Giuliano Compagno
Il telefonino del magistrato

Modello Palamara

L'Italia di oggi è quella dei Luca Palamara dove impazza una mondanità sbarazzina (tra il salotto e la tv) che calpesta regole e morale. E la candida ammissioni delle "correnti" in magistratura è un ossimoro che offende la giustizia

Quel mattino di febbraio del 2004 con mia madre ci trovavamo in piazza Capo di Ferro. Mi era seduta accanto in un’aula un po’ solenne e le tenevo affettuosamente la mano. «Grande conoscitore dell’ordinamento e soprattutto delle norme processuali tanto civili quanto amministrative, egli con la sua probità intellettuale e la sua ferrea logica, rendeva possibile l’emersione di risposte giudiziarie giuste. Pur nell’esercizio senza condizionamento alcuno della sua attività professionale, egli spesso svolgeva un ruolo che lo faceva sentire, da parte dei magistrati, un vero “amicus curiae” (mia madre mi stringe forte la mano). La presenza tra noi del Presidente del Consiglio di Stato vuole appunto testimoniare questo sentimento ed esprimere ai suoi cari il nostro profondo rimpianto.» Le rendo la stretta mentre il pubblico applaude. Ci alziamo in piedi, siamo emozionati. Ci avviciniamo al Presidente Mario Egidio Schinaia per salutarlo, per ringraziarlo. Già Capo di Gabinetto di Franco Reviglio, già Consigliere Giuridico di Franco Gallo (due eccellenti Ministri delle Finanze…), Schinaia fu tra i migliori ospiti di quell’amicus curiae che per loro era Giovanni Battista Compagno, mio padre.

Era perfettamente un altro mondo, in cui gli amici potestatis o gli amici pecuniae si contavano sulle dita di una mano. Dominava una visione più vasta della Giustizia, di un Bene a cui partecipavano, con la medesima integrità, magistrati inquirenti e giudicanti, avvocati e docenti. I colleghi che papà mi portava a esempio si chiamavano Adolfo Gatti, Giuseppe Sotgiu… e la sera dell’11 dicembre 1982, poco prima di far muovere, sotto il diluvio, la manifestazione nazionale per i diritti dell’uomo che avevo organizzato per Amnesty, udii una voce: «Compagno! Io ci sono!» Era Giuliano Vassalli, un gigante, che ammiravo e amavo tanto. Ora, a cercare nomi che oggi illustrino a tutto tondo quell’universo della Giustizia italiana che un tempo veniva illuminato quasi a giorno, si fa una gran fatica.

Domenica scorsa mi sono venute in mente tanti di questi privati ricordi… Per la prima volta stavo guardando la trasmissione di un conduttore televisivo che permette a un politico di chiamarlo Massimo, benché lui, ossequioso, insista a dargli del lei. Era stata annunciata una intervista al dottor Luca Palamara; del padre, Rocco, serbo il ricordo di un magistrato di vaglia. Il figlio lo avevo visto in un filmato di repertorio, nel mentre conteneva con signorilità la propria reazione a fronte di un volgarissimo attacco infertogli da Cossiga. Tanto per chiarire, per me Francesco Cossiga ha rappresentato una delle mediocrità più tragiche di questo Paese: giurista approssimativo e illeggibile, politico incapace e ignavo, ministro dell’interno al tempo del rapimento Moro, presidente totalmente privo di autorevolezza come di humor e infine pensionato d’oro a spese nostre. Come recitò Woody: «Spero di non aver omesso niente…».

Ebbene, a parte quei pochi minuti sgradevoli, al celeberrimo caso Palamara non mi ero particolarmente interessato, un po’ per non soffrire, un po’ per una personale incapacità di addentrarmi tecnicamente nei cosiddetti “gate”. Ma in questi ultimi giorni, alla prima “coincidenza” della consueta palata di messaggi whatsapp (casualmente seguita alla notizia del non luogo a procedere per corruzione), se ne sarebbe sovrapposta un’altra, quella di tre commenti-fotocopia pubblicati su La Stampa, la Repubblica” e Huffington Post. Tutti e tre ironicamente sottolineando l’irrilevanza istituzionale dei contenuti svelati, tutti e tre penosamente fallendo l’occasione di un ragionare che non fosse l’ennesima patacca di umorismo inglese a costo zero e a effetto meno mille.

Il dato certo è che, a oggi, sull’affaire, gli eserciti risultano assai compatti: l’Italia “onesta” (quella, per intenderci, dei milioni di evasori, raccomandati, arancioni, odiatori 24 hours, pregiudicati, abusivi, millantatori, corrotti, miracolati, malversatori, corruttori, clandestini, ladri specializzati e generici, fancazzisti…) si è all’unanimità schierata nelle fila dei colpevolisti; l’Italia “peggiore” (cioè, nessuno) milita nei partigiani innocentisti; tertium datur, l’Italia dei sofisti attivi e degli intellettuali mai nati ha aderito alla fazione del benaltrismo e del relativismo cronico. Quest’ultima sembra capeggiata da “Dagospia”, che se n’è uscita, tra l’altro, con la seguente arguzia: dov’erano, al tempo di Berlusconi, tutti coloro che oggi definiscono “privati” gli sms pubblicati dalla stampa? Insomma, la coazione a ripetere di una boiata: che il rispetto della privacy dovesse riguardare un premier che utilizzava il cellulare come Mark Webber in Le squillo della porta accanto. Non era la stessa cosa! Non è mai la stessa cosa! Lo capiranno mai questi inesausti inventori di similitudini? Tu magari gli hai raccontato una cosa importante e loro ricominciano: «E allora quando è successo che…».

