Danilo Maestosi
Al Museo Bilotti di Roma

Arte della crudeltà

Renata Rampazzi torna su uno dei temi principali delle sue ricerche giovanili: il rapporto tra sangue e dolore, nel segno della denuncia contro la violenza sulle donne. E così la mostra “Cruor" è al tempo stesso un colpo allo stomaco e un campanello d'allarme

Il colore del sangue per attraversare la tragedia senza fine del femminicidio e il tragitto della sua stessa vita ed esperienza di donna. È la doppia chiave con cui Renata Rampazzi – artista torinese over 70 trasmigrata a Roma, una  carriera di caratura internazionale alle spalle, credito che le nuove mode del Contemporaneo hanno ingiustamente intiepidito – ha impostato la mostra, in corso al Museo Bilotti di villa Borghese. Riproposta con una nuova veste a Roma, dopo il debutto nel 2018 alla fondazione Cini di Venezia e il lungo letargo imposto dalla pandemia. Ma lo stesso titolo: Cruor. Un etimo con cui la saggezza della lingua latina ci ha insegnato a distinguere tra il sangue, flusso che alimenta e può sgorgare da un corpo ancora vivo, e il liquido rappreso della morte, o il mestruo, sigillo di quella ciclica esperienza di fine e potenziale rinascita che timbra in gioventù ogni esperienza femminile.

Il tema del femminicidio non è nuovo, quasi inflazionato dal moltiplicarsi di iniziative che non solo in Occidente accompagnano, sul versante artistico, la presa di coscienza degli ambigui e devastanti legami tra i crimini contro le donne e la crisi di potere che ha investito la supremazia e l’immaginario maschile.  A riscattare questa mostra dal rischio inesorabile della ripetizione e del già detto è lo scatto di concretezza e sincerità che ne scandisce in tre diversi segmenti, come nella partitura di un concerto, il percorso. E soprattutto la partenza.

Quei quadri di oltre quarant’anni fa, ora riesposti nelle piccole stanze al primo piano del museo, con cui Renata Rampazzi, provò a dare forma ad una sofferenza che la squarciava dentro. 

È lei stessa a rievocare quell’avvenimento così doloroso, nascondendo con legittimo pudore che cosa sia stato davvero: «Un atto di crudeltà che ha toccato la parte più segreta e preziosa del mio essere donna», si limita a dire. Già una crudeltà, la stessa radice di cruor. Una ferita che irradiava sangue, si coagulava in una macchia più cupa di tessuto già morto. Questo sentì allora il bisogno di dipingere per liberare l’anima da quell’infezione. Nessuna figura, solo il ricorso a quella gestualità che aveva imparato a conoscere e incanalare lavorando fianco a fianco nello studio di Emilio Vedova, uno dei padri fondatori dell’espressionismo astratto, e poi a poco a poco a dominare e adattare alla sua sensibilità. In ognuna di quelle tele un colpo brusco di spatola intinta da un colore denso, catramoso solca lo spazio e sbalza in una increspatura frastagliata la superficie, come a seguire il bordo di una lacerazione. Non si scappa lo sguardo deve entrare da quella fenditura, misurarcisi. È il centro ipnotico di ogni possibile modo di vivere e abitare quella visione. Come essere riportato indietro di secoli sul Calvario per assistere dal vivo alla Crocifissione e non riuscire a distogliere l’attenzione dalla cicatrice slabbrata impressa dalla lancia che ha abbreviato il supplizio di Cristo marchiando il mistero del punto in cui la vita si spegne e l’Uomo vene restituito a se stesso per diventare, ritornare Dio.

Molto più forte di un grido, perché il dolore spezza la voce in un sussurro e tu sei lì inchiodato a orecchie tese, per cogliere almeno un frammento di quella verità soffocata. Solo dopo ti accorgi che quella bocca storpiata ha i contorni di una vagina, racchiude un dolore e mistero di donna. Solo dopo puoi inquadrare altre tracce di un rosso più squillante ed intenso che si estende e si propaga in onde più nebbiose e sfumate, colature slavate dove sopravvive una traccia di vita , forse la compassione di un lavacro.

