Leone Piccioni
A cinquant’anni da Ungaretti /1

La parola scavata

Guardare le cose del mondo affidandosi alla purezza di una ispirazione che riguarda da vicino tutti i viventi. Ecco allora che «una parola non logorata dall’uso improprio, ma trovata con fatica e senza illusioni si fa “delirante fermento”», poesia...

Succedeoggi celebra i 50 anni dalla morte di Giuseppe Ungaretti tornando a presentare ai sui lettori un’“esclusiva”: un brano tratto dal libro “Ungaretti e il Porto Sepolto”, che Leone Piccioni, allievo di Ungaretti e curatore di tutta la sua opera poetica, scrisse per le nostre edizioni nel centenario de “Il Porto sepolto”. Le righe che seguono ci raccontano degli anni che vanno dal 1912 – 1916: anni decisivi, nei quali Ungaretti approda alla sua «poesia nuova».

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Ungaretti sbarca a Brindisi, si ferma per poco a Roma, più a lungo a Firenze dove si incontra con Jahier e amici della Vocecon i quali era stato in contatto anche dall’Egitto. Visita gli affreschi di Masaccio al Carmine e ne è entusiasta. Scopre poi una somiglianza tra i volti delle persone che vede per strada e i profili degli affreschi di Masaccio: sente così la forza e la permanenza della tradizione. Ma la scoperta che più lo impressiona è la montagna. Non ha certo mai visto le montagne ad Alessandria. Ora va con Jahier all’Abetone. Ecco come Ungaretti descrive in una delle interviste a Amrouche la sua emozione: «Fino ad allora c’era il paesaggio egiziano, questo precario paesaggio, il deserto, e poi il mare… Ed ecco, improvvisamente, mi sono trovato davanti la montagna, la montagna è qualcosa che resiste al tempo, è qualche cosa che sfida il tempo. E questa è una nuova cosa che entra per la prima volta nella mia sensibilità; per me è stata una grande sorpresa, un grande stupore, forse più intenso dei miei ricordi».

Lascia Firenze per Milano dove forse incontra Carrà ma si dirige subito verso Parigi. Prende alloggio nel Quartiere latino in un piccolo albergo di Rue des Carmes «appassito vicolo in discesa». Come si poteva prevedere non pensa neanche un momento agli studi di diritto per diventare avvocato, si iscrive alla Sorbona dove segue i corsi con Bergson che molto poi influenzeranno le sue riflessioni sul tempo, tanto che la sua seconda raccolta la intitola Sentimento del tempo. Ma segue anche corsi sulla letteratura antica francese e in particolare quelli sulla Chanson de Roland. A Firenze Prezzolini gli aveva dato una lettera di presentazione per Peguy, Ungaretti fu ricevuto con molta simpatia dallo scrittore francese che subito – racconta Ungaretti – gli lesse dei versi che aveva da poco composto, addirittura due o trecento versi, non si sa con quale reazione di Ungaretti. Incontra anche Georges Sorel e Elemir Bourges. Probabilmente a casa di Bourges incontra anche Proust.

Deve studiare per approfondire le lezioni che ha ascoltato e specialmente quelle di Bergson. «Le hanno dichiarate come l’acqua trasparente, del cristallo, ma era ancora qualcosa che ricopriva, che era estremamente seducente e insomma difficile da penetrare. Penso che la mia poesia gli debba un grande debito» (ad Amrouche).

Lo raggiunge Moammed Sceab che alloggia nel suo stesso albergo: nel maggio del 1913 si suicida. Perché? Lo dice Ungaretti nella prima poesia del Porto sepolto: «E non sapeva/ sciogliere/ il canto/ del suo abbandono» (In Memoria). Di Sceab nella stessa bellissima poesia scrive anche che fu «suicida/ perché non aveva più/ patria // Amò la Francia/ e mutò nome in // Marcel /ma non era francese/ e non sapeva più/ vivere /nella tenda dei suoi/ dove si ascolta la cantilena/ del Corano/ gustando un caffè». «I suicidi miei coetanei – ha scritto Ungaretti – si tolsero la vita per ragioni profonde, perché si sentivano lontani dalla loro civiltà, senza potersene interamente staccare, e senza poter interamente appartenere a un’altra. Altri furono suicidi – continua Ungaretti – per quella disperazione di chi, nato e cresciuto all’estero, si senta sradicato dalla sua terra, e senta che in essa difficilmente potrebbe rimettere radici, e che in nessun altra terra potrà mai mettere radici. È un’angoscia dalla quale non è immune la mia poesia».

