Raoul Precht
Periscopio (globale)

Saramago e il vulcano

Visita guidata nella casa di José Saramago a Lanzarote. Nella derivazione vulcanica dell'isola, e negli spazi amati della residenza, ci sono i segni dell'opera fantastica e realistica allo stesso tempo del grande scrittore portoghese

In questa strana estate, in cui molti di noi per giustificato timore o prudenza non viaggeranno, o resteranno, anche se in vacanza, in patria e magari nei pressi delle loro residenze abituali, mi torna con prepotenza alla mente una scappata a Lanzarote di un paio d’anni fa. In quell’occasione, fra le curiosità ed esperienze da non perdere, accanto all’ascesa al vulcano Timanfaya, alla visita al giardino dei cactus e alla scoperta dei vari siti della Fondazione César Manrique, mi ero diligentemente annotato, come più o meno imperdibile, la visita alla residenza di José Saramago. Visita che poi, una volta in loco, continuavo a rimandare, essendo rimasto più volte deluso, in passato, dalle abitazioni dei grandi scrittori, musicisti o pensatori in cui mi era capitato di smarrirmi. Di solito, dalle case di simili figure la personalità della stessa è fuggita da tempo, ed esse non conservano più nulla d’essenziale, rivelandosi come dei meri contenitori di oggetti disparati, non di rado anche brutti o insignificanti; in altri, più rari casi, l’allestimento è reso con tale accanimento museale, quasi una sorta di brutalità, da renderne la fruizione possibile solo a degli specialisti, o a dei masochisti.

Per farla breve, durante il mio soggiorno a Lanzarote la casa di Saramago, uno scrittore il cui stile e la cui opera non sempre mi avevano completamente coinvolto, mi attirava e mi respingeva allo stesso tempo. Poi, una mattina – la casa è aperta solo dalle 10 alle 14.30, domeniche escluse, anche in alta stagione – mi sono deciso a percorrere i pochi chilometri che mi separavano dal villaggio di Tías, borgo di per sé insignificante ma posto su una modesta altura da cui si vede, non vicinissimo ma in modo nitido e coinvolgente, il mare.

Soprattutto negli ultimi anni della sua vita, Lanzarote è stata una presenza costante nell’esistenza e nell’opera di Saramago. Lo scrittore vi si era per così dire rifugiato nel 1993, già settantenne, all’epoca delle polemiche, peraltro abbastanza prevedibili, scaturite dalla pubblicazione del romanzo Il Vangelo secondo Gesù Cristo, basato sui vangeli apocrifi respinti dalla Chiesa in favore dei cosiddetti vangeli sinottici. La polemica sull’attendibilità degli uni e degli altri, e sulle conclusioni che Saramago ne traeva, fece sì che la temperatura si scaldò presto, al punto da farlo optare per un allontanamento temporaneo dal Portogallo, verso Lanzarote, appunto; un’isola che gli piacerà a tal punto da costruirvi poi una casa in consorzio con la famiglia della seconda moglie, la traduttrice spagnola Pilar del Río Sánchez, conosciuta qualche anno prima. Brani del diario da lui tenuto sull’isola, in cui troviamo penetranti descrizioni della particolare situazione climatica e paesaggistica, dove il vulcano e la lava la fanno da padroni anche più del mare, sono poi apparsi nei Quaderni di Lanzarote. In un certo senso, molto più di Lisbona a cui pure era legatissimo, per il Saramago maturo è Lanzarote il luogo del cuore, quello che lo riporta indietro nel tempo fino all’infanzia contadina trascorsa nel paesino portoghese di Azinhaga, dove abitavano i nonni e dov’era cresciuto. (Un vivido ricordo, in particolare del nonno, compare nel discorso di ringraziamento per il premio Nobel ottenuto nel 1998, il cui incipit gli è dedicato. «L’uomo più saggio che ho conosciuto in tutta la mia vita non sapeva né leggere né scrivere», ricordò Saramago in quell’occasione, partendo da quello spunto all’apparenza paradossale per ripercorrere tutta la sua vita di scrittore e i motivi che l’avevano alimentata.)