Mai, probabilmente, la pittura di Renata Rampazzi ha raggiunto quel livello di intensità di scavo, mai forse lei stessa si è esposta così senza filtri. Eppure quella mostra fu un fiasco. Pubblico e critici silenziosi e sconcertati. L’autrice così delusa da archiviare quei quadri in magazzino e dimenticarli lì, come opere malriuscite. Si entrava negli anni Ottanta, si navigava tra i miraggi di un mondo di progresso e ricchezza senza fondo e a portata di mano , di una finta risoluzione dei conflitti e delle tensioni sociali, di ideologie e muri da abbattere, di intellettuali relegati senza troppe reazioni al silenzio o alla complicità , gli artisti invitati in massa al banchetto purché non dessero disturbo: no, quelle lacerazioni, quel crudo e funebre spettacolo di sangue, non potevano trovare ascolto.

Anche Renata Rampazzi, elaborato il suo lutto, ha finito probabilmente per adattarsi, rifugiandosi – come nota nella presentazione in catalogo anche un critico amico come Claudio Strinati – in un suo limbo di distacco orientale, in un culto della bellezza che ha limato le asprezze della sua pittura anche se ha moltiplicato le seduzioni della sua tavolozza. Ma quel sussurro, quel soprassalto di dolore personale rimosso è rimasto lì a lavorare come un tarlo, aggrappato alla sua consapevolezza femminile fino a quando le notizie choccanti delle violenze contro le donne registrate come un fenomeno in aumento dai mezzi di comunicazione e dal chiacchiericcio dei socialnetwork, non si è ridestato spingendola al ripensamento e all’azione. Cioè ad un nuovo intervento da pittrice sul tema, che ha appunto preso corpo in questa mostra presentata prima a Venezia e ora a Roma. Come una rappresentazione o meglio un concerto, vista la liquidità musicale che sempre più caratterizza la produzione di Renata Rampazzi.

Il primo atto, è stato ritirar fuori dai depositi e rileggere al presente quei vecchi quadri di gioventù, riscoprirne l’attualità non intaccata dal tempo e decidere di riesporli come una partitura in tre movimenti. Un prologo, un adagio quasi atonale. che almeno a me ha regalato le emozioni più intense.

A seguire un secondo tempo, in un crescendo molto forse anche troppo ritmato: un susseguirsi di tele lunghe e strette accostate le une alle altre lungo il corridoio del museo come spezzoni cinematografici ricomposti in sequenza al tavolo di montaggio. Sopra gli stessi segni, la stessa sinfonia di varie note dal nero al rosso cupo, dal rosa al violetto, della prima parte, ma una pittura più gridata, una musica più carica e ad alto volume, ma più povera di vibrazioni intime. L’idea era quella di esporre il dramma del femminicidio, come un susseguirsi incalzante di voci che si accavallano di un coro da tragedia greca, per imprimere nel visitatore la sensazione di un trapasso da un fraseggio di storie individuali all’epopea di un fenomeno che investe l’intera società, ne denuncia colpe , miopie ed errori e reclama soluzioni condivise all’altezza.

Un allestimento per un pubblico in transito che nelle intenzioni dell’autrice serve a guidare il visitatore verso il palcoscenico dell’ultimo atto e il colpo di scena che gli riserva. Non più lo spettacolo e il colloquio con le singole tele ma una istallazione immersiva. Un tunnel in penombra di quinte accostate e coperte da reti di garza dipinta che devi attraversare verso la luce e i colori squillanti di un fondale di un rosso acceso. Sulle garze di nuovo si intravedono cicatrici e ferite, ma è un tessuto che trattiene a stento i segni, su cui i colori sbiadiscono e ondeggiano come una danza di fantasmi. Sembra un effetto in sordina mal dosato. Ma è un colpo d’ala d’artista che, facendo tesoro della saggezza della sua età, ci precipita nella malinconia e ci riporta ad una verità che possiamo, dobbiamo ritrovare soprattutto in noi stessi. Ci obbliga a riflettere che gridare a voce alta la denuncia contro la violenza sulle donne può appagare la rabbia ma anche illuderci di avere già dato, che la soluzione a ogni male sia sbattere i colpevoli in prigione e buttare la chiave.

Facebooktwitterlinkedin