maso e il suo cane.

* * *

Il cane, intanto, era andato sul retro, dove affacciavano le cucine del ristorante e dove probabilmente si trovava ancora la sua cuccia. Quasi certamente la stessa che era appartenuta a Pit. Forse davanti alla cuccia c’era la sua ciotola. Quella maledetta ciotola.

Flavio s’alzò con la scusa di andare a fumare una sigaretta e s’allontanò dal tavolo. Fece il giro attorno al maso, passando sul lato anteriore. Il magnifico affaccio sul pianoro di Brunico, la cittadina distesa ai piedi delle montagne, nell’ampio slargo vallivo solcato dalla Rienza. E il massiccio di Plan de Corones, davanti, con le fasce serpeggianti delle piste da sci – adesso a prato – che tagliavano la compatta distesa di boschi. Larici e abeti. Ancora verde scuro entrambi, in quel fine estate. Ma già s’intuiva qualcosa, nei larici, della metamorfosi che li avrebbe tinti d’arancio e giallo acceso in pieno autunno.   

Una volta aggirato il maso, sul retro riconobbe le cucine. E la cuccia di Pit. E la ciotola. S’era acceso davvero una sigaretta, inavvertitamente, quasi per avvalorare la scusa, e ora guardava con curiosità quella cuccia vuota e quella ciotola, vuota anch’essa. Era attratto da quegli oggetti, non poteva negarlo. Una curiosità meccanica, come estranea a se stesso e vagamente ipnotica, lo spingeva ad avvicinarsi fin quasi a toccarli. A ridosso di quel limite… In fondo, adesso, era grato a Milena. Quella coincidenza imprevista, che aveva scoperto troppo tardi e che avrebbe preferito evitare, che al principio aveva subito con angoscia, ora lo interessava. Metteva a nudo qualcosa che aveva omesso. Nascosto non solo a Milena, ma anche a se stesso. Per tutti quegli anni.

L’aveva prevista? Forse, all’epoca, l’aveva persino prevista. Un attimo prima che accadesse. E, dopo che era accaduta, non aveva mai davvero pensato a quell’episodio, ma solo alle sue conseguenze. Conseguenze fatali. La menomazione di Martina, il suo rimorso, l’ineludibile rimprovero di Franca e la sua incapacità di superarne il rancore. La fine del matrimonio. Conseguenze, nient’altro che conseguenze. Che avevano assorbito per intero il suo dolore durante tutto quel tempo. Ma il fatto in sé, quello che le aveva prodotte, lo aveva perduto, sepolto sotto una coltre inerte di effetti successivi.

Adesso il fatto era lì, davanti ai suoi occhi. Vivo e nudo, negli oggetti che l’avevano inscenato. Resuscitato da quell’innocuo week-end di memoria.

* * *

Quel giorno Martina giocava sul prato con Pit, il gigantesco cucciolone. Così estroverso e allegro. Che aveva sempre voglia di farsi accarezzare e pareva nutrire una predilezione proprio per loro, forse perché erano l’unica coppia ospite del maso che avesse un bambino. Una bambina. Martina, che allora aveva cinque anni. Pit l’adorava, si faceva fare qualunque cosa da lei. E, soprattutto, quel che piaceva da matti a entrambi era giocare al cavallo e all’amazzone (così avevano battezzato quel gioco, lui e Franca: Martina lo montava a pelo e Pit sembrava davvero un massiccio destriero, un leggendario bucefalo di montagna). Flavio o Franca la sorreggevano, marciandole accanto, e Pit incedeva lento, consapevole, Martina afferrava ciocche del suo folto pelo per sorreggersi; si serviva di ciocche di pelo per farne briglie del suo galoppo, sotto la divertita ammirazione di mamma e papà. Pit pareva deliziato da quel peso leggero, dagli strattoni di quelle manine che doveva scambiare per carezze…

Quando finì la sigaretta, e si volse per cercare dove spegnere la cicca, vide che c’era Hans alle sue spalle. E lo fissava. Chissà da quanto.

 “Salve,” disse Flavio, cercando di darsi un contegno. “Mi chiedevo dove buttarla…”

 “Può lasciarla su quella pietra, Signor Bucci. Dopo pulisco io. Non ricordavo che fuma. Non mi pare che fumava, allora…”

Il loro italiano. Così schematico, nella sintassi che ignora i congiuntivi; così aspro, nella pronuncia irta di gutturali. Questo si sorprese a pensare Flavio, probabilmente per incassare meglio il colpo, per guadagnare tempo e ritardare il momento in cui avrebbe dovuto rispondere, reagire a quel riconoscimento. Poi lo fece con spontaneità. Evidentemente quella giornata portava fatti antichi a riaffiorare, non solo per lui.

