Gianni Cerasuolo
Italia-Germania 4-3. L'amarcord

Messico e nuvole

La nostra inchiesta sulla "partita del secolo” ai Mondiali di calcio del 1970 si chiude con otto racconti personali. Otto storie di passione improvvisa, quando gli italiani, senza rendersene conto, si scoprirono un popolo di tifosi

Ora tutto è finito, tranne i ricordi diceva in qualche film Woody Allen. Che è una battuta nel copione. Ma è difficile scriverne – dei ricordi – con leggerezza eludendo la pallosità della vecchiaia. Mi chiedo quindi se sia stata una buona idea chiamare un po’ di gente e chiedergli: «Ma tu la notte di Italia-Germania 4 a 3 che facevi e che cosa ti ricordi, passati cinquant’anni?».

È stato invece come pigiare il tasto play e il nastro della narrazione, di frammenti di vita, s’è avviato. In mezzo scorrono la paura, l’incredulità, l’amicizia, la gioia, l’amore. Ho svicolato in questo modo il teatrino dei personaggi storici, Mazzola e Rivera, Brera e Palumbo, Valcareggi e la staffetta, evitando caroselli e feste. La grande impresa rimane sullo sfondo.

Quello che segue è come un respiro profondo, trattenuto e poi rilasciato a poco a poco. È un tornare alle favole dell’infanzia, un finale lieto (o quasi) ogni tanto, considerato che i ricordi più recenti sono dolorosi.

Ecco otto piccole storie di cinquant’anni fa:

Umberto che nel 1970 aveva 16 anni e quella notte era rimasto a vedere la partita nel bar dello zio a Centocelle, Roma.

«Ci lavoravo in quel locale, davo una mano a mio zio. Uscivo da scuola e da Testaccio facevo un vero e proprio viaggio per arrivare a Centocelle. Il bar era all’angolo, tre vetrine su via dei Faggi, altre tre su via dei Castani. Centocelle, quartiere popolare, allora periferia, oggi sospinto verso il centro dall’urbanizzazione, era abitato da operai, edili, piccoli commercianti. I ragazzi dicevano “andiamo a Roma” per dire che si spostavano verso il cuore della città. Si sentivano cento dialetti. Erano gli immigrati, i nostri: siciliani, abruzzesi, calabresi, napoletani. Un po’ di questi si erano radunati nel bar perché loro a casa non avevano il televisore: strano a dirsi oggi ma era proprio così. Il venerdì e il sabato lasciavo il bancone e prendevo le giocate del Totocalcio. Ero bravo a fare gelati. Me n’ero inventato uno per i Mondiali che avevo battezzato Coppa Rimet: pistacchio, limone e fragola, un tricolore freddo che andava a ruba tra una partitina a flipper e 50 lire nel juke-box a sentire Jannacci cantare Mexico e nuvole. Era untormentone: “… Mexico e nuvole, la faccia triste dell’America, il vento soffia la sua armonica, che voglia di piangere ho…”.

«Grandi furono i preparativi per la gara con i tedeschi. Il fioraio fece una coppa alta un metro e mezzo di vari fiori e poi a me dissero di preparare una grande sagoma con qualche giocatore azzurro. Disegnai una caricatura di Domenghini su compensato, una sagoma di due metri, due metri e mezzo. I pittori mi portarono delle vernici ed io così la colorai. Insomma c’era grande attesa. Infatti quella sera molti si fermarono fino alla mezzanotte, orario di inizio della partita. Un tifo da stadio fino alla mezz’ora più esaltante, quella dei supplementari, salutati con un urlo definitivo. Uscimmo fuori dal bar, erano passate le 2, anche io rimasi a parlare con altri davanti al locale. Poi arrivò il tram – il 12 – che girava proprio all’angolo davanti al bar. Il tranviere si fermò nella curva, aprì le porte e chiese : “Ch’amo fatto?”. “Avemo vinto 4 a 3”. Lui richiuse le porte a soffietto e ripartì. Il tram prese a scampanellare come fosse pieno giorno».

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Massimo che nel 1970 aveva 29 anni e quella notte era a casa sua a Verona in Salita di Porta Vescovo.

