Giuliano Capecelatro
Il mondo ai tempi del Coronavirus

Sanzionabile!

Storia di un viaggio mancato in Svizzera. Fra addetti all'immigrazione clandestina, Alpi prive di neve, bagagli che si perdono, taxi vuoti e, soprattutto, tutori della legge inflessibili. Fino alla scoperta di un nuovo mostro: la sanzionabilità

Sanzionabile. Alla fine di tutta questa storia bislacca di virus, respingimenti, Rappresentanti della Legge, che ognuno l’interpreta a modo suo, una valigia che rincorre nei cieli il proprietario e proprietario che dispera di ritrovarla, di un aeroporto mutilato, silente come un cimitero, anelli in sequenza di ordinaria follia da Coronavirus, l’unico lascito corposo e indelebile sarà quella parola. Altisonante, severa, terribile: sanzionabile. Ma andiamo ai fatti.

Tutto comincia con l’idea giornalistica di andare a sbirciare tra le pieghe del confinamento leggero (lockdown light reciterebbe l’ufficialità). La Svizzera, paese limitrofo con cui i rapporti non sono sempre stati idilliaci (si veda alla voce emigrazione), ha deciso di reagire così all’aggressione del Covid-19. I risultati sembrerebbero soddisfacenti. Ma cosa c’è di meglio di una ricognizione sul campo, tra la solida realtà dei fatti, anche per un confronto col più rigido sistema italiano? Il direttore approva, prepara e firma la dichiarazione che il sottoscritto non viaggia per diporto ma per lavoro.

Mercoledì 27 maggio mi imbarco sul volo Alitalia, AZ 576, per Ginevra. Terminal 3, l’unico che funzioni in questi giorni di restrizioni. Controlli all’ingresso, un’attesa più lunga del previsto al check-in: l’impiegata attende un’autorizzazione, ma il telefono interno dà sempre occupato. Arriva il via libera; altri controlli, consegno l’autocertificazione in cui specifico le ragioni dei miei spostamenti. È fatta.

L’aereo decolla, puntualissimo, alle 9.20. Esigua la pattuglia di passeggeri. Tutti indossano la mascherina. Sorvoliamo le Alpi. Colpiva, alcuni decenni fa, anche in piena estate, quell’imponente massa bianca, quella distesa compatta, abbacinante, con rari intervalli verdeggianti, scuri. Adesso la neve ricopre piccole isole, gli intervalli sono ampi.

Alle 11.10 atterriamo a Ginevra. Bene, rimbocchiamoci le maniche. Baldo e fiducioso, mi avvio al controllo. Ho tutto quello che devo avere, o penso di dover avere: carta d’identità, prenotazione del b&b e, soprattutto, la dichiarazione del direttore. Nonché varie assicurazioni giunte dalla capitale federale, Berna.

L’agente, isolato nel gabbiotto, si concentra sulle carte. Perplesso; qualcosa non lo convince, Tenta una domanda; non è soddisfatto. Si allontana; ritorna dopo qualche secondo, accompagnato da un collega che deve essere il capo. Altre domande, in francese. No, non ci siamo. Il motivo di lavoro non è sufficiente. Ci vuole il permesso dell’Ufficio immigrazioni. Cado dalle nuvole.

Hai un bello spiegare che non sei arrivato a Ginevra per fare l’immigrato, ma il giornalista. Che nessuna delle fonti elvetiche, cui ti sei rivolto per informazioni, colleghi, gente esperta, ha mai menzionato questo fondamentale ufficio. Parole al vento.

Dunque? Niente, le disposizioni sono chiare, e le disposizioni vanno rispettate: in Svizzera non si entra. La Storia, si sa, oltre alla proverbiale astuzia, ha uno spiccato e molto personale senso dell’ironia. Il capo delle guardie che decreta il mio allontanamento ha un cognome decisamente italiano. Figlio, c’è da giurare, di quell’emigrazione italiana in Svizzera che ha conosciuto pagine molto molto amare e migliaia di respingimenti.