Intanto continuano le sue conoscenze con artisti e pittori che gli aprono nuovi orizzonti. (…)

A Milano incontra Carrà e Barilli. Il titolo di studio per poter insegnare il francese lo aveva conseguito a Torino sotto la guida del professor Arturo Farinelli, che Ungaretti non dimenticherà mai per la sua gentilezza. A Milano in quell’anno 1915 scrive alcune poesie che saranno pubblicate da Lacerba, entrando poi a far parte del suo canzoniere. Una di queste poesie è intitolata Chiaroscuro: «Anche le tombe sono scomparse // Spazio nero infinito calato/ da questo balcone/ al cimitero // Mi è venuto a ritrovare/ il mio compagno arabo/ che s’è ucciso l’altra sera…».

Ungaretti resta soldato dal 1915 al 1918. In un primo tempo, dopo la visita medica che lo rende per ora non idoneo alla guerra, è assegnato all’ospedale di Biella nel 1915. Va poi in trincea e di nuovo circa un anno dopo si allontana dalla prima linea per frequentare il corso di Allievi Ufficiali, cui ha diritto in quanto in possesso del diploma di insegnante di francese conseguito a Torino. Come conclusione del corso viene dichiarato “inetto al comando”. Ungaretti perciò rimane con la divisa di soldato e torna in trincea. È contento di essere stato dichiarato “inetto al comando”, perché i suoi rapporti con gli altri non sono di comando e di obbedienza per lui, ma sono di fraternità, di eguaglianza, di verità: «Di che reggimento siete/ fratelli?».

All’inizio di novembre del ’15 Ungaretti scrive a Carrà dicendogli che sta partendo per il fronte, andrà sul Carso. Fa una dura esperienza con la trincea: «Stamane mi sono aggirato per questi budelli, c’è una fila ininterrotta di uomini stesi in lungo addosso a una parete, rasento l’altra per passare, la sola luce delle feritoie: un uomo era di feritoia, in feritoia il fucile imbracciato, cercando la preda, in certi punti i nemici sono a tre metri, ora riposano e c’è una gran quiete». Traggo questa citazione dalla cronologia curata da Carlo Ossola per la seconda edizione del “Meridiano” che comprende tutte le poesie. «Il Carso – ha detto Ungaretti quando fu festeggiato a Urbino – è la società. È una società umana, una società tragica, una società di guerra, ma è una società umana… L’incontro con gli altri uomini per me avviene sul Carso, avviene nel momento del sentimento di umiltà, di disperazione, di onore e di necessità di aiuto, di comunanza nella sofferenza. Il senso della comunanza nella sofferenza. Come fratelli li ho sempre sentiti, come fratelli gli uomini, fin fa bambino: questo sul Carso diventa veramente il tema, diventa l’ossessione, diventa la verità».

Prima del ’16 Ungaretti ha scritto alcune poesie che non è facile datare: questa, Agonia, è certamente stata scritta tra il ’14 e il ’15 ed è importante anche perché disegna un impegno di vita che il poeta ha sempre mantenuto: «Morire come le allodole assetate/ sul miraggio // O come la quaglia/ passato il mare/ nei primi cespugli/ perché di volare/ non ha più voglia // Ma non vivere di lamento/ come un cardellino accecato». Il comportamento di vita, per giusto rovesciamento, è subito individuato dal poeta nella morte: nel modo di morire. Vale la pena di morire dopo aver speso la vita per un’idea credendo in qualche cosa da raggiungere anche se quello che si voleva raggiungere era impossibile o utopistico o sbagliato: “miraggio”. Ed anche è giusto morire per stanchezza, vivere la vita con impegno, fare il proprio dovere e poi, d’improvviso, sentir le forze mancare, e cedere senza pentimenti, senza troppo dolersi. Così muoiono le allodole nel “miraggio”, così cade la quaglia «perché di volare/ non ha più voglia». In queste morti è evidenziata la ragione della vita. Ma non si può vivere prigionieri, senza libertà, ciechi, senza possibilità di guardarsi continuamente al di dentro o al di fuori, lamentandosi recriminando di rabbia «come un cardellino accecato».