«Certo che me lo ricordo quel 17 giugno che fece passare quella nazionale nella leggenda, togliendoci però un bel po’ di fiato per la finale. Stavo a Verona, lavoravo come grafico alla Mondadori, ed ero a casa con la mia primogenita di un anno che dormiva placidamente. Mia moglie era andata da un’amica, ma non perché odiasse il calcio. E credo nemmeno me. E così mi misi davanti ad una tv ridicolo-portatile che ogni tanto sfarfalleggiava. Partita tesa, urlo al gol di Boninsegna ma ansia da vantaggio al minimo sopportabile. L’urlo però aveva svegliato la piccola. E quando Schnellinger pareggiò (unico suo gol in 44 partite in nazionale) mi dedicai a riaddormentarla. Attività complessa e ripetitiva, perché poi urlai come un pazzo altre tre volte con i gol in sequenza, esaltato da Riva e subito dopo depresso dall’ennesimo pareggio, odiando e amando Rivera. Poi andò come andò, l’incredulità alimentava l’esaltazione. La piccola fu ancora placcata e spedita definitivamente in angolo. Mia moglie tornò dopo non molto. Mi chiese della raucedine, ma rimasi evasivo. La piccola non mi tradì mai».

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Pina che nel 1970 aveva 25 anni e quella notte stava a casa dei genitori al Rione Olivetti a Pozzuoli.

«Si parlava tanto di calcio a casa mia. Mio padre Luigi aveva giocato anche nel Napoli e poi nella Puteolana. Per via di un ciuffo copioso e scuro scuro, i tifosi lo chiamavano “Penna nera”. Anche mio zio giocava a calcio. Le piccole palazzine di edilizia popolare, con la piazzetta che era un centro di vita collettiva, sembravano avvolte in un silenzio insolito. In ogni casa, invece, c’era eccitazione davanti ai televisori. Anche nella mia. Ricordo ancora come eravamo disposti, i miei familiari, alcuni amici e la Signora. Che non stava mai seduta, in realtà: era la più agitata, andava avanti e indietro, diceva male parole, non si dava pace che i tedeschi avessero pareggiato in quel modo quando la partita era praticamente finita. La Signora era la nostra dirimpettaia di ballatoio e veniva da Napoli, era nata al Pallonetto a Santa Lucia, zona poco distante da Piazza del Plebiscito. Simpatica e nervosa, non c’era verso di tenerla ferma. Fino al fischio finale. Poi scendemmo tutti e il rione si animò all’improvviso dopo il boato del 4 a 3. Ma io dovetti stare attenta e non strapazzarmi troppo: aspettavo la mia prima figlia».

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Antonio che aveva 13 anni nel 1970 e quella notte stava a casa in Via degli Stadi a Cosenza.

«Il cuscino, io mi ricordo quel cuscino gettato via dal balcone al primo pareggio dei tedeschi: ero disperato, non sapevo che fare, presi la prima cosa che mi capitò tra le mani e la buttai via. Avevo tredici anni ma in qualche modo io ed i miei amici avevamo una maturità e una consapevolezza maggiori della nostra età. L’onda lunga della ribellione giovanile trascinava anche noi adolescenti più piccoli. Per alcuni fu come una folgorazione e spinse persino me ed altri compagni ad osare. Al punto che quello stesso anno, il ’70 appunto, occupammo la scuola media. Vivevamo una scuola divisa in classi sociali: bastava guardare come eravamo sistemati nei banchi già alle elementari. Davanti i figli di avvocati, medici, professionisti, poi i figli dei commercianti, in fondo quelli che avevano i papà operai, artigiani, manovali.  Mio padre faceva il pane ogni notte che Dio mandava in terra, anzi restava al forno anche la mattina, rientrava per il pranzo. Non era a casa nemmeno quella notte, la notte messicana. Vidi la partita con mio fratello maggiore Giovanni nel salottino che aveva un piccolo balcone. Il cuscino del divano passò di lì. Non l’ho mai dimenticato. E forse la mia rabbia non era soltanto per l’1-1 della Germania…».

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Nicola che aveva 11 anni nel 1970 e quella notte stava a casa in via Candia a Roma.

