Leopoldo Carlesimo
La cena di Esther/2

Uomini a tavola

«Non le era mai andato a genio Furio… E che razza di idea, quella di Linaldo! Una delle sue solite trovate né carne né pesce… invitarlo a cena, a una settimana dalla cerimonia del primo giro di turbina a Roghùn»

Riassunto della prima puntata. Roghùn, Tajikistan, cantiere di costruzione di una diga. Esther ha invitato a cena alcuni colleghi di lavoro, nel suo alloggio del campo. Mentre finisce di cucinare e si prepara a ricevere gli ospiti, ripercorre le tappe del suo matrimonio con Linaldo. Lavorano entrambi lì a Roghùn, Linaldo come capocantiere, Esther come responsabile del magazzino. Si sono conosciuti in Etiopia vent’anni prima, su un’altra diga, quando entrambi già facevano quel mestiere. Dopo un primo periodo ‘felice’ in Africa, la loro unione ha cominciato a scricchiolare. Ma in qualche modo è sopravvissuta, passando attraverso traumi e degrado, trascinandosi per diverse aree del mondo più o meno remote, sostenuta dal lavoro e da una comune visione cinica e disincantata della vita. Un’unione che persiste nel tempo, ma in cui i tratti del matrimonio sono sempre meno riconoscibili. Possiedono una casa quasi sempre vuota a Feltre, nel bellunese. I primi ospiti arrivano: Toni e Bea, una coppia di ragazzi di vent’anni. Linaldo ed Esther li ricevono e offrono loro l’aperitivo in attesa degli altri.

* * *

“Non hanno neanche organizzato la tradizionale roulette, col primo giro di turbina. In questo cantiere di regole violate, non abbiamo manco festeggiato Santa Barbara…” si lamentava Duran.

“Lascia perderere la roulette,” disse Linaldo. “Stavo parlando della cena a palazzo, dal Presidente.”

Erano seduti a tavola e Linaldo si accingeva raccontare quella storia. Ma lei ne aveva una migliore, in serbo. Aspettava solo un pretesto per tirarla fuori.

Aveva assegnato a voce i posti: Linaldo e Furio, naturamente, ai due capitavola, Toni e Bea sulla panca imbottita che correva lungo la parete divisoria e Duran sulla sedia dirimpetto, accanto a lei, seduta su quella libera vicina alla cucina.

Duran, il capo moviter, aveva portato anche lui una bottiglia e per ultimo, con un quarto d’ora di ritardo, era arrivato Furio, il direttore. A mani vuote naturalmente. Esther lo accolse con l’abbraccio più disinvolto che poté e gli stampò un bacio ipocrita sulla guancia.

“Sei elegantissima, Esther,” aveva borbottato lui. “Cos’è, un peplo greco, una sorta di tunica da vestale, o cosa…?”

“Niente del genere,” aveva risposto lei. “E’ una veste etiope, l’ho presa laggiù… una delle mie chincaglierie africane.”

“Io la trovo molto romantica,” aveva detto Bea.

“Già, ne ha tutta l’aria. Fa parte di quei tempi,” aveva ribatturo Esther.

Non le era mai andato a genio Furio… E che razza di idea, quella di Linaldo! Una delle sue solite trovate né carne né pesce… invitarlo a cena, a una settimana dalla cerimonia del primo giro di turbina a Roghùn. Furio, Linaldo, Duran, Toni… i protagonisti – nella zucca bacata del suo uomo – dell’avventura che li aveva tenuti sul filo del rasoio per quei due mesi. I duellanti, a cena assieme a missione compiuta… Quanto possono essere infantili, gli uomini! Che idea puerile! E non dichiararla, poi, tipico di Linaldo, tirare il sasso e nascondere la mano. A una settimana di distanza, che altro poteva significare quell’invito?

Esther trovava un po’ ridicola l’ostinazione di quelle rivalità maschili. Il modo in cui si trascinano nel tempo, senza risolversi. Tra donne non sarebbe andata così. Non con lei, certamente. Se ne sarebbe sbarazzata da un pezzo, di quel fardello inutile. E così – pensava – ogni donna.

