Marta Morazzoni
Ceppo: la lecture di Marta Morazzoni

L’orecchio assoluto

Per la scrittrice, vincitrice del Premio Ceppo “Leone Piccioni Vita e Letteratura”, il fascino di un grande autore non sta tanto nel tema che racconta, ma nel suo stile, nella forma. Nella sua esperienza l’ascolto della voce altrui è il modo per trovare la propria. In lei il richiamo a inventare si è nutrito di Proust

Oggi, giovedì 23 luglio alle 18,30 a Palazzo Fabroni a Pistoia (via Sant’Andrea 18), nella cerimonia conclusiva della 64° edizione del Premio Internazionale Ceppo dedicato al racconto, Marta Morazzoni, vincitrice del Ceppo “Leone Piccioni vita e letteratura”, oltre a presentare il suo libro di racconti “Il dono di Arianna” (Guanda), terrà la prima delle conferenze ispirate al lavoro critico di Leone Piccioni che qui di seguito pubblichiamo. Nella cerimonia verrà proclamato dal presidente del premio Paolo Fabrizio Iacuzzi il vincitore del Ceppo Biennale Racconto. I finalisti sono: Loredana Lipperini, Massimo Onofri e Federico Pace i cui interventi sono stati anticipati nei giorni scorsi su queste pagine, insieme a quello di Marco Marrucci, premio Ceppo racconto Under 35.

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Narrare breve o narrare lungo, scrivere un romanzo, o scrivere un racconto. I critici ne fanno oggetto di analisi, e qui potrei citare quasi testualmente l’incipit del lavoro di Leone Piccioni, che a suo tempo si interrogò sul tema (in La narrativa italiana tra romanzo e racconti, Mondadori, 1959), percorrendo la storia della letteratura italiana e cercando di definire dall’interno i termini di questa questione; mentre a chi scrive tocca di sperimentarlo sulla propria pelle. Qual è la misura, quali l’impegno e il coinvolgimento per lo scrittore che si avvia a questa piccola, grande impresa? E soprattutto!, sa lo scrittore con chiarezza di quale impresa si tratti all’atto dell’incipit, quando una certa idea gira per la testa e prende piede nella fantasia e agita le acque? Thomas Mann, per esempio, pensava a un racconto, quando diede inizio a Carlotta a Weimar! E in certo senso le 500 pagine di quel lavoro poderoso rimangono nell’alveo del racconto. Non è esattamente un problema di misura, quindi, quanto piuttosto dell’evolversi di una gestazione con tutte le incertezze del caso. Come dire? è un’agitazione non sempre subito capita e modulata quella che sta al principio di una storia, finché, dapprima in modo discontinuo e ancora in cerca di un metodo, si traduce in un avvio di scrittura. 

Nella mia abitudine, tale fin dal primo approccio con l’idea di un’invenzione, ho sempre ragionato tra me e me nei termini generici di ‘storia’ e la parola non aveva, e non ha, il carattere dell’indagine, secondo la valenza greca del terminequanto piuttosto la più comune accezione favolistica del ‘ti racconto una storia’. Dentro questa ipotesi, tutto poteva e può essere. Non c’è ancora un progetto certo alla base, o una quantificazione, una scansione di passi su cui costruire, comporre la narrazione, ma è piuttosto una suggestione al limite dell’oralità nell’autore (è giusto chiamarlo già così?) che si assume il compito di raccontare, e catturare l’attenzione dell’ascoltatore o lettore. Chissà? mi sono detta a volte che forse era stato così anche per il novellatore per eccellenza della nostra lingua, Giovanni Boccaccio, o per Anton Cechov (nell’immagine, ndr), che confessava tranquillamente di non avere alcun messaggio da dare al mondo, solo storie da raccontare. Questo, dunque il principio di tutto e forse la sua più profonda ragione: racconto una storia, perché c’è qualcosa che mi porto dentro e ho voglia di portare alla luce, perché mi hanno interessato dei volti, delle fisionomie cui attribuire parole, sentimenti, azioni; sono loro l’anima, questi volti spesso carpiti dalla realtà, afferrati a colpo d’occhio e magari dimenticati, finché una specie di reminiscenza si fa sentire ed è il richiamo a inventare. 

Posso assicurare, per l’esperienza di qualche anno di scrittura, che non c’è niente di romantico in tutto questo, niente che non abbia un fondamento concreto. Niente che non si traduca comunque in lavoro, qualche volta in un assillo che chiama alla pagina anche nei momenti meno limpidi, perché si è svegliata la coscienza, il pungolo di un dovere che ci si è assunti verso quelli che stanno diventando i personaggi. Ed è un richiamo perentorio, a volte tormentato, soprattutto quando ancora non ci si vede chiaro e si procede a passi cauti per non rovinare una percezione incerta. D’altro canto ci si è presa la responsabilità di dare vita a qualcosa che vuole essere nutrita, accudita e reclama tempo, ma reclama soprattutto rispetto. Tutto questo grumo da dipanare lo chiamo ispirazione: so che alcuni non credono più, o non hanno mai creduto nell’ispirazione, e invece per conto mio continuo a dare credito a questo suggerimento cui non saprei attribuire un nome diverso. 

