Giuliano Compagno
Il festival "Orizzonti verticali"

Le parole che restano

Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari hanno inaugurato la loro rassegna di culture teatrali con uno spettacolo-performance ispirato alle pagine "perdute" nei giorni della chiusura per il Covid. Un modo per consegnare la parola al tempo

L’Ottava edizione del festival di cultura teatrale Orizzonti Verticali, la più incerta e la più difficile che si potesse immaginare, resta nel solco delle ultime cinque e in un certo senso ci gira intorno. Si perdono quelle definizioni che nel recente vissuto della scena italiana erano state abusate, e spesso riprese dal “terzo linguaggio di Fahrenheit”, quasi a nascondere il disordine che era sotto il palco: né attraversamenticontaminazioni (con queste ultime, tra l’altro, meglio non scherzare), semmai contatti vivi tra la parola e ciò che l’accompagna e la protegge. Le giornate del festival saranno soltanto tre (è incominciato ieri, terminerà domani, sabato 29 agosto) ma ci basteranno per assistere a una sorta di simposio tra Spettacolo, Performance, Danza, Arti visive e Letteratura.

In nome e per conto di una parola resa, lascerei da parte la retorica e mi concentrerei sulla pratica, e cioè su un’opera collettanea che è all’origine della manifestazione, allorché ad artisti, a intellettuali, a critici e al pubblico è stato domandato un sacrificio necessario: quello di staccare da un loro libro la pagina più amata, che davvero aveva regalato il significato primo e ultimo della lettura. L’immolazione è avvenuta nel tempo breve del nostro confino, come un transito da non-luogo a non-luogo. Con la sottile differenza che per l’occasione alcun rogo sarebbe stato acceso. Sarebbe infatti accaduto qualcosa di più forte.

Il genio insuperato di Georges Bataille, senza saperlo, era già arrivato a definire in un modo sommo l’evento di cui sopra: «Il sacrificio non è niente altro che la produzione di cose sacre». Quando cito codesto imprescindibile intellettuale del Novecento europeo, da un lato mi commuovo, dall’altro mi arrabbio per via della nostra carenza persino di antropologi metafisici (a forza di attualizzare, abbiamo ripensato nel nulla…). Ebbene questa bella idea di Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari, direttori artistici di Orizzonti verticali, ha realizzato il formarsi, nella Piazza Duomo di San Gimignano, di una grande, installazione verbale. Indistruttibile e indimenticabile.

E per coerenza il festival ha inteso presentare il suo spettacolo-manifesto, che oggi e domani troverà replica nella medesima cornice della piazza antica. Qui la “Compagnia Giardino Chiuso” ha messo in scena Bianchi Sentieri di Guicciardini e de Bari (sua la coreografia, di Rosaria Minneci i costumi, di Daniele Borri le elaborazioni sonore e di Andrea Montagnana il video). L’interpretazione e i movimenti erano di Camilla Diana.

Cos’è che emozionava profondamente, nel mentre seguivamo una traccia così difficile? Dapprincipio il fatto che le sonorità e le immagini si adattassero bene alle intenzioni degli autori. Era come se la Diana e i suoi spettatori sacrificanti offrissero insieme allo sconosciuto ospite tutto quel che in loro si era conservato e da loro si era trasmesso. «Certamente dipenderà via via dai luoghi prescelti – mi dice Guicciardini – perché ogni parola può mutare a seconda dello spazio in cui cade». Peraltro la danzatrice portava su di sé l’abito nuziale che la dava in sposa al testo, sebbene esso fosse nient’altro che una pagina strappata, morente, amputata dal corpo di quel libro dove era solita nutrirsi e addormentarsi. Tutto pareva andare verso il suo termine, e invece no. Dalla figura mobile a sostegno dell’armatura di fogli arrotolati, riprendeva forma, come nel cuore di un esercizio euritmico, l’impensabile ricongiungimento. Sarà che quelle frasi le avevamo attese e desiderate per notti e notti, sarà che il vincere l’ignoranza e la povera vanità rimane il destino ultimo di ogni Sapere, sarà perché il silenzio della lettura supera spesso la parola vuota di ogni stolto… infine il solco della scrittura è andato a incidersi nel terreno di coloro che, quelle medesime pagine, le avevano sfogliate.

Lo dico con vera umiltà: io non mai adorato Pier Paolo Pasolini per via del suo inevitabile utilizzo di un pensiero funzionale; gli rendo però merito con gioia dei lampi che talvolta ha lanciato nel buio conformismo del suo tempo: «Nel teatro la parola è doppiamente glorificata: è scritta, come nelle pagine di Omero, ma è anche pronunciata, come avviene tra due persone al lavoro: non c’è niente di più bello». La sua riflessione risulta bella in pari misura. Forse l’esito dell’opera di Guicciardini e de Bari ha addirittura oltrepassato le loro intenzioni. Le parole hanno sorvolato la materia, perché esse non sono puramente le cose che evocano; sono un che di più forte. E i due autori lo hanno ben intuito. Hanno voluto lavorare sulla memoria e così hanno ritrovato i luoghi della memoria. Per quale ragione – si domandava Maurice Blanchot – la letteratura è stata ed è ancora possibile? Perché è lo spazio letterario ad accoglierla, come può felicemente avvenire in scena.

Ogni tanto gli odierni giornalisti italiani invocano l’avverarsi di un luogo comune: voltare pagina! Per fortuna hanno sempre torto. Il termine latini pagina e págere mutarono presto in pángere, che significava fissare, congiungere. Insomma è solo per questo che scripta manent. Le pagine restano, altro che voltarle con l’illusione di cambiare il mondo. Siete voi che voltate continuamente…       

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