Giuliano Compagno
Lamento in morte di un poeta

Gabriele Galloni, poeta

Gabriele Galloni era molto più che una promessa della nostra poesia. Nei suoi versi abitavano un candore e una torbidezza che davano sempre alla luce un gemito o un sorriso che nessuno si lasciava mai dietro, neanche voltata pagina

Vi era una forma di carisma a sostenere la figura di Gabriele Galloni, e in un poeta questo è un segno importante. Come accennare a un sogno che il lettore sente e proseguirà. È quel che è accaduto alla notizia che Gabriele non c’era più. Per sua volontà, se può chiamarsi tale, si era distaccato. Potrei usare mille metafore, e libri, e versi per descrivere un ragazzo e la sua opera futura che se ne vanno insieme lasciandoci senza fiato, per via che l’uno e l’altra portavano un solo nome e la stessa faccia. O almeno ciò valeva per lui, che era uno dei pochissimi poeti veri a scrivere e a pubblicare in questo paese di false penne.

Gabriele Galloni era un poeta, alla francese. Lo era e non lo faceva, il poeta, e ciò non soltanto fa una differenza immensa ma mi trasmette il dolore materiale di avere perduto tanta eccezione. Nelle poesie di questo ragazzo abitavano un candore e una torbidezza che, a stare insieme in un solo animo, davano sempre alla luce un gemito o un sorriso che nessuno si lasciava mai dietro, neanche voltata pagina. Mi turba il rimpianto di quanto ci siamo persi e del pari mi invade il rancore nei confronti di una società letteraria che mescola tutto con tutto e a fine serata non emerge più nulla.

Gabriele era un fuoriclasse anticipato e a me lo aveva segnalato la mamma di un suo amico. «Incontralo, è bravo, vedrai…». E così mi venne a trovare, nel luglio del 2012, questo diciassettenne dai modi insoliti e un fare silenzioso, come se non volesse disturbare. Vestito come chi avesse appena fatto la doccia dopo una partita a pallone, uno sguardo concentratissimo, la mente in cerca delle prime connessioni. E poi le sue curiosità letterarie, tanto inattuali a suo tempo quanto sorprendenti per l’acutezza di affrontarle a quell’età e in quel modo: di Georges Bataille e di Donatien de Sade mi stava accennando con un’ingordigia intellettuale che nascondeva appena i desideri di fuga e di conoscenza che lo animavano.

Scappare dentro se stesso, questo voleva. Lasciare fuori del suo centro abitato la famiglia e le convenzioni, le vanità di basso profilo, la scontatezza del solito avvenire. Infine lì abbandonarsi, all’opera di Bataille che gli avevo suggerito e che tanto lo aveva attratto sin dal suo titolo: L’Esperienza interiore. Mi salutò che era un po’ meno maceroso di prima, forse si sentiva capito, fortunatamente i suoi segreti e la sua adolescenza privata erano rimasti inviolati laggiù, nel suo scrigno.

E poi c’era tutta la vita di un ragazzo che sarebbe cresciuto, gli amori che si toccano con gesti quasi irrilevanti e l’intimo benemerito disprezzo nei confronti di chi esibisse e di chi gradisse una virilità sempre meno poetica ai suoi occhi. Questo raccontano gli amorevoli messaggi di commiato delle fanciulle di un tempo, l’affetto degli amici, il silenzio sgomento dei cari. Questo racconta la morte. E tutto il resto, tanto per contraddirci, rimane. Precoce nel creare, precoce nell’annullarsi, come Alfred Jarry che, liceale, trasforma un ridicolo maestro nel suo Ubu immortale ma che poi non regge alla fatica di una grande vocazione e si lascia spegnere in un male ignoto… «Poco prima di spirare Saltas gli aveva chiesto se avesse bisogno di qualcosa e lui aveva avuto la forza di chiedere uno stuzzicadenti; il suo volto di era illuminato vedendone un’intera scatoletta».

Quest’andarsene da fanciullo sarebbe molto piaciuto a Gabriele. E allora mi chiedo perché non aspettare il minuto dopo. Uno solo, che costava? Mi domando cosa mai vieti di scansare un certo pensiero e di aspettarne un altro, magari non conseguente. E immaginare che altri anni sarebbero trascorsi e che quella tua poesia preferita l’avremmo riletta, e nel frattempo non l’avresti buttata via ma avresti vissuto «al culmine dell’opera»… Ti costava poi tanto? Ah, ti avrei anche detto che quella era la massima ambizione di Carlo Michelstaedter, sebbene si fosse ucciso a ventitré anni. Vivere al culmine dell’opera! E allora non trascrivo la tua poesia migliore ma gli ultimi versi di quest’autore sublime.

Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M’è straniero
l’aspetto d’ogni cosa, m’è nemica
questa natura! Basta! Voglio uscire
da questa trama d’incubi! La vita!
La mia vita! Il mio sole!  

Portali con te, Gabriele, restituiscili a Carlo. Non dovevi. Non dovevate.                                          

Facebooktwitterlinkedin