Arturo Belluardo
Storie del tempo del Covid

Storia di Gabriella

La febbre, la tosse, la solitudine, gli incubi e infine il ritorno alla vita: la storia (vera) che pare il romanzo di una donna di Siracusa che è andata all'inferno e ne è tornata indietro. Sognando di scivolare sulle gradinate del Teatro Greco

“Chi ave, dottoressa? ‘Stu curnuto l’ammaraggiò?”.

Gabriella riesce solo a stirare un sorriso pallido all’autista della Sovrintendenza, mentre lui spegne la sigaretta sulla suola della scarpa e conserva il mozzicone in un sacchetto trasparente, quasi fosse un reperto.

“Ma no, Carmelo, mi gira un poco la testa. Sarà tutta questa luce all’improvviso…”.

Le onde si spezzano morbide sulla spiaggia di Eloro, il sole livido di primo marzo ne esalta i ghirigori di schiuma, è una cadenza che le percuote le tempie, è come se l’acqua marina le gonfiasse vene e arterie in un cerchio schiaccia-testa, a farle confessare colpe ancestrali. Mentre la macchina di servizio si inerpica per le trazzere umide del Parco Archeologico, Gabriella chiude gli occhi sul sedile posteriore: nella testa le risuonano le discussioni con il proprietario del terreno che vorrebbe fare una bella gettata di cemento armato sui resti sepolti dell’antica città greca di Eloro.

“Carmelo, notizie da Rizzuto ce ne sono?”.

“Ca’ niente, dottoressa, cu tutto che c’aveva quaranta di freve, all’Umberto Primo non lo vollero ricoverare. Consumati semu”.

“Mah, speriamo bene”.

Lei, Calogero Rizzuto, il direttore del Parco Archeologico di Siracusa, l’ha incontrato giusto giusto due giorni fa, appena tornato dalla Fiera di Firenze: era strammato, non allegro come al solito, e tossiva con un raglio da mulo.

Squilla il cellulare, è Sergio, il suo compagno, sono dodici anni che stanno assieme, una a Siracusa, l’altro a Catania, quei sessanta chilometri di autostrada li conoscono aranceto su aranceto, sciara su sciara.

“Gioia, c’ho un poco di febbre, mi sa che stasera non ci vediamo”.

Gabriella si asciuga il calore dalla fronte, quasi di nascosto, quasi senza sapere perché. Saranno le scaffe della trazzera, sarà che Carmelo le pare distratto, sarà che la macchina messa a disposizione degli archeologi è targata Archia da Corinto, ma ogni scossone le risuona nel cavo delle ossa, quasi ne succhiasse il midollo e lo sputasse nelle fauci di Cerbero.

Quando arriva a casa, si sente svenire, manda un Whatsapp a suo fratello Antonino, che abita al piano di sotto; gli scrive di non salire, come fa ogni sera, per venirsi a prendere l’aperitivo, che vuole solo dormire.

Ma prima.

Il termometro.

È uno di quelli vecchi, a mercurio.

Sono cinque minuti lunghissimi, in cui sente cadere le gocce di sudore dalle sopracciglia, appendersi danzando alla punta del naso.

Solo 37,5.

Lancia un sospiro, ma i polmoni è come si ripiegassero all’indentro, succhiati in un sottovuoto da cucina di chef stellato. E le ossa, le ossa continuano a essere macinate, implacabilmente, con una ruota di pietra di calcare. Si infila sotto le coperte, ma le lenzuola sono diacce, sembrano siano state congelate, le strinano peli e pori. Si agita, si avvoltola, si srotola, suda.

Chiama il medico.

“Malanni di stagione, se le sale la febbre, si prenda la tachipirina e bonu chiù”.

Gabriella non è molto convinta, ma.

Cerca di rilassarsi, ma si sente sciogliere in una polla di acqua artica. Chiama Sergio, anche lui è a casa, non riesce quasi a parlare per quanto gli sbattono i denti per il freddo.

Chiama suo fratello Antonino e gli chiede di comprarle del latte, del pane, di lasciarglieli dietro la porta di casa.

“Babba c’alasticu, non stai esagerando?”.

“Forse, ma è meglio essere prudenti, no?”.

“Come vuoi, tu. Ammia parono tutte minchiatone”.

