Alberto Fraccacreta
Al Napoli Teatro Festival

Olimpia e il mito

Eterno e immortale, chiaro e scuro, fermo e diveniente: nella dialettica continua di questi termini (che è la dialettica della vita), Luigia Sorrentino ha ambientato la storia di Olimpia, Empedocle e Iperione portata in scena da Luisa Corcione

La poesia classica sembra oggi un archetipo irrinunciabile per chi voglia dar linfa all’arte teatrale. Ne è esempio lampante Olimpia, tragedia del passaggio (drammaturgia di Luigia Sorrentino, nella foto accanto, regia di Luisa Corcione) in scena il 16 luglio al Giardino Romantico di Palazzo Reale, nell’ambito della rassegna Napoli Teatro Festival. Olimpia è la trasposizione drammaturgica dell’omonima silloge di Luigia Sorrentino, giornalista Rai e poetessa: un’opera corale tragica, nella quale sono contaminate diverse esperienze estetiche. L’ambientazione è una Napoli greca tra antico e moderno: la vicenda ruota attorno a Olimpia (Noemi Francesca), iddia gettata nel gorgo umano, in una fitta dialettica tra eterno e immortale, chiaro e scuro, fermo e diveniente. Dalla nascita di Olimpia, seguendo improvvisi slanci lirici, si arriva al confronto con Iperione e a quello, vivo e pulsante, con Empedocle (Emilio Vacca), personaggi sulfurei e inconcussi, vere e proprie maschere dietro a cui si cela un pensiero netto, di icasticità luziana. Empedocle, in particolare, raffigura la condizione dell’artista: «Egli celebra l’ingegno nell’errore — confessa Luigia Sorrentino, che abbiamo incontrato in vista della rappresentazione —, nella consapevolezza che anche l’arte è destinata alla distruzione, al caos cosmico. Il ponte che Empedocle erigerà, desidera affermare l’Armonia fra i popoli, ma il suo crollo finirà con il separare irrimediabilmente, anziché unire, civiltà e culture».  

Olimpia è innanzitutto un poema…

Olimpia è un testo sulle frontiere, sul passaggio dalla vita alla morte. Il titolo richiama sicuramente il nome dell’antica città di Olimpia. Il più famoso tempio era quello edificato in onore di Zeus: internamente vi si trovava la gigantesca statua del dio realizzata da Fidia nel 430 a.C. e inserita fra le sette meraviglie del mondo. Olimpia è però anche il nome di una donna, di una deità, una figura contraddittoria perché ha un carattere ambivalente. Lei sta accanto agli uomini e li aiuta nel transito dalla vita alla morte. Nel suo nome incontriamo gli opposti, i contrasti, che ricorrono in tutto il libro. Attraversandolo, ci avviciniamo a una visione perduta o a una condizione del perduto umano: il sé sacro. Olimpia è una città, si è detto, ma è anche una madre. Porta nel suo grembo tutti i popoli. È una creatura arcaica che cerca di stabilire, nella contemporaneità, una relazione con l’umano, inesorabilmente condannato a morire. Olimpia è un essere mobile e immobile, una figura che si confonde con altre figure selvagge e arcaiche, sposta i confini più in là, ma permane. È una divinità della soglia, come Hermes, del limite, del varco. Una creatura apollinea, amante della bellezza, dell’amore e della poesia.
Come siete arrivati alla costruzione della pièce?

Avevo scritto e lavorato al testo prima dell’insorgere della pandemia di Covid-19, sentendo a un certo punto la necessità di definire, da un punto di vista drammaturgico, un nuovo personaggio, Empedocle. Ho scritto il dialogo fra Empedocle e la Morte fra gennaio e i primi dieci giorni di febbraio 2020.