Ma forse si sbagliava ad attribuire un significato speciale a quella cena. In realtà non c’era nulla di nuovo, era un’abitudine. Più o meno una volta al mese da vent’anni a questa parte Esther invitava un paio di coppie o una mezza dozzina di scapoli a cena (meno impegnative, quelle in cui non c’erano altre donne). Uno dei tanti rituali di cantiere. E’ sempre stato compito delle poche donne presenti – le non numerose mogli al seguito, o quelle ancor meno numerose che, come lei o la Mara, laggiù ci stavano per lavoro – tenere su il morale di quell’ammasso d’uomini soli.

“Sapete,” aveva detto portando a tavola la zuppiera di fettuccine fumanti. “Linaldo avrebbe voluto che vi preparassi un plov… Con quel muflone che ha preso l’altro giorno, a caccia… Non gli ho dato retta, ho idea che preferiate le mie fettuccine…”

Bea raccoglieva le scodelle dai posti degli uomini e le serviva dopo che Esther le aveva riempite.

“Beh, il tuo ragù non si discute, Esther… però l’idea del plov non era mica male,” disse Duran. “E’ un gran piatto.”

“Non è un muflone, ma un argali,” la corresse Linaldo. “Di quella specie che chiamano Marco Polo. La preda più ambita, da queste parti. Una bella bestia, furba, ci ha dato filo da torcere, a me e Rachid…”

Aveva gettato l’amo, Esther, parlando di quella bestia, e pareva che il suo uomo stesse abboccando. Lui per primo aveva nominato Rachid, il tajiko che lavorava in magazzino e che s’era preso per compagno di caccia. Ma era qualcosa di più, per Esther.

“L’abbiamo inseguito insieme tanto a lungo,” disse Linaldo. “E poi m’è toccato abbatterlo da solo. Capita, quando si caccia in coppia… La sola volta che Rachid non m’ha seguito, ho avuto fortuna. Aveva il suo pascolo a una trentina di chilometri da qui. Lungo la strada per Tavildara, salendo verso il Pamir.”

Raccontò la caccia, uno dei suoi pezzi di repertorio. Era bravo, Linaldo, in quei racconti. Descrisse avvistameni e inseguimenti, assieme a Rachid, per quei sentieri rupestri di pietraie spoglie e di versanti in frana, un habitat in cui è così difficile mimetizzarsi, sia per i predatori che per le prede. L’appostamento dietro una roccia, sottovento, per sorprenderlo meglio, e poi il colpo che l’aveva abbattuto. Esther gli diede corda, attese la conclusione. Mentre si alzava per raccogliere i piatti, disse:

“Sapete a proposito, quel Rachid… l’ho beccato oggi in magazzino, che rubava. Chi se lo sarebbe aspettato. L’ho fatto arrestare dalla polizia.”

Non stette a osservare l’effetto, si ritirò in cucina. Gli affibbiò solo una sbirciata con la coda dell’occhio. Lo vide impallidire.

E pensare che era nata da un complimento di lavoro. Probabilmente qualunque ragazza alle prime armi s’immaginerebbe qualcosa di più romantico. Ma allora Esther era contenta che fosse stato il lavoro. Le pareva il tramite migliore.

Quand’era solo una studentessa, a Feltre, della scuola che frequentava allora non le interessavano né le lezioni né i compagni. Quel che le piaceva era essere messa davanti a un problema e cercare di risolverlo con le sue zampe. Purché ci fosse poi una risposta, alla fine. A scuola le risposte erano abbastanza chiare. E tutto sommato anche nella vita, a saperle leggere.

A parte questo, non aveva un gran ricordo di quei tempi. Un apprendistato non troppo onesto, ma neanche molto doloroso. Appena uscita di lì, appena fuori da quel bozzolo che già a vent’anni sentiva come una prigione, era partita per l’estero.