Dopo due ore e mezza di chiacchiericcio collettivo, Luigi De Magistris ha finalmente pronunciato una frase d’altri tempi: «Il Magistrato è un mestiere, a tratti una missione talmente bella che, però, richiede dei sacrifici, soprattutto in certi luoghi particolari. Per me, come per tanti altri magistrati, erano sacrifici normali. Devi essere al di sopra di ogni sospetto tu, i tuoi famigliari… Non devi essere avvicinabile, devi stare attento… Ci sono delle valutazioni di opportunità che per un magistrato sono assolutamente fondamentali. Apparire ed essere autonomi, indipendenti». È una ventina di secondi che vale il prezzo di una trasmissione estenuante, sempre in bilico tra il conformismo e il luogo comune, a cui Palamara è approdato dopo una sfilata di anime belle e di casi eccezionali. Come dover palleggiare dopo Maradona e Messi. Il conduttore in realtà non lo ha tormentato più di tanto, un po’ perché non maneggia appieno questi argomenti troppo complessi, un po’ perché gli interessava più di tutto rendere giustizia al senatore dei selfie, cioè a uno che, in materia di inavvicinabilità e di frequentazioni inopportune, si è dimostrato un bel fuoriclasse.

Se da un anno di scoop, di illazioni e di sentenze un’immagine è trapelata con un certo nitore, ebbene è quella di una guerra interna. Quali le conseguenze polemologiche? Che giudicarla dall’interno sarà assurdo; che giudicarla dall’esterno risulterà imperscrutabile quanto un “doppio buio” a poker. Palamara ha riconosciuto i guasti del “correntismo” facendo intendere che si tratta di una pandemia corporativa. Un approccio, il suo, che ha in qualche misura richiamato il discorso di Bettino Craxi in Parlamento, allorché la sua chiamata di correità cadde nel vuoto. «Tutti cercano qualcuno a cui dare la colpa», cantava Tom Waits… Per i casi della politica e della magistratura, si sfondano porte aperte: le colpe sono comuni.

E altrove no? Se sapeste quanto correntismo impera nel mondo letterario, editoriale, giornalistico, accademico, artistico, teatrale, cinematografico, televisivo… e in tutti quegli infiniti settori creativi e produttivi di cui non conosco niente… Perché la nostra è Patria di eroi, santi e correntisti, il che non esime comunque da una valutazione: che l’invalso abuso di correntismo, in Magistratura, è più grave poiché mette in pericolo l’indipendenza di ogni suo operato e di ogni suo giudizio. E io, voi, tutti noi, potremmo un giorno vestire i panni di un imputato. E se questo ci accadesse oggi, beh, sarebbe già troppo tardi per sentirci nelle mani di una giustizia eguale per tutti.

Se pure osservassimo i sistemi in cui viviamo con quella buona fede di cui pure saremmo dotati, dovremmo ammettere che stiamo morendo di mondanità. Di una mondanità soprattutto insensata, perché la cortigianeria che ne deriva non ha, come suo referente, né un monarca né un benefattore illuminato, bensì una pletora di personaggi omologati e assimilati che in nulla si distinguono dalla massa. Come nella moda non dominano più le élite richiamate da Georg Simmel, così nella mondanità italiana contemporanea non sopravvivono esemplari differenti, in grado di contraddistinguersi e di spiccare nel mucchio.

E, per carità, evitiamo di utilizzare quelle figure fruste ed esauste che da decenni fingono di volare alto e intanto dispensano lezioni di bassa etica su tutto lo scibile e il godibile umani. Quelli, no. Non desidero fare un elenco, peraltro inesauribile, di tali modelli solonici, buoni per tutte le stagioni tranne che per le loro. Non lo faccio perché da ciò tracimerebbe una collezione di futilità, di imitazioni e di vaniloquenze che, dall’alto in basso come da destra a sinistra, servirà a impedire che si racconti quel che semplicemente si vede in giro: e cioè che quasi tutti (compresi i tre articolisti non citati) si palleggiano inviti, messaggi, favori e segnalazioni in ogni campo.

Non ho alcun desiderio di concludere con rimproveri o con pistolotti da cinque centesimi, ma se tanti e tanti magistrati italiani tornassero ad accontentarsi – se non ad esser felici come quel giorno che ebbero a vincere il loro concorso – di svolgere una professione nobile, di esserne giustamente fieri e di essere ben pagati, centinaia di cellulari squillerebbero nuovamente per i loro vecchi amici, per i colleghi di antica data, per i compagni di nobili imprese affrontate assieme, per i figli, per una donna o per un uomo amati e, magari fosse, per qualche artista senza interessi.

In fondo, la memoria che conservo di quella mondanità così diversa da questa attuale rimanda a quegli altissimi magistrati che, senza eccezioni, mantenevano una adeguata distanza dal mondo. Non era alterigia, era alterità. Era la coscienza della loro responsabilità, era il sacrificio di fare sempre un passo indietro non appena orecchiato un argomento di minimo imbarazzo. E se talvolta facevano gruppo, o era per i normalissimi aggiornamenti famigliari o, al massimo, a commento di qualche vagheggiato progetto di legge. Erano cene in piedi, erano persone in piedi. E forse non è un caso che, volendo rendere omaggio a Norbert Elias e al suo magistrale La società di corte, l’occhio mi sia caduto su questi pochi versi che Philippe Desportes aveva dedicato ai liberi uomini di mondo…

«Non vende la sua libertà per soddisfare
le passioni dei principi e dei re,
l’ambizione non sprona il suo coraggio;
non maschera il suo animo con un belletto ingannevole,
non tradisce con gioia la sua fede;
non va a importunare i gran signori,
ma soddisfatto della sua fortuna,
è re, corte e favore di se stesso».

Signore e Signori, benvenuti in società.

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