«Sentivo i clacson delle auto in piena notte. La festa era cominciata e volli scendere giù per strada. Ma non ho una bandiera, pensai, e allora mi precipitai in bagno e afferrai un asciugamano, bianco. Felice, diedi la mano a mia sorella, scendemmo le scale e ci ritrovammo con molta gente in giro e un fiume di auto con persone che sventolavano tricolori dalle auto. Io stavo seduto sulla capote aperta delle 500 di mia sorella e da lì cominciai a esibire il mio vessillo bianco con orgoglio e senso patriottico. Però mi accorsi che molti tra un urlo e l’altro mi guardavano male. Qualcuno cominciò anche ad indicarmi in maniera non proprio cordiale. Allora capii: il mio asciugamano assomigliava tremendamente alla maglietta dei tedeschi, i bianchi di Germania. Uno, credo, prese anche a sfottermi. Allora buttai via la mia bandiera equivoca e me ne tornai un po’ intristito a casa. Mia madre mi comprò il tricolore per la finale con il Brasile. Ma non servì».

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Enrico che aveva 21 anni nel 1970 e quella notte era andato al circolo culturale “Amedeo Maiuri” in via Matteotti a Pozzuoli.

«Con un gruppo di amici decidemmo di andare a vedere Italia-Germania nel nostro circolo. C’era anche qualche ragazza, fidanzatina timida. Mangiammo qualcosa e bevemmo innocue bevande. Potevamo essere una ventina. Tifo molto passionale ma tutto filò liscio fino al gol di Schnellinger: a quel punto successe un putiferio. E un paio di sedie, sì sedie, furono lanciate da una finestra dai più esagitati. Dovetti intervenire con altri a stoppare altri lanci: “Sono le nostre sedie, ma che fate?” gridai. Poi molti andarono a festeggiare in piazza, io me ne tornai a casa che era lì a due passi».

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Vittorio che aveva 19 anni nel 1970 e stava a casa sua in Via Gemito, Vomero, Napoli.

«Allora, stasera ci vediamo a casa mia, mangiamo qualcosa, magari prendiamo delle pizze e poi ci vediamo la partita… Invitai un po’ di gente, ragazzi e ragazze che avevo appena conosciuto all’Università o vecchi compagni del liceo. Eravamo padroni dell’appartamento: i miei erano già partiti per Ischia. Sarebbero stati via tutta l’estate nella piccola casa che avevamo a Lacco Ameno. Li avrei raggiunti dopo aver dato i primi esami a Legge. Forse. Da un po’ di tempo mi vedevo con Rosalba, una ragazza esile, bionda, un visino gentile. Venne anche lei. La partita era un pretesto, quell’appuntamento serviva innanzitutto per stare tutti insieme, ascoltare musica, ballare, flirtare, tanto la partita cominciava tardi, a mezzanotte. Eravamo tifosi della nazionale ma alcuni avevano un rapporto con il calcio abbastanza distaccato. Io pure, che avevo fatto pallanuoto anche ad un buon livello, mi innamorai del calcio – come scrisse Nick Hornby nell’incipit di Febbre a 90° molto tempo dopo quella sera – come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente. Allora mi piaceva Rosalba. Quando finì la partita e ci fummo scaldati dopo quella mezz’ora pazzesca di supplementari, qualcuno propose di andare in piazza. Giù facevano chiasso ed esplodevano mortaretti. Fummo d’accordo, sì sì andiamo alla festa. Si avviarono. Io e Rosalba ci guardammo con uno sguardo complice e li lasciammo andare. Qualcuno provò a chiamarci da basso: ehi, che fate? non venite? Noi zitti. Nemmeno sentimmo tutta ammuina che saliva dalla strada».