Ad accompagnare i visitatori in giro per le stanze della casa, luminosa e accogliente, è un giovane specialista dell’opera di Saramago, in grado non solo di raccontare gli inevitabili aneddoti, ma anche di metterli in relazione con i romanzi dello scrittore. Non ripercorrerò qui l’itinerario seguito – il sito internet dedicato alla casa è prodigo d’informazioni dettagliate su ogni angolo della stessa –, anche se ci si potrebbe soffermare con profitto su tutte le stanze e i luoghi della casa, che conservano, ciascuno a suo modo e per ragioni diverse, un frammento della personalità dello scrittore. Da ricordare è però almeno il rito del caffè, che Saramago soleva offrire non solo agli ospiti più o meno illustri e famosi, ma a chiunque bussasse alla sua porta per eseguire qualche lavoretto, lasciare la posta o anche semplicemente, da estimatori o studenti, per conoscerlo; rito del caffè che si ripete con noi turisti curiosi nella bella, ordinatissima cucina e poi, vista la splendida giornata, in giardino. E dire che, mentre scriveva, pare che Saramago non bevesse caffè, né fumasse, ma si accontentasse di un bicchier d’acqua di cui comunque si dimenticava subito. Proprio come se lo sforzo di concentrazione richiesto dalla scrittura non gli consentisse di dedicarsi ad altro, salvo forse ad allontanare dolcemente dalla scrivania i cani che ne hanno accompagnato gli ultimi anni e che hanno lasciato sulle gambe della scrivania stessa i segni dei loro morsi affettuosi.

La relativa prossimità del vulcano è uno dei motivi che caratterizzano l’intera abitazione, a cominciare dal “tappeto” (in realtà una pavimentazione) di pietra vulcanica al centro dell’ingresso, che Saramago mostrava con orgoglio ai suoi ospiti, e a proseguire con le creazioni di molti artisti locali che lo scrittore collezionava. Ma il vulcano è presente anche nella storia dell’olivo, albero simbolico come pochi altri, che a Saramago ricordava ovviamente la campagna dell’infanzia. Dal continente lo portò lui stesso in aereo in un vaso, come bagaglio a mano, e lo ripiantò in giardino nella speranza, inizialmente flebile, che la terra vulcanica potesse alimentarlo sufficientemente. La speranza diventò col tempo una certezza, la scommessa fu vinta, e oggi nel giardino, in certo senso alimentato dal vulcano, svetta inopinato un ulivo della regione portoghese dell’Alentejo.

A dieci anni dalla morte, avvenuta proprio in questa casa alle undici e mezza del mattino del 18 giugno 2010, credo che la sosta nella stanza da letto possa essere particolarmente toccante. Sembra che quella mattina Saramago abbia fatto colazione e poi, anziché spostarsi in biblioteca, com’era sua abitudine, sia andato a riposarsi perché non si sentiva troppo in forma, tanto da annullare anche una visita medica che aveva alle dieci e mezza. Poi, disteso sul letto, si sarebbe spento dolcemente, senza dolore, senza lamentarsi, senza alcuna agonia. Già tre anni prima era stato molto malato, ma si era ripreso, e appena si era sentito meglio aveva voluto invitare Maria Kodama perché a Lanzarote parlasse di Borges, nume tutelare, assieme a Cervantes, Kafka e Pessoa, della sua biblioteca di quindicimila volumi.

Saramago è uno di quegli scrittori, non poi così rari, che non trova la propria strada se non in età matura. Il primo romanzo che avrà un minimo di risonanza, il Manuale di pittura e calligrafia, lo pubblicherà nel 1977, alla non più tenera età di cinquantacinque anni. Risonanza peraltro relativa, legata più che altro all’aneddoto del paese africano lusofono che, ingannato dal titolo, ne comprerà alcune copie da distribuire ai suoi istituti d’arte; ma se il titolo del romanzo è perfettamente in linea con l’ironia di Saramago, che scriverà poi memoriali, saggi e storie sui generis – i suoi romanzi si chiameranno infatti Memoriale dal convento, Saggio sulla cecità, Saggio sulla lucidità e così via –, i contenuti del primo libro inaugurano quella descrizione non convenzionale di fatti storici ben definiti e universalmente accettati che ritroveremo nelle opere successive, compresa un’eco al contrario, perché precedente e dunque semmai quasi una premonizione, del citato Vangelo secondo Gesù Cristo