* * *

Passa una settimana, Gabriella non migliora, continua a gelare, il riscaldamento è acceso al massimo, tutto il giorno; ha perso il gusto e l’olfatto, non mangia, riesce solo a stare stesa a faccia in su, con la tosse che le riempie ogni pensiero, con le ossa ridotte a scagliola.

“Ma se non è il Coronavirus, sarà un’altra infezione, dottore, non è possibile, 37,5 tutta una settimana e io che sto così”.

“Aspettiamo”.

L’indomani mattina alle sette una telefonata la scuote dal sudore. È Carmelo, l’autista.

“Dottoressa, taliasse che ricoverarono il Direttore Rizzuto in terapia intensiva. C’ha il Coviddi. Macari iu c’aiu 39 di freve e sugnu morto di scantazzu. Lei come sta?”.

Gabriella riattacca senza rispondere, si allunga verso il mercurio, i cinque minuti diventano potenze esponenziali, venticinque, centoventicinque, seicentoventicinque, tremilacentoventcinque, quindicimilaseicentoventicinque.

Squilla il telefono, è Sergio, il suo fidanzato.

“Gioia, ho 39,5”.

“Magari io”.

“E ora che facciamo?”.

Gabriella crolla sul segato di marmo del pavimento, si agguanta le ginocchia e rimane accucciata a piangere finché non sente il ruspare leggero di suo fratello dietro la porta di casa. Si trascina a recuperare la cena, si punge il mento sullo zerbino.

Lascia aperta la porta di casa, spalancata, se devo morire, almeno posso urlare prima, almeno non devono chiamare i pompieri per portarmi via. Se poi li chiamano, se poi vengono, che il contagio.

Chiama l’ASP di Siracusa, ma quelli cadono dal pero, dal più alto dei pirobutirri di gaddiana memoria. Chiama il suo medico. Nessuno sa cosa fare. Nessuno le sa dare un consiglio.

Solo pianto.

Il letto è unto di sudore, dovrebbe cambiare le lenzuola, ma a stento riesce a tirarle fuori dal cassetto, ogni gesto è accompagnato da uno squasso ai polmoni, stende con fatica le lenzuola pulite su quelle sporche.

* * *

La richiamano dalla ASP, le verranno a fare il tampone, arrivano bardati come nei film di fantascienza, ma parlano con la cadenza strascicata di Buscemi, Gabriella mischia tosse e risate, le sembra di essere capitata in un brutto film degli anni sessanta, di quei remake da tre palle e un soldo che faceva Antonio Margheriti, I diafanoidi vengono da Marte o La morte viene dal pianeta Aytin.

Le lasciano un ossimetro, se lo attacca all’indice, appendice perenne, a ogni risveglio lo accende. Annota su un foglio di carta striato dalle sue gocce i livelli di ossigenazione del sangue, la temperatura, la pressione.

Chiama il suo compagno, Sergio, a stento riesce a parlare, pare ci sia stato un vivamaria di condomini imbizzarriti quando gli addetti della ASP sono venuti a fargli il tampone.

L’esito del tampone, dei tamponi, è quello che immagina, che immaginano. Ma saperlo la fa vomitare saliva e bile, che di cibo. E sensi di colpa, Sergio, l’uomo che ama, l’ha infettato lei e chissà chi altro. Chiama in Sovrintendenza, non risponde nessuno, chiama l’autista Carmelo.

“Sono tutti in quarantena, da quando il povero Direttore Rizzuto…”

“Rizzuto? E che è successo?”.

“Dottoressa, ma non lo sa che muriu ieri?”.

Gabriella urla, ma l’urlo esplode in un conato di tosse.

“Dottoressa?”.

“Sì, Carmelo?”.

“Non mi chiami più, per favore, non mi chiami mai più”.

* * *

A chiamarla, in videochiamata su Whatsapp è suo fratello: “Babba c’alasticu, mangiasti? Ti lavasti? Lo vedo da qua che stai fetendo”.

“Non ce la faccio…”

“Ti ho lasciato le salviette umidificate, usa quelle”.

Chiama il medico, le prescrive il cortisone, gli antinfiammatori. Poi la richiama le urla di non prenderli.

“E che devo prendere, dottore?”.

“Ora vediamo”.

E riattacca.