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Francesco che aveva 13 anni nel 1970 e quella notte stava con i familiari in Corso Saffi a Faenza

«Quella famosa partita la vidi soltanto perché la scuola era finita. Altrimenti, mio padre non me lo avrebbe permesso. Era molto severo su queste cose. Per dire, la domenica sera non potevo vedere la Domenica sportiva in tv. Io però di nascosto aprivo un pochino la porta del soggiorno e sbirciavo le immagini della giornata di campionato. Da “clandestino” ho sentito persino alla radio il primo match tra Griffith e Benvenuti grazie a quella piccola mossa strategica. In quel mese di giugno del ’70 già facevo avanti e indietro, pendolare di vacanza e di tifo: una settimana a Faenza, la successiva in collina a Palazzuolo sul Senio tra la Romagna e la Toscana. Vidi la partita con il Messico a Palazzuolo e la semifinale con i tedeschi a Faenza. Con il Brasile stavo di nuovo a Palazzuolo. Ci radunavamo lì, una banda di ragazzini che andava al fiume a bagnarsi e a prendere il sole. Con noi c’era anche Saverio che aveva 17 anni ma a noi sembrava ancora più grande, anzi grandissimo con i suoi occhiali rettangolari alla Al Bano e soprattutto per via dello Scrambler rosso, il motorino che faceva impazzire noi adolescenti e, allo stesso tempo, rafforzava l’ammirazione e il rispetto verso il nostro amico cresciuto. Tifoso del Milan, Saverio invocava Rivera durante la finale contro Pelè, Jairzinho e Rivelino. Ma quando le cose si guastarono per l’Italia, e il suo campione giocò soltanto pochi minuti, si mise a piangere sulle ginocchia di una ragazza. Era inconsolabile, Saverio. Tra un singhiozzo e l’altro continuava a ripetere: “Ecco, ora daranno la colpa a lui, a Rivera…”. Una scena che assomigliava molto a quanto era successo quattro anni prima con la Corea. Quella partita maledetta io la vidi in una clinica perché mio padre, medico, quel giorno del ’66 era al lavoro. Al piccolo bar della clinica trovammo il barista, il signor Reggi, lo zio di Raffaella, la tennista azzurra di Faenza, che tra un caffè e l’altro versava lacrime amare per l’incubo Pak Doo-ik».

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Invece per Rivera ci furono applausi a Fiumicino al rientro degli azzurri dal Messico, cinque giorni dopo la partita con la Germania e uno dopo la finale perduta (4-1) con il Brasile. Il Dc9 dell’Alitalia “Gioacchino Rossini” atterrò nello scalo romano nella serata di lunedì 22 giugno. L’aspettavano circa ventimila persone, molti scandivano il nome dell’abatino, il piccolo prete Giovannino Rivera, il pallido prence mandrogno come lo chiamò Brera con cui poi finirono a bere calici di buon vino; altri avevano cartelli che inneggiavano alla mezzala milanista e se la prendevano con Valcareggi (e Mandelli) che lo aveva fatto giocare soltanto sei minuti contro i brasiliani. Lui il colpevole, il Ponzio Pilato che pure ci aveva guidato ad un titolo europeo (l’unico fino ad oggi) e a un secondo posto mondiale, l’allenatore che s’era inventato la staffetta con Mazzola (o forse la subì come ancora crede Rivera che mezzo secolo dopo parla ancora, in una intervista ad Oggi, di una decisione politica, di una lobby capeggiata da Gualtiero Zanetti, direttore della Gazzetta). Ferruccio Valcareggi “il padre del primo compromesso storico che abbia segnato l’Italia moderna” secondo la felice definizione che ne diede sulla Stampa Roberto Beccantini quando “Uccio” morì a 86 anni nel 2005.

No, non fu una festa quel rientro: il pullman che trasportava il tecnico e gli altri dirigenti fu costretto a rifugiarsi in un hangar per scampare alla contestazione. Una protesta esagerata, assurda per certi versi soltanto a pensare quello che era successo pochi giorni prima nella notte dei festini: in fondo eravamo arrivati secondi di fronte ad uno squadrone, forse il Brasile più forte.

Finì così infelicemente il Mondiale di calcio che ci aveva regalato per sempre la partita del secolo: Italia-Germania 4 a 3. Almeno non furono lanciati pomodori.

3/ Fine

Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo:
I miei amici Umberto Verdat, Massimo Bucchi, Pina Lama, Antonio Panettieri, Nicola Fano, Enrico Molino, Vittorio Russo, Francesco Zucchini.
Wikipedia.
L’Archivio storico di Repubblica.
L’Archivio storico della Stampa.

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