 “Ha ragione, non fumavo allora. Ho cominciato dopo. Mi chiedevo anche se è la stessa… La stessa cuccia e la stessa ciotola,” disse.

 “No,” disse Hans. “Le ho rifatte. Dopo che siamo costretti ad abbattere Pit.”

 “Dopo che foste costretti ad abbatterlo…” disse Flavio, incapace di trattenersi dal correggere la rozza grammatica di quel crucco, quel buon crucco di Hans. “Mi dispiace, non lo sapevo… Non seppi più nulla, in effetti…”

 “Né noi di voi,” disse Hans. “Ma vedo che anche lei ha cambiato. Noi, nuova cuccia, nuova ciotola, nuovo cane. Lei, nuova famiglia.”

* * *

Sì, nuova famiglia. Una famiglia tranquilla. Un’ordinata serenità, questo rappresentava Milena per lui. L’aveva conosciuta alla Morelli&Partners, lo studio legale in cui lavorava da anni e di cui all’epoca era da poco diventato un giovane associato, mentre lei c’era appena entrata come praticante. Una bella ragazza di lì, di Milano, attiva, energica, solare. Lui, romano, s’era trasferito nel capoluogo lombardo per lavorare sul serio al suo ramo d’affari. Alla sua carriera: avvocato d’impresa. Curava contratti, associazioni, contenziosi, principalmente nel campo delle costruzioni.

No. Ci s’era trasferito per cambiare aria. Per dare un taglio netto al passato, ricominciare.

Quella ragazza efficiente e abbastanza brillante l’avevano assegnata a lui sul caso Lasini contro il Governo ucraino, un arbitrato da un centinaio di milioni. Ci avevano lavorato giorno e notte, week-end compresi, a preparare i dossier, le testimonianze, l’arbitrato a Stoccolma…

L’avevano poi perso, quell’arbitrato. Del resto era una di quelle boutade disperate che un’impresa ormai quasi alla canna del gas tenta quando qualunque pretesto per infilare nei bilanci una possibile voce attiva, anche se illusoria, è prezioso per guadagnare qualche mese di sopravvivenza. Aveva solo quello scopo; nessuno credeva davvero di poter vincere una causa così mal imbastita… Però, una ricaduta positiva quel fallimento – che per un paio d’anni aveva seriamente penalizzato la sua carriera – l’aveva avuto: era stato l’incontro con Milena, intessere a poco a poco un nuovo rapporto con una donna, una relazione stabile dopo che per tanto tempo era stato incapace di averne.

Quella battuta d’arresto professionale e l’inizio della sua storia con Milena in qualche modo si compensavano. Un brutto colpo per le sue ambizioni all’interno dello studio, ma un principio di resurrezione dei sentimenti nel suo mondo interiore. Arrivati entrambi quasi all’improvviso, inaspettati, a conclusione di un periodo che ricordava tra i più oscuri della sua vita.

Gli anni bui iniziati con la fine del suo primo matrimonio, traumatica e vergognosa; la perdita – e l’inimicizia, il disprezzo – della donna che aveva amato in modo ben diverso da Milena… E, per converso, i primi rabbiosi successi sul lavoro. Spianarono la strada a brillanti sviluppi. Un tour de force, un’arida intensissima marcia forzata in un deserto affettivo in cui fiorivano qua e là, come cactus, splendidi trofei professionali. Ne avevano fatto in pochi anni il membro più giovane e rampante dello studio, legittimando la sua aspirazione ad essere promosso associato. Le altalene della vita privata e dell’attività lavorativa erano sempre andate in controtempo, per lui. Erano arrivati anche dei soldi, delle belle macchine, una segretaria personale, una casa a tono, adeguata a quella Milano così dinamica ed effervescente. A quella desolazione.

Poi era spuntata Milena e non si può dire che fosse stata vera passione, con lei. Ma un lenitivo, un naturale riempimento del vuoto. Flavio aveva come l’impressione di aver trovato per puro caso, tastando nel buio, quel rubinetto che sembrava smarrito; lo aveva aperto e quella parte di sé rimasta chiusa fino ad allora, per semplice legge fisica era tornata a riempirsi… Solo, di una sostanza un po’ diversa. Il liquido s’era leggermente alterato, nel frattempo. Un sentimento più amaro, venato di cinismo, un amore figlio dei fallimenti e delle delusioni. Un legame più solido, quindi, in cui ci si poteva un po’ nascondere, un po’ mentire, non occorreva svelare tutto…

Qualcosa di sé, a Milena, non l’aveva mai rivelato.