Mi ha fatto piacere ritrovare tale argomento strettamente associato all’idea del lavoro nelle pagine, lette di recente e quasi contro le mie abitudini, del lungo, emozionante carteggio tra Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss, uno scrittore e un musicista che hanno per circa venticinque anni collaborato a comporre parole e musica di alcune tra le più belle opere del ‘900. Quando Strauss sollecita lo scrittore austriaco a dargli un nuovo libretto da mettere in musica, questi gli risponde: «Senza un’idea non mando avanti nulla. E un’idea è un dono della grazia». Sembra molto poco tecnico e professionale questo modo di pensare alla scrittura, ma per quanto mi riguarda ha un fondamento solido, è il pilastro della mia esperienza, e sta al principio di ogni lavoro. Un’idea per me significa dapprima un germe indefinito, a volte anche solo l’affezione a un’atmosfera, a un luogo che mi piacerebbe abitare. E, per inciso, questo è anche il modo con cui affronto da lettore le storie raccontate da altri, entrando in relazione con persone, con ambienti con cui prendere confidenza, fino a abitarli. È stato per buona parte questo il lavorio mentale e emozionale che mi ha fatto fare il passo verso l’invenzione, quello che ha indotto a coltivare l’humus in cui piantare una trama. 

È giusto però che, dopo aver dichiarato una maniera per così dire naif, che sa di improvvisazione, io provi a entrare più nel profondo e ragionare su quel che comporta l’aver dato la nota d’apertura di una nuova storia: c’è in realtà un metodo, fatto di ascolto e di messa alla prova della tenuta sulla pagina dell’intuizione da cui si sono mossi i primi passi. Una storia per essere raccontata ha bisogno di una visuale e di un ritmo, in lei devono convivere la logica di una architettura e la musicalità, e qui il riferimento alla musica non è un dato estetico, piuttosto un elemento determinante a che il comporsi della frase, del periodo, della struttura larga della storia abbia in sé la cadenza giusta. In questo mi ha sempre aiutato l’attenzione al ritmo nella scrittura altrui, e in merito devo riconoscere un valore alto all’esperienza di traduzione in cui mi è capitato di cimentarmi: sono stati pochi, accidentali episodi nel mio percorso, ma determinanti. È evidente che il traduttore viva una prossimità molto forte con l’altrui scrittura, e questo lo mette nella condizione di saggiare le potenzialità della sua lingua, di conoscerla a fondo e intanto però gli permette di capire fin nelle sfumature su che toni e timbri si è esercitata la scrittura di un altro. Se l’altro è un bravo scrittore, per il traduttore si tratta di scavare in una miniera di esperienze. 

In proposito mi viene in mente una fase nella formazione di scrittore di Marcel Proust (nell’immagine, ndr) che mi ha affascinato e interessato molto metodologicamente: per un certo tempo, credo prima di orchestrare l’enorme composizione della Recherche, Proust aveva privilegiato il lavoro di lettore, fino al punto di farsi un orecchio assoluto sulla scrittura altrui, tanto da saperla riprodurre, imitando cadenze, vezzi, strutture dell’autore sotto osservazione, e quindi inventare delle pagine alla maniera di… Leggere la sua raccolta di Pastiches et melanges rende l’idea di quanto sto dicendo: pagine scritte appunto alla maniera di Flaubert, di Renan, di Balzac, di Michelet ci dicono molto dell’educazione all’ascolto della voce di uno scrittore. È una pratica in realtà inusuale nel lettore, che in genere si dedica più volentieri al procedere dei fatti narrati piuttosto che al modo della narrazione. Eppure, se ci pensiamo bene, quello che costituisce il fascino di un grande autore non sta tanto e solo nel tema che racconta, ma nel modo, nello stile, nella forma. Da Omero in avanti abbiamo raccontato tutti, e continuiamo tutti a raccontare!, la stessa storia, d’amore, di guerra, di morte. Proprio nella riflessione su come, piuttosto che su che cosa uno scrittore ci propone si afferrano l’originalità dell’invenzione e il suo potere. È un passo non minore nella formazione del lettore, ma direi anche un passo essenziale in quella dello scrittore. 

Ho citato i Pastiches et melanges di Proust anche perché per me questo autore è stato la spinta a scrivere. La lunga compagnia della sua Recherche, un monumento letterario fatto di minute osservazioni, di dettagli apparentemente insignificanti dentro cui si annida il senso della vita, la dimensione orizzontale dello scorrere del tempo e quella verticale dell’anima, mi ha suggerito che a proposito di quell’eterna storia, che si racconta da che mondo è mondo, avrei potuto azzardare una mia interpretazione, cercando di capire se avevo una mia voce per farlo. Sicché il vero impegno è stato trovare quella voce. Trovare o forse più giustamente lasciarla sgorgare, per poi operare a che fosse in grado di rendere quello che avevo dentro, quello che immaginavo dentro le vite di altri, a partire da una considerazione che sta alla base di tutto: Goethe sosteneva che ogni essere umano dovrebbe scrivere le proprie memorie, perché, se è certo che le cose si ripetono sempre uguali, è tutte le volte diversa l’individualità che le vive; l’individuo in quanto tale è esistito, esiste una volta e non tornerà, non si ripeterà mai più in quel modo. Catturare quell’individualità è il senso dello scrivere, trovare la voce con cui raccontarla è il punto essenziale della ricerca e io credo che sia la sincerità di tale ricerca ad aprire un dialogo profondo con il lettore. Ai critici lasciamo il compito di decifrare e riconoscere il percorso che ha costruito quel particolare timbro e quella tonalità; succede a volte che il critico riesca anche ad andare oltre la prima evidenza della scrittura e possa arrivare a smascherare quello che di sé l’autore non ha detto in esplicito, o meglio, non si è nemmeno accorto di lasciar trapelare nel suo racconto. È un aspetto per certi versi inquietante, il segno della involontaria trasparenza di cui un autore, se è tale nel senso più profondo del termine, è benignamente vittima. Non occorre saperne la biografia, al di là della curiosità superficiale che domina più che mai nel nostro tempo, in realtà di sé lui ci ha già detto l’essenziale, scrivendo storie d’altri. E chiudo con un’osservazione di cui sono convinta: ogni scrittore libero è nel profondo autobiografico, e lo è quanto più si muove in territori narrativi lontani dalla sua vita. 

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