Entriamo ora all’interno delle poesie del Porto sepolto. Si chiude questa raccolta con Poesiadel 2 ottobre 1916, dedicata a Ettore Serra (che poi farà pubblicare, come vedremo, il piccolo libro a Udine). C’è una importante dichiarazione di poetica: «… poesia/ è il mondo l’umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola/ è la limpida meraviglia/ di un delirante fermento // Quando io trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso». Inutile cercare invano pretesti per l’ispirazione poetica: c’è solo da guardare le cose del mondo, dell’umanità, della propria vita affidandosi alla novità e alla purezza di una ispirazione che riguarda molto da vicino tutti i viventi. Una parola non logorata dall’uso improprio, ma trovata con fatica e senza illusioni. Un «delirante fermento» è necessario.

Nel 1915 a dicembre Ungaretti scrive due poesie, una delle quali è bellissima e molto importante: si descrive la lotta tra la morte e la vita, scegliendo con sicurezza la vita. Si intitola Veglia: «Una intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d’amore // Non sono mai stato/ tanto attaccato/ alla vita».

Nell’impaginazione del Porto sepolto la prima poesia è dedicata a Moammed Sceab che, come abbiamo visto, si suicidò a Parigi dopo aver raggiunto l’amico Ungaretti. Anche della seconda poesia, Porto sepolto, abbiamo parlato perché, riferendosi all’antica visione del porto di Alessandria, Ungaretti ci dice che bisogna svelare i misteri che possono essere nel segreto. Senza poterlo pienamente penetrare, ma donando agli altri quello che si è potuto capire. Finestra a mare del maggio 1916 incomincia con la serie di frammenti lirici che tanto hanno contato per la poesia di Ungaretti e per i suoi lettori: «Balaustrata di brezza/ per appoggiare la mia malinconia/ stasera». Di Peso(giugno 1916) abbiamo detto a proposito di un piccolo fuoco aperto nell’anima del poeta a proposito del credo religioso. Il contadino cammina sicuro con la medaglia di Sant’Antonio che porta al collo, ma «ben sola e ben nuda/ senza miraggio/ porto la mia anima».

Perché? ha un inizio di grande profondità e di grande verità. «Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore disperso…», un ristoro che cercheremo continuamente in tutta la vita.

In una lettera a Papini del luglio del ’16 Ungaretti scrive: «Pensavo, c’è qualcosa di gratuito al mondo, Papini, la vita: c’è una pena che si sconta vivendo, la morte». Sono una creatura dell’agosto 1916: «Come questa pietra/ del S. Michele/ così fredda/ così dura/ così prosciugata/ così refrattaria/ così totalmente/ disanimata / come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede // La morte/ si sconta/ vivendo». Scritta un mese dopo la lettera a Papini.

Ecco l’inizio di S. Martino del Carso: «Di queste case/ non c’è rimasto/ che qualche/ brandello di muro/ esposto all’aria // Di tanti / che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto/ nei cimiteri // Ma nel cuore/ nessuna croce manca…».

23 settembre 1916, Attrito: «Con la mia fame di lupo/ ammaino/ il mio corpo di pecorella // Sono come/ la timida barca/ per l’oceano libidinoso». Ungaretti dichiara così le contraddizioni che sente in sé e che è disposto a sperimentare vivendo: sa che sono contraddizioni comuni agli uomini, e forse per lui la vita sarà tutta nella necessità di vivere alla ricerca di una armonizzazione o quanto meno di meditazioni tra le contraddizioni interne: si sente “lupo”, ma conosce le sue debolezze e inerzie di “pecorella”; sa di dover vivere navigando in modo precario, come una timida barca capace però di sfidare l’oceano “libidinoso”. In Pellegrinaggio Ungaretti parla di sé e dice: «… Ungaretti/ uomo di pena/ ti basta un’illusione/ per farti coraggio…».

Penso agli inni di guerra cantati anche da poeti grandi, penso a D’Annunzio: «Siamo trenta d’una sorte/ e trentuno come la morte…/ secco fegato, cuor duro…». Cosa dice Ungaretti: «Di che reggimento siete/ fratelli? // Fratello/ tremante parola/ nella notte/ come una fogliolina/ appena nata/ saluto/ accorato/ nell’aria spasimante/ implorazione/ sussurrata/ di soccorso/ all’uomo presente alla sua/ fragilità». È Soldato, 15 luglio 1916. Questo sentimento di fratellanza non è forse ancora comune, per ora è come una fogliolina appena nata. Ma la fratellanza ci sarà e inizia a sentirsi nella fragilità dell’uomo.