Nel Memoriale dal convento, che è del 1982, la scommessa sembra essere stata quella di affiancare alla storia con la maiuscola, quella fatta dai grandi uomini, una storia con la minuscola, quella degli operai, dei braccianti, dei poveri; se sulla prima il narratore dev’essere preciso e documentato, sulla seconda potrà sbizzarrirsi con maggiore libertà creativa, senza disdegnare la giustapposizione di presente storico (il Settecento della vicenda narrata) e futuro (i nostri giorni). Qualcosa di analogo si potrebbe dire per la Storia dell’assedio di Lisbona (1989) o per i due Saggi già menzionati, che escono rispettivamente nel 1995 e nel 2004. In mezzo, a fare da perno centrale, sta quella profondissima rievocazione della figura e dell’opera di Pessoa e dei suoi eteronimi che è L’anno della morte di Ricardo Reis, del 1984, di cui non possiamo non ricordare l’impatto anche stilistico e letterario sull’opera futura.

Significativamente, la presenza dell’ombra di Ricardo Reis, che richiamerà alla memoria nel romanzo per farlo assistere agli eventi del 1936, quando incontra il fantasma del suo creatore, Pessoa, morto da pochi mesi, è indiscutibile anche nello stile e nelle atmosfere che presiedono alle due raccolte di poesie di Saramago, Os poemas possíveis (1966) e Provavelmente alegria (1970), tradotte da noi in un unico volume. Esse testimoniano di un lavoro approfondito di analisi del linguaggio, teso a recuperare il senso ultimo di una parola da opporre alla volgarità e banalità delle cose. Non è casuale, forse, che Saramago esordisca come poeta e cominci a dedicarsi alla narrativa solo una decina di anni dopo, riversando in quest’ultima la padronanza e l’accumulazione linguistica acquisita con il meticoloso lavoro di scavo poetico. Quanto ai temi e ai motivi, non esita l’ateo Saramago a parlarci di religione, così come non esita a parlare in modo chiaro e percussivo di discriminazioni, sofferenze, povertà, pur in una poesia di derivazione barocca (prima di tutto e tutti, qui, il modello camoniano, e il vate nazionale Camões ricompare del resto spessissimo anche nei romanzi). Poi c’è un aspetto più personale, intimo, perfino erotico; e in particolare va rilevato come il viaggio all’interno del corpo femminile che presiede alla seconda raccolta faccia della donna uno strumento di salvazione dell’umanità intera. Non diversamente da quanto fa del resto nei romanzi, Saramago è capace di unire e mescolare senza soluzione di continuità erudizione e cultura popolare, citazioni che affondano le loro radici nelle sue numerose e molteplici letture, da un lato, ed espressioni colloquiali prese dalla strada, dall’altro.

La stessa oscillazione fra commenti eruditi e curiosità popolare la troviamo in tutt’altro contesto nella deliziosa guida Viaggio in Portogallo, del 1981, in cui scrittura e viaggio sembrano confondersi in un movimento permanente. Fedele alla propria impostazione letteraria, potremmo dire anzi alla sua ideologia, anche qui Saramago non si limita a presentarci delle varie località o delle opere d’arte, ma ci parla di se stesso e del proprio rapporto con la gente che queste località abita e queste opere d’arte custodisce. In questa storia di un viaggio e soprattutto di un viaggiatore (ritorniamo alle storie, ai saggi e ai memoriali così presenti nei suoi titoli) le digressioni e le uscite fuori tema sono a volte, stendhalianamente, più interessanti della parte programmatica; il vagabondaggio casuale dà un’idea più chiara e cogente del territorio attraversato di quanto non faccia il mero elenco di capolavori da vedere e visitare che troviamo in qualsiasi (vera) guida.

Non è un approccio diverso, in fondo, da quello dei romanzi, dove Saramago ha voluto mostrarci la vita in tutta la sua singolarità e in tutta la solitudine che l’accompagna: si pensi ancora una volta solo a quel tanto di autobiografico che emerge nella figura di viaggiatore che è Ricardo Reis al suo ritorno a Lisbona dal Brasile, e al modo in cui riscopre, anche mediante la figura di Pessoa, la città nella quale aveva a lungo vissuto. Senza forse vederla, così come noi non vediamo davvero – se non in attimi di particolare lucidità – le figurazioni delle nostre esistenze.

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