Un terzo agente mi accompagna all’imbarco. La valigia? chiedo allarmato. Laconico: “Vous suivra”, vi seguirà. Fedele all’incarico, attende che io venga imbarcato. Riparto, dopo poco più di un’ora, con lo stesso aereo che mi aveva scaricato sul suolo elvetico, il volo Alitalia, diventato però AZ 575. Sono autobus del cielo. Arrivano, depositano passeggeri e bagagli, si danno una ripulita, fanno rifornimento, tornano indietro.

Ancora le Alpi semispoglie. Il cambiamento climatico minaccia di mettere a dura prova i buoni rapporti tra Italia e Svizzera. Non è una battuta, piuttosto sembra una riedizione di un vecchio film con Totò e Fernandel, La legge è legge. Le nevi che irrevocabilmente si sciolgono alterano le linee di confine. Le vecchie carte non hanno più valore, bisogna ridisegnarle. Forse non scoppierà una guerra per i confini, gli Svizzeri, si sa, sono da secoli un popolo pacifico, ma qualche diatriba, anche aspra, arroventerà le giornate estive.

Fiumicino, ore 13.15, atterriamo. L’hostess, premurosa, sorridente, mi chiede di aspettare qualche minuto. Prova a consolarmi per il contrattempo, a strapparmi una risata, e ci riesce. Salgo su un furgone; con me un altro viaggiatore passato sotto le stesse Forche caudine. Ci portano nell’ufficio della Polaria, la polizia di frontiera aerea, nel vasto locale dell’aeroporto dove si srotolano i nastri con le valigie.

Pochi minuti; cortesi, efficienti. Stupiti che non mi abbiano fatto entrare; prendono i dati, mi forniscono un foglio di autocertificazione. Mi dicono a chiare lettere, e poi ripetono, che per me non è prevista alcuna quarantena. In effetti, appare logico: il paese in cui ero diretto, sì, l’ho sorvolato in piccola parte, ma non l’ho mai davvero raggiunto, ergo…

L’aeroporto è deserto; in una giornata decollano e atterrano sì e no una trentina di voli. Meste valigie isolate continuano, tra sporadici cigolii, il girotondo sui nastri. La mia chissà dov’è in questo momento. Mi aggiro spaesato; salgo, scendo. Finalmente individuo un check-point da cui si può raggiungere l’ufficio bagagli dell’Alitalia. Primo controllo e rilascio di un visto. Secondo controllo, più approfondito, tecnologico, con tanto di detector. Passo anche questo.

Raggiungo l’ufficio. Ansioso di conoscere il destino della mia valigia: la ritroverò mai? Per la mia pressione, che già di suo predilige le vette, comincia il calvario. Non sono ancora informati; ma assicurano che dovrebbe arrivare domani, giovedì 28.  Mi danno il numero del call center; una telefonata per evitare un viaggio a vuoto.

Si torna a Roma. Ho già subìto un salasso considerevole con il tassì; opto per il treno che va a Tiburtina. Una desolazione; non un’anima viva; i passi riecheggiano nel lungo corridoio articolato che conduce alla stazione. Non posso sapere, in questo momento, quanto sia fortunato a non imbattermi in qualcuno. Nella stazione tutti i negozi chiusi; non vedo dove fare il biglietto; nell’agitazione crescente mi sfuggono le macchinette. Il capotreno è un uomo di mondo, chiude un occhio.

Giovedì 28, atto secondo. La disonorevole cacciata, le Alpi seminude, sono un ricordo. Penso soltanto alla valigia: quasi tutto l’abbigliamento estivo è lì, più qualche decina di libri. Chiamo il call center. La consueta esperienza allucinante: da messaggio registrato vengo smistato ad altri messaggi registrati. Peggio di una caccia al tesoro.

Finalmente, dopo un’infinità di passaggi, l’ultima registrazione mi assicura che ora potrò parlare con un operatore. Il sollievo di poter interloquire con un essere umano dura una manciata di secondi, perché la solita voce incorporea comunica crudele: «Il servizio non è al momento disponibile». Inutile dire a quale giaculatoria ricorra per esprimere il disappunto.