Ed eccoci alla poesia più importante, «una poesia che tutti conoscono ormai, la più celebre delle mie poesie – è la poesia dove so finalmente, in modo preciso, che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi non avrei avuto parola, e so che se non ci fosse stato l’Isonzo, non avrei avuto parola originale». (Questa citazione ungarettiana è presa dalla raccolta Saggi e interventi: Ungaretti commenta Ungaretti). Ecco I fiumi, il primo grande Inno della sua poesia. Seguirà nel 1925 La Pietà e nel 1943 Roma occupata. (…) Dalla Senna, dice Ungaretti, ha avuto la parola, dall’Isonzo la parola originale: «Questo è l’Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo…».

Vediamo ora come nasce l’idea della pubblicazione del Porto sepolto. Racconta Ettore Serra: «Io ero un vecchio ufficiale, un veterano a 25 anni. Un giorno mi trovai a passare per l’accantonamento di Ungaretti. Sull’aia erano i soldati che si fecero attenti e silenziosi. Uno di quei figlioli mi incuriosì pel suo fare trasandato e disattento, per il disordine della tenuta e della persona. Passeggiava lentamente con le mani in tasca, il berretto sbilenco, le scarpe sporche godendosi un po’ di sole, come una lucertola… Mi guardò ma non si sognò neanche di salutarmi e poi tornò a volgere lo sguardo su di me». Serra lo interroga e scopre che quel soldato è l’Ungaretti che ha scritto poesie su Lacerba. «Dalla sua miseria allora io vidi trasparire una signorilità, una nobiltà di quelle che nessun fango cancella e rifulgono anzi di più grande lume…». Ungaretti affida a Serra quello che ha scritto: poesie buttate giù col lapis, su foglietti, buste, cartoline in franchigia, ritagli di giornali. E Serra diventò l’editore di quel Porto sepolto uscito a Udine in 80 esemplari nel dicembre del ’16. Serra che data l’incontro alla primavera del’16 non poté certo avere tutte le poesie del Porto perché molte sono composte tra luglio e ottobre. Evidentemente si incontrarono più volte.

Ma l’idea della pubblicazione l’aveva certo Ungaretti da parte sua se, in una lettera a Marone (l’editore de La Diana) scriveva: «Mi potreste dire, voi che vi intendete di cose tipografiche, il prezzo di un volume, formato della “Diana”, carta ordinaria, caratteri di questo corpo circa, Il porto sepolto, un centinaio di copie numerate, un migliaio di versi. Sarebbe la raccolta delle mie cose che vorrei distribuire agli amici. Per carità non pubblicatemi questa confidenza, che voglio abbia la luce, per pochi amici e spiegare la mia raccolta». È tutto chiaro ma non si vede come si possa arrivare a un migliaio di versi. Anche sommando alle poesie del Porto sepolto quelle del ’14 o del ’15 si rimane molto, molto distanti dal migliaio di versi di cui parla Ungaretti.

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È nata una poesia nuova, tesa, drammatica, che non somiglia a nessun altra tra l’amore e il dolore, tra l’impegno per la vita e la meditazione della morte, priva di ogni retorica, di ogni parolona. Non ci sono punti esclamativi, se mai qua e là appaiono punti interrogativi: c’è la memoria e la preveggenza. Nasce dalla terra, sprofonda nella terra, ma si alza subito verso le nuvole, verso il cielo. È Il Porto Sepolto del 1916. È la poesia di Ungaretti, la sua grande poesia.
Thomas Merton dalla solitudine del suo eremo ha scritto: «Realmente io penso che Ungaretti è sconvolgente. La sua intensità ci annienta, e l’onestà con la quale egli rifiuta di battere in nessun altra cosa che sul suo chiodo, sul suo tasto».

(Da “Ungaretti e il Porto Sepolto”, Succedeoggi, Roma, 2016; la foto di Ungaretti vicina al titolo di apertura è di Ugo Mulas, ed è tratta dal libro di piccolo formato di Annalisa Cima, “Allegria di Ungaretti”, All’insegna del pesce d’oro, 1969)

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