Gabriella è terrorizzata, non mangia più, singhiozza e basta.

“Dai, gioia, ce la devi fare” Sergio le manda una foto di un vasetto di omogeneizzato vuoto.

Didascalia: “Lo vedi? Ce l’ho fatta a finirlo”.

Dalla ASP la chiamano una volta ogni tre giorni. Le fanno sempre le stesse domande.

“Qual è la temperatura di oggi?”.

“39”.

“Qual è il suo numero di telefono?”.

“Quello a cui mi sta chiamando”.

“Me lo dia per favore”.

“La sua mail?”

“La stessa di tre giorni fa”.

“Il suo indirizzo?”

“Ma che fate, ve li annotate su tavolette di cera assire i miei dati, che si squagliano ogni volta?”.

“No, non ce le hanno fornite in dotazione”.

* * *

Suo fratello Antonino ha un’idea folle.

“Babba c’alasticu, te lo ricordi il figlio di Gabriele? Quello che fa il medico in ospedale a Milano? Si pigliò magari lui il Covid. L’ho chiamato e mi ha dato la cura che sta seguendo. Ti lasciai i medicinali sullo zerbino”.

Ogni volta che si addormenta Gabriella sa che potrebbe non risvegliarsi, cerca di concentrarsi su un’immagine dolce, piacevole. Pensa al suo amato Teatro Greco, al suo calcare distrutto dai tacchi a spillo delle turiste e dai ventagli degli spettatori delle Tragedie dell’INDA.

“È tutto liscio, completamente liscio orami” le dice Calogero Rizzuto. È accanto a lei sulle gradinate, e di fronte a lei c’è l’autista Carmelo che fuma beffardo. “Altro che tragedie e Claudio Baglioni, qua tutte cose dovremmo chiudere, ma all’Assessore ci interessano solo i picciuli, lo sbigliettamento, lo sbigliettamentoooo…”.

Gabriella si gira di scatto: “Calogero, ma tu…”.

“Attenta che scivoli!”.

È troppo tardi, le gradinate del Teatro Greco sono diventate viscide come scivoli dell’Aquafan, Gabriella precipita giù, non riesce a fermarsi, la gonna si solleva a coprirle la faccia. Gabriella la tira giù con rabbia, devo vedere dove vado a finire; l’emiciclo dell’orchestra si è trasformato in un buco nero, i resti del deus ex-machina sono denti pronti a masticarla, si delineano i lineamenti di un volto, sono quelli dell’Assessore della Giunta Regionale Musumeci.

Gabriella scoppia a ridere.

Non può morire in un incubo burocratico, masticata da un politico dall’alito pesante di cannoli irranciditi.

Ride, Gabriella, ride. E la sua risata scaraventa a terra le lenzuola sudate, attraversa la casa, supera la porta spalancata, scende per le scale, apre la porta di suo fratello, lo butta giù dal letto.

Antonino si affaccia sul balcone, la chiama.

“Babba c’alasticu!” e ride pure lui “Te la misurasti la febbre?”.

Trentasei.

Trentasei.

Trentasei.

* * *

Gabriella è andata alla ASP per fare l’ultimo tampone, la macchina è partita a stento, la batteria era scarica, due mesi che non la metteva in moto. Abbassa il finestrino e porge la testa all’uomo bardato di bianco, come venisse dal pianeta Aytin.

“Avanti che ci dobbiamo fare un bel tampone negativo a questa nostra cliente affezionata!”.

Gabriella ride e piange.

Chiama Sergio, il suo compagno, anche lui ha fatto l’ultimo tampone, servono due negativi e finalmente si potranno vedere. Si trasferirà a casa sua, almeno finché sono tutti e due in smart-working.

Sergio ride e sorride, anche lui è negativo, ma è come se masticasse amaro.

“Non ce la faccio a venire. Ho troppa paura”.

Gabriella si appoggia allo schienale della macchina, il tepore di mandorle e maggio le scalda le palpebre.

“E se si sono sbagliati? E se ti infetto di nuovo? Aspettiamo ancora qualche giorno, dobbiamo essere sicuri”.

Gabriella apre la borsa, controlla di avere la tessera del Simply nel portafogli e parcheggia proprio di fronte al supermercato.

Tutto sommato la fila non è poi così lunga.

Facebooktwitterlinkedin