Non resta che tornare a Fiumicino. Tiburtina, treno. Sono l’unico che scende alla stazione dell’aeroporto. Ed è a questo punto che la vicenda, passo dopo passo, vira al grottesco. Davanti a me un piccolo muro di poliziotti. Avanzo tranquillo, sono in regola. Mi fermo, da bravo cittadino che ritiene di avere la coscienza a posto, e spiego il motivo della mia presenza a Fiumicino.

Sono giovani, tranquilli, affabili. Salvo uno, forse più interessato all’astrattezza universalizzante della Norma che alle situazioni concrete, che si mette a cavillare: ma lei deve stare in quarantena; non può prendere mezzi pubblici. Obietto che il suo collega della Polaria, che aveva tono e maniere di chi conosce a fondo la materia – e del resto sta lì, sull’ideale linea di frontiera, proprio per questo – mi ha detto esattamente il contrario. Insiste.

Stavvi Minòs… ah, il liceo classico! Ti dà sempre una chiave per interpretare anche le situazioni più intricate. Oppongo le mie ragioni e ribadisco la dichiarazione inequivoca del suo collega; ma il Rappresentante della Legge è un blocco di marmo su cui è incisa la Norma; ribatte ancora una volta che devo stare in quarantena, che non posso prendere mezzi pubblici. E cala infine la carta vincente: «Lei è sanzionabile».

Sanzionabile! Che magica, alata parola. Una di quelle che, quando la pronunci, ti fanno sentire di conoscere la lingua madre dall’ “a” alla “z”. Di più. Pensateci. Non ha nulla di pedestre. Non si limita al grossolano: «Lei si può beccare una bella multa». No, trasporta tutto nelle aeree regioni del Pensiero, della pura Teoria. Non è più una disputa tra fragili, fallibili esseri umani, ma una superba tenzone di agguerritissimi concetti.

Non ce la faccio a sollevarmi a tali altezze. Pavento il momento del “giudica e manda”. Nella testa turbinano espressioni che Petrarca mai avrebbe inserito nel suo Canzoniere. L’istinto mi avverte che è meglio lasciar perdere. Gli dò ragione su tutta la linea e, finalmente, proseguo.

Una gola profonda mi spiegherà, poi, che su queste disposizioni vige la massima discrezionalità. Questo presupporrebbe, perché tutto vada per il meglio, incontrare soggetti discreti. In altre parole, me la sto giocando ai dadi.

Nuovi controlli. Due simpatiche ragazze della sicurezza vergano il lasciapassare. Di nuovo attraverso il controllo elettronico, o quello che sia. Come nel gioco dell’oca, sono alla casella di partenza. Di fronte al nastro numero sette, quasi seminascosto, ufficio bagagli Alitalia.

Della valigia non si hanno notizie. Il giovane e gentilissimo addetto, dopo aver consultato il computer, mi dice che arriverà domani, venerdì.  Per fortuna mi fermo per fare delle telefonate, perché dopo qualche minuto lo stesso addetto mi chiama e informa che venerdì non ci sono voli; tutto rimandato a sabato. Quindi mi fornisce un numero telefonico più abbordabile del numero verde ufficiale.

Si torna indietro. Lo confesso, provo a fare il furbo, attività in cui purtroppo sono molto scarsamente versato. Con aria e movenze da cospiratore mi avvio alla chetichella verso la stazione. Sto per entrare, ma intravvedo un poliziotto; sta interrogando quei tre o quattro viaggiatori appena scesi da qualche aereo. Non è aria. Il marchio di sanzionabile l’ho già acquisito, lettera scarlatta impressa sulla mia coscienza. Non vorrei che dai cieli della Teoria si scendesse sull’accidentato terreno della Pratica.

Marcia indietro, verso i tassì. Ce ne sono appena una scarsa decina. Il primo, un ragazzo, mi spara sessanta euro. Protesto; un suo collega accetta di portarmi a piazza Barberini per cinquanta euro. È un romanaccio simpatico. Si lamenta per la penuria di lavoro. «Stavo lì dalle due e mezza. Sono le cinque passate. C’erano dodici macchine davanti a me. E quello se mette a fa’ storie pe’ dieci euro?». Con questa corsa, bene o male, lui ha fatto la sua giornata, se ne andrà direttamente a casa.

