Giuliana Bonanni
Finestra sul mondo

La guerra di twitter

La sfida fra Trump e twitter è una piccola cosa, forse, rispetto alla rabbia che brucia l'America dopo l'omicidio di George Floyd. Eppure è un conflitto che può cambiare radicalmente il mondo dei social media

«È stata una delle più grandi storie d’amore della politica americana e adesso rischia di naufragare». Esordisce così David Smith, corrispondente da Washington del Guardian, nell’articolo che descrive il rapporto simbiotico di Donald Trump e Twitter, arrivati ad un passo dal divorzio, dopo che Twitter ha segnalato come imprecisi e fuorvianti alcuni tweet presidenziali. La polemica e le minacce di ritorsione che ne sono seguite mettono a repentaglio una relazione che in dieci anni ha generato oltre 52.000 tweet o retweet, circa 81 milioni di follower e ha contribuito a far diventare il social network una delle aziende più conosciute al mondo e Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Ma cosa ha portato l’ad di Twitter Jack Dorsey a varcare il confine della neutralità del mezzo e ad attirarsi anche le critiche di Mark Zuckerberg il quale – attenendosi alla regola che sul suo social i politici possono dire quello che vogliono, anche mentire – si è prudentemente messo dalla parte di Trump e ha dichiarato «Facebook non deve diventare l’arbitro della verità»? Cosa ha innescato la lotta fra coloro che hanno definito coraggiosa la mossa di Dorsey e chi la giudica opaca e arbitraria?

Per molti commentatori – in primis l’agenzia Reuters – è stata ancora una volta la pandemia a far scattare l’allarme e far stringere i controlli su informazioni fuorvianti sul virus contro le quali Twitter ha messo in campo la divisione Trust and Safety (Facebook si avvale invece di organizzazioni indipendenti come l’International Fact-Checking Network del Poynter Institute o Snopes) cui ha affidato il lavoro di ricerca e investigazione. Le decisioni di segnalare i tweet come fuorvianti spettano ad un team ristrettissimo mentre l’ultimo via libera arriva da Dorsey. Da qui il metodo si è allargato al campo delle dichiarazioni politiche anche se sono in molti a chiedersi se questa volontà di controllo di Twitter non finisca per fare il gioco di Trump focalizzando l’opinione pubblica sulle scaramucce e di fatto distogliendola dal nocciolo delle questioni.

Con l’America sconvolta dalle rivolte razziali di questi giorni e le libertà fondamentali messe in pericolo, la polemica fra Donald Trump e Twitter può sembrare un’inezia, addirittura ridicola. Non è così, perché, come ha detto il giornalista francese esperto di internet Pierre Haski, nella sua rubrica su France Inter, la disputa «ha ripercussioni a livello mondiale per il valore considerevole che hanno assunto Facebook, Twitter, YouTube e le altre piattaforme digitali nella nostra vita, nei movimenti sociali e addirittura nei rapporti internazionali».

La vicenda è nota. Twitter, per la prima volta, applicando le nuove regole di fact checking per segnalare tweet contenti fake o dati inesatti, ha richiamato l’attenzione degli utenti con un bollino blu e un punto esclamativo su due tweet del presidente degli Stati Uniti. Il meccanismo del social network, oltre a mettere in dubbio la veridicità del contenuto, ha reindirizzato gli utenti agli articoli pubblicati da testate attendibili come Cnn, Washington Post e The Hill per farsi una propria opinione in base a fonti terze e autorevoli. L’invito a “get the facts” è stato interpretato da Trump come una limitazione alla libertà di parola e come un’interferenza nella campagna elettorale per le presidenziali 2020. Per questo il presidente ha minacciato di chiudere Twitter e Facebook e di annullare lo scudo legale che protegge i social media e le piattaforme online, la Section 230 del CDA, il Communication Decency Act del 1996, per cui «nessuna piattaforma potrà essere considerata responsabile, come un editore, per i contenuti postati dagli utenti».

Si tratta di una vera rivoluzione – sottolinea Haski – perché, «se finora i social network sono stati considerati semplici “canali di diffusione”, in futuro potrebbero essere penalmente responsabili per tutto ciò che viene pubblicato nei loro spazi». Annullare la Section 230 significherebbe privare i social della libertà di espressione, perché – come ha scritto Riccardo Luna su Repubblica – «perdere la neutralità, lo status di non editore, vorrebbe dire essere responsabili di ogni nostro singolo post, di ogni foto, di ciascun video. Vorrebbe dire approvare tutto prima. Si fa prima a chiudere i social». Conclude Haski: «In gioco ci sono la libertà d’espressione e la libertà d’informazione e sicuramente è necessario trovare un equilibrio tra la libertà e la responsabilità, ma è molto difficile stabilire chi debba essere responsabile». Comunque gli effetti prodotti dalla decisione di Dorsey continuano: circa 600 dipendenti di FB hanno incrociato le braccia per protesta nei confronti della compagnia che non ha preso posizione sui tweet di Trump a proposito dei disordini scoppiati in seguito alla morte di George Floyd.

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