* * *

Il cane, Pit, quel grosso pastore calabrese con cui erano entrati così in confidenza, giocava con Martina sul prato.

Lui e Franca avevano appena finito di pranzare, erano ancora seduti a tavola – la stessa tavola apparecchiata fuori, sotto il porticato, come piaceva a Franca; coi resti dei taglieri di formaggi e speck, yogurt freschi, marmellate, burro di malga e pane fatto in casa; tutto ancora da sparecchiare, gli avanzi del loro pasto prima della siesta pomeridiana – Jetti era dentro, in cucina, e sfaccendava; Hans, sul retro, stava forse riparando quella staccionata un po’ malmessa, Flavio lo sentiva battere, segare. Sul portico, davanti al prato, non c’erano altri clienti, il maso non era ancora così famoso, a quei tempi…

Franca s’alzò per andare in bagno. Disse:

 “Sta’ qui a sorvegliare Martina. Meglio non lasciarla sola, a giocare con quel cane.”

 “Pit? Ma se l’adora,” disse Flavio.

 “Certo. Ma è meglio che la guardi,” disse lei. Perché lo disse? Cosa c’è, nelle situazioni che abbiamo sotto gli occhi, che ci fa cogliere a volte queste sottili premonizioni? No, fantasie. Niente di niente, non c’era niente. Una banale apprensione che può prendere qualunque madre.

Martina e Pit avevano iniziato un nuovo gioco. Martina raccoglieva oggetti – un ramo spezzato, un piccolo ciocco di legno caduto dalla legnaia, il suo secchiello – e li tirava maldestramente più lontano che poteva. Pit correva a prenderli e glieli riportava, li deponeva trionfante ai suoi piedi; lei li riprendeva, o cercava altri oggetti, e li lanciava di nuovo. Era una bambina piena di fantasia, Martina, non gettava mai troppe volte lo stesso oggetto, sorprendeva Pit, lo disorientava cambiando giocattolo sotto il suo naso, afferrando qua e là quel che trovava; e Pit era un po’ sbalestrato, incantato da quei cambiamenti continui, da quelle invenzioni…

Flavio si alzò per sgranchirsi le gambe. Attraversò lo spiazzo anteriore, quello messo a ghiaietto, di fronte al maso, imboccò il vialetto che portava alle stalle e alla staccionata che, laggiù, Hans stava riparando. Non s’allontanò molto, giusto due passi. L’inavvertenza di svoltare il cantone…

Martina continuava a lanciare, trovava di continuo nuovi oggetti per confondere Pit. La sua palla, un pezzo di corda, una pigna, la ciotola. La ciotola di Pit.

Nel ricordo di Flavio, si annida da qualche parte la sensazione d’aver intuito, un attimo prima che accadesse, il cambiamento e raffreddamento dell’aria; d’aver avuto la percezione del pericolo una frazione di secondo prima di sentire il fiato e la corsa del cane – il cui suono gli arrivava fin lì – trasformarsi in quel ringhio sordo, incattivito, improvvisamente feroce. Ma, naturalmente, è una suggestione. Una sciocca, irrealistica suggestione a posteriori. Del tutto inutile. Lo prova il fatto che non reagì subito, non fu neppure il primo ad arrivare sul posto.

Franca balzò su Pit prima di lui, fu lei a strappare la bambina alle fauci del mostro, a tirar via la mano, quel grumo di carne e sangue che non voleva saperne di staccarsi dai denti.

Il resto fu molta concitazione, urla, pianti, una corsa in ospedale, il meglio che quei medici fossero in grado di fare per quella mano. Poi ci fu un lungo seguito di cure, ricostruzioni e plastiche, una cosmesi piuttosto riuscita. Ma l’uso della mano destra di Martina non fu salvato. E nemmeno il loro ramo della storia: Franca non seppe proseguirlo, dopo quel fatto, lo spezzò con furore, senza perdonargli nulla, fu incapace di remissione. Dell’altro ramo, quello di Pit, Hans e Jetti, non aveva saputo più niente fino ad allora.     

Flavio spense la cicca sulla pietra che Hans gli porgeva. Poi tornò di là, al tavolo. Milena e i ragazzi stavano pianificando la gita del pomeriggio, alle Piramidi di Terra, appena oltre Villa di Sopra. Flavio disse che sarebbe rimasto in camera a finire il libro. Per l’indomani Milena aveva già deciso il programma: escursione al Passo delle Erbe, una diramazione della Val Badia. Dopodiché sarebbero rientrati. Una doccia, un breve riposo, fare i bagagli e via per Milano. Non c’era ragione di temere che Hans non avrebbe custodito il segreto per ventiquattr’ore ancora.

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