Venerdì è un giorno di passione. Arriva? Non arriva? La pressione guadagna punti, sale verso picchi da record. Roma prova con gran fatica a rianimarsi, ma ricorda le città morte dei film western. Molti esercizi sono chiusi, chi sa se e quando riapriranno. L’amica estetista ha da ridire: «Questa sindaca è un’incompetente. Posso aprire alle 11, ma molte clienti sono abituate a venire la mattina presto, prima del lavoro; come devo fare?».

Mi aggiro con cautela. Quel “sanzionabile” mi perseguita, mi accascia. Mi sento un reietto. Capisco cosa doveva aver provato Josef K. Qualcuno, più che calunniarlo, doveva averlo sanzionato. Spero di non incorrere nello stesso epilogo. A largo Chigi il display della palina annuncia con digitale sicurezza l’80 alle 12.01; in realtà passa soltanto alle 12.23. Qualche autista sembra guidi in trance, salta le fermate come birilli. Piove.

Sabato 29, terzo e ultimo atto: il giorno della verità. Però c’è da attendere che l’aereo sia arrivato. Mi muovo in una città che il sole, assenti le carovane sciamannate di turisti, restituisce alla sua incomparabile bellezza. Un peso mi grava sul cuore. Sanzionabile. Veicolo lessicale che trasporta nella sfera del sacro. Sanzione, non è un calembour, è parente stretto di santo. Per me, però, la sanzione comporterebbe solo il martirio, non certo la successiva glorificazione. Sto con gli occhi aperti. Ogni divisa che si profili all’orizzonte mi fa sussultare: la mannaia della sanzione calerà questa volta?

Villa Borghese pullula di improvvisati atleti, di runner, come è d’obbligo definirli, di mamme e babbi con prole. Mascherine ammainate, molti neppure ce l’hanno. In piazza del Popolo

un assembramento, tollerato, di Italexit; qualcuno urla in un microfono che dobbiamo uscire dall’euro, dalla Ue. La non folta adunanza applaude. Con i loro slogan danno l’idea di essere usciti dal mondo, ma ancora non li hanno avvertiti.

A piazza di Spagna il cuore sale in gola. Forze dell’ordine di ogni tipo, in ogni angolo. La parola cruciale volteggia nell’azzurro del cielo, Josef K. non può sfuggire alla sanzione e alla vergogna che gli sopravvivrà. La scalinata vuota, libera dai riti del rimorchio globalizzato, mi riporta ai Campi Elisi dell’infanzia; pomeriggi interi passati lì, magari seduto dove si erano fermati, per una scena memorabile, Audrey Hepburn e Gregory Peck.

Un piccolo assembramento vociante anche sotto lo sguardo del Tritone, che zampilla imperterrito; uno striscione della Regione Veneto: vai a capire. Altre divise. Sanzionabile, l’angoscia che non scema. Ma è giunta l’ora fatidica. Telefono, al nuovo numero risponde una voce umana. La valigia è atterrata, è lì che mi aspetta. Mi affretto, ma il terrore della sanzionabilità e di eventuali nuovi Minòs mi attanaglia. Niente treno, stavolta. Ancora un tassì. Lo stesso che mi riporterà definitivamente a casa e condurrà a drammatico compimento l’emorragia finanziaria.

Primo controllo, tutto a posto. Secondo controllo, la temperatura è ok. Terzo controllo, la ragazza della sicurezza è più pignola delle sue colleghe: controlla carta d’identità, tagliando con il numero di registrazione del bagaglio, i lasciapassare dei giorni precedenti. Non si fida, telefona a qualche invisibile Autorità; anche lei dev’essere una convinta propugnatrice della sanzionabilità. Si accende la sospirata luce verde.

Manca solo il guado elettronico. Ormai sono di casa in questo aeroporto, tra i suoi moderni cavalli di frisia. Ci siamo. Svolto l’angolo, nastro numero sette, l’ufficio; la valigia è lì, rosso fiammante; ho l’impressione che mi sorrida. Deve aver fatto un buon viaggio. Del resto, al massimo potrebbe capitarle di smarrirsi. Nulla sa di Minòs. E sanzionabile non è che un suono tra mille altri, del tutto privo di senso.

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