La regista Luisa Corcione

In realtà Empedocle dà luogo al dramma della colpa sfiorato ne Il sonno, penultima sezione del libro Olimpia (Interlinea 2013, 2019). Avvertivo la necessità di lavorare più approfonditamente sul tema della colpa. Volevo che sulla scena si determinasse un’azione tragica, contro-natura, che genera la strage, la catastrofe e questo, in un primo momento, mi è giunto da un dato di cronaca: il crollo del Ponte Morandi. Ovviamente il tema della strage richiama infinite altre stragi, ma quella del ponte Morandi era, diciamo così, dal punto di vista emotivo, a me più vicina. Così ho inserito la figura di Empedocle, trasformandolo in un artista sacrilego che interrompe il tempo mitico della città costruendo a Olimpia un ponte che collega le due sponde, l’Occidente e l’Oriente, ma drammaticamente il suo tentativo fallisce: il ponte crolla e compie la strage. Il suo senso di colpa finirà con l’inghiottirlo nella consapevolezza che anche l’arte è destinata alla distruzione. Poi, il lockdown imposto dalla pandemia ha fermato tutto… Ma quando Luisa Corcione è stata ricontattata dal Napoli Teatro Festival per sapere se se la sentiva di mettere in scena Olimpia, tragedia del passaggio nonostante le misure di sicurezza, ho dovuto ridurre il testo che avevo scritto, mentre la Corcione ha reimpostato tutto lo spettacolo limitando, ad esempio, il numero degli attori presenti in scena e mettendo a fuoco le tre figure essenziali della tragedia: Olimpia, Iperione e Empedocle. Abbiamo dovuto lasciare da parte una struttura essenziale nella narrazione: il Coro (l’umanità), concepito come un’unica creatura corporea ctonia, potentemente visiva e uditiva, emanazione di Olimpia, coevo al suo tempo, che ha però perduto la capacità della rimemorazione di Olimpia ed è cieco alla luce che la deità intende restituirgli. Il distanziamento imposto agli attori per motivi di sicurezza, invece, ben si è collegato al nucleo fondante del tragico: la lacerazione, lo sdoppiamento, lo sforzo di allontanare ma al tempo stesso tenere insieme l’insopprimibile identità e la scissione degli opposti. Il confinamento, elemento presente nella tragedia del passaggio, è l’azione emotiva compiuta dalla lontananza. È il voltarsi indietro che consente il progredire della relazione infinita tra l’umano, finito e mortale, e il frammento sacro presente nell’umano, perenne e grandioso nella divinità che l’essenza di Olimpia vuole riconsegnare. Il personaggio di Iperione nello sdoppiamento della voce e della figura ha, in effetti, rimarcato la linea di confine, l’inaccessibile soglia di separazione fra lui e Olimpia: ma alla fine è nell’al di qua del titano e nell’al di là di Olimpia che si ritrovano e si riconoscono, l’uno di fronte all’altro.

Il personaggio più oscuro è forse Empedocle…

Non lo definirei oscuro, ma il più contemporaneo proprio perché, come dicevo prima, definisce il dramma in sé. Il nome è preso in prestito dal protagonista della tragedia incompiuta che ci ha lasciato Hölderlin, La morte di Empedocle. Il poeta tedesco scrisse tre versioni della tragedia, senza mai completarle, tutte e tre molto differenti fra loro. Il suo fallimento esprime il dissidio fra arte e natura.La fuga dalla vita ricercata da Empedocle può significare il tentativo di una riconciliazione di quegli elementi entrati in opposizione nella costruzione del ponte che contrasta e deturpa la natura, sino a diventare equivalenti. Empedocle quindi, riconoscendo la sua colpa, in realtà si riconcilia con l’aorgica natura che lo inghiotte.

Anche il personaggio di Iperione rimanda a Hölderlin.

È impossibile per me pensare a Iperione senza pensare a Hölderlin, poi a Keats, e nell’arte, a Cy Twombly, anche se questi due ultimi ne danno un’interpretazione totalmente diversa da quella di Hölderlin: il suo Iperione è terribilmente tragico. Cy Twombly, che unisce nella sua arte l’antico e il moderno, è più vicino all’Iperione di Keats, e alla fine diviene quasi grottesco… se non addirittura comico. Il mio Iperione è invece drammaticamente tragico.

Qual è il significato più profondo dell’opera?

Olimpia, tragedia del passaggio è un percorso alla ricerca dell’armonia sulle rovine di una città che non c’è più, attraverso la poesia che aveva un posto importante nella vita della polis greca. Questa tragedia è un classico-contemporaneo che unisce, in un corpo poetico unitario, la visione attuale della città di Napoli, la quale si riflette — come in uno specchio d’acqua — sull’antica città greca. In questo modo Olimpia rivela che in ogni essere vivente c’è un germe sacro, un’interna forza d’origine che è senza inizio e senza fine, scaturita dal centro del mondo. Potremmo definire la pièce una tragedia dell’attraversamento: oltrepassare la soglia, il confine… dal divino all’umano e dall’umano al divino.

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