Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Favolacce"

La favola e la colpa

Il film di Damiano e Fabio D’Innocenzo racconta un paese in crisi, dove i grandi non sanno crescere e i piccoli non possono farlo. Una storia da raccontare a chi adulto non è, non vuole diventarlo o comunque non sa come si fa ad esserlo

Favolacce è il film che avremmo voluto vedere, necessario e spietato fin dalle prime inquadrature.  Ci racconta la realtà in cui viviamo e con la quale ogni giorno evitiamo di fare i conti, perché in fondo è una realtà che vogliamo credere prodotta dall’immaginario, collettivo e privato, il posto appunto lontano e presente delle favole, del cinema, delle notizie di cronaca che sembrano non appartenerci, tanto sono incredibilmente feroci e quindi incompatibili con le nostre vite. Il luogo dell’evidenza e dell’inesistenza. Favolacce è il film che avremmo voluto non aver visto.

La pellicola dei fratelli D’Innocenzo, che ha ottenuto l’Orso d’Argento per la sceneggiatura al festival di Berlino e numerosi Nastri d’Argento attribuiti dai critici italiani, tra cui quello come miglior film, narra le vicende di un gruppo di ragazzini e delle loro famiglie con sguardo lucido, a tratti distaccato, e insieme facendo leva sul turbamento emozionale che la storia produce, sulla confusione dei sentimenti nelle relazioni tra i protagonisti, evidente anche, anzi in maggior parte, in ambito familiare. È su un terreno fragile che lo spettatore è condotto a muoversi, portato com’è a credere e a non credere a una vicenda che sembra posticcia, ambientata nella periferia romana di Spinaceto, che appare un non luogo, tanto è caratterizzata realisticamente e tanto tale caratterizzazione risulta inasprita da riferimenti che ci riportano a un immaginario filmico e letterario. Del resto, tutta la storia è raccontata da una voce maschile fuori campo, che ci confessa all’inizio di aver trovato per caso un diario di una bambina e di aver proseguito nella lettura fino alla fine, fino a quando cioè la narrazione diaristica bruscamente si interrompe. A questo punto è lo stesso uomo a proseguire la narrazione, utilizzando le pagine che ancora mancano a finire il quaderno. «Quanto segue è ispirato ad una storia vera – dice la voce (Max Tortora) mentre scorrono le immagini iniziali della pellicola –. La storia vera è ispirata ad una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata».

Damiano e Fabio D’Innocenzo

Nell’estate fuori dal tempo di questa periferia fuori dal tempo (ma ogni estate e ogni periferia sono inevitabilmente fuori dal tempo), sappiamo che dovrà accadere qualcosa. Lo percepiamo nel senso di frustrata agitazione che aggredisce gli adulti, nello spaesamento quasi immobile che si legge sui volti dei bambini e si risolve in turbamento, in una sorta di sterile e appassionata voglia di capire il mondo. Damiano e Fabio D’Innocenzo sono bravissimi a raccontare l’inespresso attraverso i volti dei bambini e dei loro genitori, a farci scoprire anche quello che non viene detto, e che costituisce una parte consistente del film. Il conflitto, anche quando non si rappresenta, e con esso il senso di dolorosa rassegnazione, sono già lì, stampati su quei volti che non sanno esprimersi, negli sguardi che descrivono sempre una mancanza, nei sorrisi, pochissimi e ogni volta trattenuti, che ci figurano la refrattarietà insita nelle relazioni personali. L’abbandono, l’accettazione della violenza, anche quando non si vede o non ci riguarda, sono presenti nei corpi degli adulti, prima ancora che accada qualcosa che giustifichi la rinuncia e il cedimento, nelle loro posture, nelle andature irrimediabilmente agitate senza che ce ne sia necessità, nelle magliette sudate, nelle andature sgraziate, nella bruttezza che penetra nei movimenti e nelle case, anche nelle villette a schiera, così linde e ordinate.

Tutti bravissimi gli attori, a cominciare da Elio Germano, per proseguire con Barbara Chicchiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta, Ileana D’Ambra, Giulia Melilio, Lino Musella, alle prese con il compito di far emergere spigoli nascosti senza che siano mai del tutto visibili, a mostrare fragilità e un senso recondito di colpa, che non produce peraltro nessun bisogno di redenzione (colpa di ogni cosa, quasi fosse il segno profondo dell’esistenza). Proprio nel momento in cui ostentano sicurezza, una gagliardia che vorrebbe avere i crismi della stabilità, i personaggi si riconoscono in bilico tra voglia di essere felici e l’impossibilità non solo ad esserlo, ma anche ad esprimere questo desiderio, a capire bene cosa la felicità sia e cosa comporti.

Ma allora perché dire che Favolacce è il film che avremmo voluto non aver visto? Perché è un film che fa male: parla di noi, del nostro Paese, del nostro tempo occidentale, come pochissimi altri film italiani hanno saputo fare negli ultimi anni. E ci mette di fronte a una realtà drammatica: non riusciamo più ad essere adulti, non sappiamo farlo, i genitori sono deboli, instabili, atterriti, i figli cercano da soli una strada che nessuno riesce più ad indicare. Nessuno cresce, nessuno accetta di essere grande. E questo comporta, inevitabile corollario, l’impossibilità di essere veramente insieme, di sentirsi comunità, di sentirsi liberi anche quando la propria libertà è limitata dallo star bene degli altri. Nessuno è veramente adulto in questo film, nel quale del resto non appare personaggio, neppure per pochi istanti, che dimostri di avere più di cinquant’anni. I bambini piangono, i grandi urlano, i bambini vorrebbero comunicare, i grandi non sanno come farlo, i bambini hanno paura, i grandi hanno paura. La favola dark dei fratelli D’Innocenzo è appunto una favola, una storia da raccontare a chi adulto non è, non vuole diventarlo o comunque non sa come si fa ad esserlo.

C’è un dialogo emblematico a tale proposito, tra Vilma (una straordinaria Ileana D’Ambra) e il suo giovane compagno (due vistosi orecchini all’orecchio sinistro, sguardo perso, un po’ sfrontato, un po’ timidamente divertito). Hanno da poco avuto una figlia. VILMA: Fa’ il serio; LUI: Faccio il serio; V: Oh. Fai il padre, cazzo; L: E te, la madre. Oh, ma stamo a fa’ i seri! Abbiamo fatto benissimo ad annaccene. Se stava da tu’ madre, ce cresceva già morta a regazzina; V: Sì, è vero. Primo passo però. Dobbiamo crescere. L: E cresciamo; V: Una volta. L: Na volta sola potemo cresce’, no? Poi lui dice che si metterà a lavorare come aiuto pizzaiuolo, e chissà forse anche lei con il tempo potrà trovare qualche lavoretto, così, conclude, “l’estate ce ne annamo fissi a Ibiza” VILMA: Amò, comunque la prima cosa dobbiamo anna’ all’anagrafe perché non è possibile che abbiamo chiamato nostra figlia come una canzone di Vasco Rossi. L’abbiamo chiamata Insieme. Che cazzo ti ridi? Sara, la dovevamo chiama’. Come la canzone di Menegazzi”.

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