Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Il borgo che fu

Piccole case, “camerae”, nicchie scavate nella roccia. Ruderi sopravvissuti a un incendio che spopolò il luogo. Camerata Vecchia con le sue suggestioni vale un trekking su per i monti Simbruini. Una delle tante belle escursioni nel Lazio del Sud

È un capitolo della guida Le più belle escursioni del Lazio Sud, del Club Alpino Italiano. E raggiungerla non è poi tanto difficile, bastano un paio di scarpe da trekking e le gambe allenate a percorrere una quindicina di chilometri, tra andata e ritorno. Ma la meta è affascinante, per tanti motivi. Perché Camerata Vecchia non è soltanto incastonata su uno sperone di roccia dei monti Simbruini – la catena che per un tratto divide Lazio e Abruzzo per sfociare poi a Filettino, nel Frusinate – e spazia la vista su crinali boscosi, simili a un mare di onde verde scuro; ma è anche una “città fantasma”, muri a secco diroccati, quel che resta della cinta e delle case di un borgo popoloso di contadini, pastori e artigiani sorto nel decimo secolo dopo Cristo in un posto azzardato per sfuggire alle incursioni dei saraceni, a quota 1220 metri: un territorio di speroni calcarei e di abissi, intricato di rovi e di faggi. 

Data al 955 il primo documento sulla città carseolana. L’epoca dell’incastellamento, con gli abati di Montecassino e di Subiaco ad alternarsi alle famiglie nobili nel controllo dei territori. Furono i conti dei Marsi i signori nel Medioevo e oltre, “investiti” dalla Chiesa con svariate forme di usufrutto. Ma era l’operosità degli abitanti a far prosperare Camerata. Dai tronchi dei faggi ricavavano sottili assi di legno che poi incastravano, senza uso di chiodi o viti, per costruire le “arche”, bauli resistentissimi e insieme leggeri, qua e là intarsiati, al massimo della raffinatezza nel Settecento. In queste casse radunarono in fretta le cose più necessarie quando nel gennaio 1859 dovettero abbandonare precipitosamente la città a causa di un incendio – probabilmente innestato da un camino domestico – che decretò la fine del borgo. Sfollati più a valle, sul Colle di Mezzo che domina il torrente Fioio, non abitarono più gli impervi domicili. E con i trecento scudi messi a disposizione di papa Pio IX costruirono quattrocento metri più in basso la loro città: che doveva chiamarsi Borgo Pio Camerata ma che poi divenne sbrigativamente Camerata Nuova. (Nella foto: prima veduta di Camerata, 1778, Libero Coccetti).

Lassù, sulla roccia, le costruzioni decadevano. Mura possenti si sbriciolavano assaltate dalle frane di un terreno diventato incolto, che anche con le radici si incuneava tra le pietre, scardinandole. Ed è ora il carisma silenzioso di Camerata Vecchia questo succedersi di alzati grigi e rugosi, da ritrovare infilandosi tra una roccia e l’altra. La “casa di Nello” è quella più leggibile, dove resiste il pavimento e il focolare. Mentre resta miracolosamente in piedi l’arcata bianca della Chiesa di San Salvatore, protetta dalla roccia scavata, come la maggior parte delle abitazioni: cameraeerano dette queste nicchie, e da qui il nome di Camerata. 

Si può arrivare da parecchi punti a Camerata Vecchia. Dalla città nuova, ma anche, per esempio, dall’Osservatorio astronomico di Prataglia, sull’altopiano che sovrasta Cervara, un’altra perla del Parco Naturale dei Simbruini. Percorso quest’ultimo quanto mai suggestivo perché – tra le chiome degli alberi e dei cespugli – permette di scorgere dall’alto, sull’opposto versante, le case di Camerata Nuova e sullo sfondo, là dove pare che il costone si arresti, le fantasmatiche rovine di quella Vecchia. E se si può imputare alle autorità locali la mancanza, in questo percorso, della indicazione precisa della sterrata in salita da imboccare per raggiungere la meta (chi scrive l’ha azzeccata grazie alle informazioni di un automobilista del luogo incontrato sulla carrareccia per Camposecco), quando la si raggiunge si resta incantati dal paesaggio sconnesso e tanto appartato da apparire sacrale. Perché conserva l’alito misterioso di vite e consuetudini interrotte dalla potenza devastatrice delle fiamme. 

L’ultima stazione prima di raggiungere quota 1220 metri è una piccola chiesa, affacciata sull’anfiteatro dei monti: si chiama Santa Maria delle Grazie, la cappelletta, aperta al culto solo il lunedì di Pasqua, quando si va a pregare la Madonna raffigurata nel dipinto sull’altare tra i santi Lorenzo e Francesco. Una facciata spartana su una piccola gradinata in peperino e il tocco raffinato di un portale neoclassico in marmo bianco. Non lontano il palo con i cartelli del Club Alpino indicano la direzione e i tempi di percorrenza per altri ambiziosi traguardi: il rifugio di Camposecco, il Monte Autore, Vallepietra. Ma qui ci vuole la stoffa di ben allenati camminatori.

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