Il diploma in lingue le offriva una buona scusa. Un periodo in un paese francofono, a perfezionare il francese; poi in uno anglofono, per l’inglese. Si trovò da sola gli stage presso imprese del posto. Destò qualche perplessità, tra le sue amiche e in famiglia, il fatto che entrambi i posti fossero in Africa – Costa d’Avorio per il francese, Sud Africa per l’inglese. Ma questo faceva parte del personaggio-Esther, di quella ragazza ruvida e scalmanata che nel Cadore, dov’era nata, faceva alpinismo in solitaria ed era sempre stata, nei commenti malevoli delle sue amiche, un maschiaccio.

Lei non si sentiva un maschiaccio. Non credeva d’esserlo mai stata.

Bea, china sulla tavola della cucina, era intenta ad affettare l’arrosto e le stava dicendo qualche sciocchezza sull’abito etiope che indossava. Lo trovava molto femminile. Quello che s’era messo addosso lei, invece, quella mini nera, a Esther pareva più adatto a una serata in discoteca che a una cena di cantiere. Ma non glielo disse.

Non solo il lavoro, anche la caccia era stata complice. L’aveva sempre fatto, il suo uomo, fin da ragazzo nelle montagne dov’era nato. Ma in nessun posto aveva cacciato tanto bene quanto in Etiopia. E allora c’era Esther al suo fianco.

La domenica, nel giorno di riposo, prendevano il pick-up di cantiere all’alba e s’allontanavano sull’altopiano. Esther preparava delle provviste. Sandwich, birre, un termos di ghiaccio e uno di caffè. Sopra il cassone del pick-up avevano montato una specie di tenda abbastanza spaziosa per starci in due. Si facevano seguire da un camion leggero con a bordo tre o quattro dei loro neri più fidati, gente che lavorava in diga nelle loro squadre. Lui le insegnò a sparare. Caccia grossa: antilopi, bufali, una volta persino un leone. A quei tempi era meno difficile. Poi di solito si trovavano una radura per campeggiare e ci restavano fino al giorno dopo, sotto un albero, davanti a un fuoco, o accucciati dentro la tenda. Mangiavano, bevevano, si assopivano e facevano l’amore.

Il sodalizio funzionava. Quella cosa per cui né lui né lei avrebbero usato una parola più spinta. Pareva a entrambi, piuttosto, un’alleanza di letto e di lavoro. E se lo dicevano anche apertamente, allegramente. Condividevano due o tre cose che contavano per entrambi. Di notte risolvevano a letto le questioni in sospeso e la mattina dopo erano pronti a ricominciare. I giorni si susseguivano aspri, intensi. Si reggevano il gioco a vicenda nei confronti di chiunque altro.

Durò per un po’ e sul piano del lavoro e della caccia servì: lui divenne capocantiere, lei capa del magazzino. Ragionevoli sviluppi di carriera. Riempirono i rispettivi alloggi di pelli e trofei. Ma una volta lasciatisi questo alle spalle, una volta inseguite le prede che quel territorio poteva offrire, si formò come un vuoto, sotto, e cominciò ad aprirsi qualche crepa sulla superficie liscia e scorrevole che avevano corso liberamente, sventatamente, verso qualcosa che non conoscevano e forse non desideravano.

Loro ci provarono, a schivarla. Andarono a farsi unire in una specie di matrimonio – che tanto (era l’alibi per entrambi) non avrebbe avuto nessun valore legale – in una chiesetta copta abbarbicata in cima a un picco dell’altopiano, a sud di Addis. Una boutade davanti ai colleghi di cantiere che fecero da testimoni. Una specie di gioco, abbastanza ben congegnato da poter credere, tutt’e due, che valesse a scongiurare la sciagura incipiente.

Ma non scongiurò proprio nulla e fu presto chiaro sia a lei che a lui che era la fine di qualcosa, ormai alle loro spalle. Allora furono costretti a farci i conti. Erano davvero una coppia, sembrava proprio che non potessero più farne a meno. Questo parve, ineluttabilmente, almeno a lei. E quindi andarono a sposarsi sul serio, in Italia, a Feltre, nel suo paese. Coi parenti, gli amici e tutto il resto.

