Andrea Carraro
A proposito de "Il mio amico"

Dentro un personaggio

Il nuovo libro di Daniela Matronola spazia fra la narrativa, il teatro e il reportage. Un lavoro atipico di ispirazione postmoderna, fra Arbasino e Foster Wallace, che spiazza il lettore portandolo direttamente all'interno dei personaggi

Leggendo Il mio amico – ultima, inafferrabile e affascinante, opera di Daniela Matronola (Manni editore, 112 pagine, 13 Euro), che viene dopo il romanzo in tre movimenti Partite del 2010, sempre di Manni – mi chiedevo che tipo di libro fosse, se fossero racconti o breve romanzo di formazione, intanto; se fosse abusivo considerarlo soltanto narrativo (sono 3 racconti di quasi solo dialogo fra due personaggi, due amici, entrambi proiezione dell’autrice, più un lungo racconto-reportage conclusivo) e non anche teatrale. Non che sia necessario saperlo, beninteso, cioè riconoscere il genere letterario cui più si avvicina (romanzo-conversazione di ispirazione postmoderna, fra Arbasino e Foster Wallace, racconto ironico-filosofico alla Diderot, vedi Il nipote di Rameau?…) – si può leggere i 4 racconti – intitolati Liquor, Il mio amico, Il lavoro rende liberi, Cronaca di una sparizioneal buio, crediamo, lasciandosi semplicemente trasportare dalla lingua ricca, avvolgente, sottilmente ironica, della scrittrice e poetessa romana, abbandonandosi al libero flusso di idee che disegnano con il loro dialogo ininterrotto i due protagonisti, Cesare e Mauro, che sono uno lo zio dell’altro, entrambi medici, uno dei quali anestesista. quasi senza soluzione di continuità, proprio perché entrambi naturalmente divaganti, digressivi, ciarlieri.

L’impasto che ne viene fuori è fatto di molti ingredienti – di ricordi personali anzitutto: un padre che tradisce la madre e rompe il quadretto di famigliola felice che si era fatto il figlio adolescente, uno scaldaletto fra le lenzuola nei letti di una volta, chi non lo ricorda, della nostra generazione!, nelle case di campagna, il prete, che arrostiva un po’ le lenzuola pesanti lasciandovi per sempre l’impronta del bruciato, e mandava quel profumo buono di cenere, un concerto rock, una presentazione del grande reporter polacco Ryszard Kapuściński in una libreria romana fatta da Fofi in pieni anni 70, e brandelli della cultura di massa affioranti – Diana Ross, Borsalino, Cucciolla, Micheal Jackson, La ragazza di Bube vista in tv con la madre… con una impressione sulla pagina, forse non è stato detto abbastanza, di continuità, di movimento (e non soltanto perché i personaggi si trovano in macchina, o in treno, o in aereo, insomma in viaggio, ma anche per una naturale propensione dinamica della scrittura)… e non dimentichiamoci di certi imprevedibili inserti storico-saggistici, – come nel capitolo Il lavoro rende liberi – le riflessioni comparate sui lager tedeschi e i gulag staliniani, venuta fuori nel flusso del discorso, forse dal sofferto tradimento paterno – uno dei momenti più caldi della conversazione, – passando per il concetto di tradimento, di onestà, – riflessioni sui rispettivi modelli giudiziari spersonalizzanti, deresponsabilizzanti, di ispirazione industriale, fordista, ipocriti, scaricabarile, con il conseguente trionfo della delazione – perfetti meccanismi di potere e di sopravvivenza dei due regimi. Insomma, un argomento pesante, entrato chissà come nel fuoco della conversazione, che poco dopo ritorna sul registro amabilmente colloquiale di sempre, con un apprezzamento magari sul caffè che si sta sorseggiando, – ma questo caffè non si raffredda mai! – o sulle giuggiole,  quasi madelaine proustiane, le caramelle che si trovavano nello studio medico di Nonno Ermanno dentro un recipiente di vetro… “quelle caramelline gommose alla frutta  colorate col micidiale E326 di cui ancora non era documentata la pericolosità: e dire che noi le davamo a voi bambini”… Poi c’è un taxi che sta scivolando a Parigi e lo sguardo di colui che sta parlando, l’ospite del taxi, uno dei due amici, che viene dall’aeroporto, dipinge il paesaggio urbano che si srotola sotto i suoi occhi, per flash, com’è giusto, per rapide distratte pennellate, di chi guarda ma pensa anche ai fatti suoi, sballottato, anche per via della guida piuttosto spericolata dell’autista, che “fa il pelo a qualche pedone e le basette ai veicoli parcheggiati”. “Penetriamo d’impeto la rete haussmanniana di boulevards bisecati dai Carrefour e strette affluenti laterali” – ma improvvisamente ecco che il punto di vista cambia, l’obbiettivo zoomma su un dettaglio minuto, su un topo nientedimeno – il grigio – che esce da un tombino sopra il marciapiede… per un attimo due universi collidono, si contrappongono, il macro delle strade trafficate e affollate di Parigi, del mondo degli umani, dei divaganti pensieri del protagonista – forse ragionante sull’espressione di default, che ormai non usa più nessuno ma che lui si ostina a usare, – e il micromondo del topo di fogna uscito da un tombino… “Il grigio se ne sta in piedi e come un comune scoiattolo nordamericano (parente prossimo) ha le zampine anteriori in posizione di preghiera mentre col muso eccitato non riesce a smettere di esercitare la funzione roditoria, pare a me del tutto a vuoto. Ora le poggia a terra ripristinando la marcia quadrupede… È spaesato, il grigio, e mi sto appassionando al suo caso.”

E anche noi ci sentiamo insieme spaesati e intrigati da quell’improvviso cortocircuito. E sentite come si conclude, con un tocco di humour anglosassone che pare uscito dalla penna di Conan Doyle o di Agatha Christie: “Certo potrò sempre vantare d’aver conosciuto un vero parigino, il più autentico dei citoyens”.  Paolo di Paolo, nella prefazione davvero illuminante, parla proprio di “humour”, Ma subito precisa: “Ma non basta, perché sarebbe uno sguardo “da fuori”. Nel caso di Matronola, è uno sguardo “da dentro””: cioè vissuto dall’interno del personaggio Cesare/Mauro, che è una annotazione importante, – con dolore, dunque, partecipazione… Come pure appartiene in qualche misura all’autrice l’io narrante colto, divertito e vagamente cinico dell’ultimo racconto: “Attraverso il salone-biblioteca indenne. Le vedove-uxoricide targate US non sono nei paraggi, dei due motociclisti nessuna traccia…” Ma la posizione della scrittrice rispetto ai suoi eroi la spiega lei stessa in una nota finale, anch’essa spalmata di ironia: “Da sponde diverse guardiamo alla materia del vivere e del narrare con qualche significativa condivisione”.

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