Era il modo in cui Esther se la raccontava adesso. Ma non era mica il peggio. Non ancora.

La cattura di Rachid poteva essere stata una sorpresa per Linaldo, ma non per lei. Da qualche giorno lo teneva d’occhio. Se l’aspettava, dopo che gli aveva annunciato la fine della loro storia. Non che ci fosse rimasto particolarmente male. E comunque, questo a Esther non interessava. Non s’era mai fatta fatta scrupolo del modo gelido in cui congedava i suoi amanti. Era sempre convinta che nel conto, alla fine, loro ci avessero guadagnato.

Però era già successo, in passato, che qualcuno di loro avesse voluto prendersi un piccolo extra, quando lei tirava la riga. Stavolta era toccato a Rachid. Stupido errore. Perché lei, Esther, aveva troppa esperienza e troppo pelo sullo stomaco per farsi fottere. Conosceva tutti i trucchi. E teneva troppo al suo lavoro, per accettare uno sgarro del genere. Anche da parte di chi, magari per il semplice fatto di averle procurato qualche orgasmo, si sentiva scioccamente in credito.

Il suo magazzino – il suo lurido magazzino – contava molto più dei suoi occasionali amanti. Quel baraccone dove s’ammucchiavano oggetti. Quell’arido ammasso di materiali da costruzione e ricambi, attrezzature d’officina, tubi, tralicci, lamiere, cavi elettrici, mobilio, lenzuola, coperte per il campo, stoviglie per la mensa, carichi di ferro e di cemento, carburante, olio idraulico, medicinali per l’infermeria, libri e quaderni per la scuola di cantiere… Una montagna di roba di cui s’occupava da anni e che andava quotidianamente censita, riordinata, stoccata e tenuta sotto controllo. Per Esther il magazzino era il cuore del cantiere. Bisognava inventariarne le scorte, pianificare e piazzare per tempo gli ordini, sapendo che quasi tutto ci mette mesi ad arrivare laggiù (via nave, dall’Europa o dall’Asia o dall’America, fino al porto più vicino; o via aerea, dove c’è un aeroporto; e poi su camion, via terra, organizzando e sorvegliando i trasporti interni). Le attribuivano un caratteraccio, sul lavoro. Alcuni la vedevano come una primadonna, altri come un cerbero. Ma a lei non importava. Si considerava, piuttosto, una sorta di vivandiera. Quella che fa sì che in cantiere ci sia tutto ciò di cui gli uomini hanno bisogno per lavorare. Quella che sa  sempre, molto meglio di tutti loro, quanto c’è del loro cemento o dei loro ricambi o dei loro tubi o del loro ferro tondino o di qualunque altra cosa possano chiedere. E dov’è conservata e quando arrivano le nuove scorte.

Era stato così per alcuni anni, prima; e fu così per molto tempo ancora dopo, quando la questione d’amore con Linaldo fu chiusa da un pezzo.

Perciò, quando colse in Rachid quello sguardo che aveva imparato a conoscere, mentre falsificava una bolla di scarico che gli avrebbe consentito di portar fuori dal magazzino un po’ di merce di valore, senza che dalle carte risultassero ammanchi, semplicemente lo lasciò fare. La sera tardi, prima di chiudere, andò a controllare la bolla, ed ebbe la prova che era falsa. La intascò. La notte dopo, quando Rachid venne con i suoi complici a prelevare la roba, mandò direttamente la sorveglianza a prenderli.

“L’hanno colto in flagrante,” disse fissando oltre la tavola Linaldo. “Assieme a un paio di tipi di Obi Garm. Merce per quasi trentamila euro. Ce l’ha in custodia la polizia. Domani decidete pure, tu e Furio, se la Compagnia intende costituirsi in giudizio o meno. Siete voi i direttori.”

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2. Continua. Clicca qui per leggere la prima puntata.

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