Leonardo Tondo
Il punto sul Covid19

Il futuro? Nei corretti comportamenti

Sintomi, evidenze patologiche, cure, prospettive. A colloquio con Marcello Masala, infettivologo e intensivista all’Ospedale San Filippo Neri di Roma. Lavorando in prima linea, ha imparato a conoscere il virus che sta cambiando le nostre vite

Il Dottor Marcello Masala lavora come infettivologo e intensivista all’Ospedale San Filippo Neri di Roma. Lo intervisto sulla sua esperienza sul campo, nel trattamento di malati da Covid19.

Intanto, un cognome sardo. Come è arrivato a Roma?
Avevo completato la mia specializzazione in anestesia e rianimazione frequentando l’Istituto Oncologico Europeo di Milano grazie a una convenzione con la mia scuola di Anestesia. Mi ha sempre interessato la Rianimazione e soprattutto la sfida rappresentata dalle terapie antimicrobiche in area critica. Infatti, uno dei maggiori problemi dei reparti di rianimazione sono proprio le infezioni; un patogeno anche banale poteva facilmente annullare tutto lo sforzo compiuto dal rianimatore per salvare la vita a un paziente. Questa consapevolezza mi ha portato a un percorso formativo nel campo delle infezioni in ospedale e in seguito alla specializzazione in malattie infettive all’Università La Sapienza di Roma. Dal 2002 infatti vivo e lavoro a Roma, al San Filippo Neri, ospedale della Asl Roma 1. In passato il nostro ospedale era dedicato ai traumi, mentre oggi ci dedichiamo maggiormente a oncologia, malattie respiratorie, cardiologiche e ovviamente alla chirurgia generale e specialistica. Data la natura dell’ospedale e alla delicatezza dei pazienti, mi occupo sempre di malati critici ma con maggior attenzione alle problematiche infettive, alle insufficienze d’organo e allo shock settico. In questo periodo inoltre abbiamo risposto a questa esigenza importante di trattamento dei pazienti affetti da.

Che tipo di malati vedete giornalmente?
Il Covid19 (Corona Virus Disease) è una patologia nuova per tutti e la nostra è una delle specialità interessate. Quando arriviamo noi o meglio quando i pazienti arrivano a noi, la malattia si è già estrinsecata in modo aggressivo, talvolta in persone più fragili. Il quadro morboso è più gestibile quando il malato non è destinato all’“area critica”, cioè il luogo dove si arriva quando la malattia si è subito estrinsecata in modo violento con insufficienza respiratoria severa o per l’aggravarsi di comorbidità preesistenti.

Ci sono notizie positive?
Tante, soprattutto perché ne sappiamo di più. La prima è che sappiamo che il contagio è interumano ed è solo notizia aneddotica che possano esistere altre fonti di contagio. La malattia si trasmette per droplets, conosciute in italiano come goccioline di Flugge dal batteriologo tedesco che le scoprì alla fine del XIX secolo. Si tratta di un virus simile all’agente patogeno della Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) che interessò prevalentemente la Cina dalla fine del 2002 a metà 2003, determinando 8096 casi e 774 decessi. Dai numeri si capisce che era una malattia meno contagiosa ma più letale. Molto importante sapere che se uno mette una mascherina chirurgica e un suo interlocutore a distanza di un metro usa la stessa precauzione, la percentuale di contagio è solo dell’1,5%. Questo significa che la malattia si può prevenire con un’arma banale cioè si può interrompere la trasmissione delle goccioline. Altra notizia positiva è che il patogeno si denatura facilmente e rapidamente con disinfettanti banali, come alcol al 70%, ipoclorito di sodio (candeggina), ma anche con un vigoroso lavaggio delle mani con acqua e sapone. Osservo meno enfasi al gesto del lavaggio delle mani che invece rimane il baluardo della lotta al Covid19. Ancora una buona notizia è il decremento di ingressi in terapia intensiva che è efficacemente misurabile e tiene conto anche di quei malati su cui non abbiamo fatto nessun preventivo studio né con tampone né con la sierologia.

Quando leggo le statistiche giornaliere trovo che non sia adeguato fornire numeri assoluti e non la percentuale dei casi rispetto ai tamponi. In teoria se non si facessero tamponi, non ci sarebbero contagiati noti, e se ne facessero moltissimi la proporzione sarebbe molto diversa.
Ci sono tanti errori nella conta perché ogni regione ha un suo metodo nel sottoporre i pazienti ai tamponi. Non c’è uniformità di registrazione. Ci sono addirittura differenze fra provincia o ASL. Una registrazione sarebbe corretta a parità di tamponi giornalieri ma non è mai stato così. Inoltre un altro errore possibile può verificarsi nel riferire i numeri al commissario per l’emergenza. Per questo penso che il dato più affidabile sia il numero dei pazienti che entrano in terapia intensiva. Il numero dei pazienti deceduti è drammatico e ancora oggi sono tanti, abbiamo avuto 490 decessi per 55 giorni consecutivi, però dobbiamo considerare che molti sono pazienti entrati nelle nostre intensive più di un mese fa, pazienti che si sono complicati, in parte gestiti quando sapevamo davvero poco sulla malattia. Forse si può dire che siamo più bravi i primi di maggio che i primi di marzo. Ad esempio l’aspetto della malattia vascolare e le complicanze trombotiche spesso mortali che oggi sono note hanno fatto molte vittime tra i primi casi. Il Covid è nuovo per tutti; l’esperto non esiste, per noi sono stati preziosi i contatti umani e scientifici con i colleghi che drammaticamente hanno affrontato questa epidemia prima di noi, a Brescia, a Bergamo, a Codogno, a Pavia, in Veneto. La stessa letalità grezza è difficile da valutare, infatti noi calcoliamo questo numero sui casi confermati ma sappiamo che i positivi non censiti, senza o con pochi sintomi sono molti di più.

Sempre sul tema dei numeri, non dovremmo tenere conto di un altro dato, ad esempio la percentuale del 10% di deceduti sui casi confermati vuol dire anche che il 90% dei pazienti sopravvive?
La misurazione della letalità grezza è difficile, è influenzata da diversi fattori di confondimento, ad esempio molti pazienti terminali per altra patologia sono stati considerati come affetti da Covid, mentre sarebbero deceduti in ogni caso per altra malattia. Per molti malati è difficile separare le patologie pregresse dal Covid. Si tratta di persone che sono morte con il Covid e non per il Covid. La malattia colpisce anche i giovani ma più raramente in modo grave. Poi in Italia abbiamo una vasta comunità di persone anziane, tanto che l’età delle persone decedute nel nostro Paese è di due decadi superiore rispetto a quella della provincia di Hubei dove la malattia è iniziata. Una stima verosimile può prevedere un 45% dei contagiati che supera la malattia a casa, un 45% che richiede un ricovero in un reparto di pneumologia e un 10% che va in terapia intensiva.

Cercando di non scatenare forme di ipocondria nelle persone, quali sono i sintomi a cui prestare attenzione?
Due sintomi tipici che indicano la presenza di malattia ma non sempre presenti sono la disgeusia e l’anosmia, cioè la difficoltà a riconoscere i sapori e gli odori. Molti pensano di avere una sindrome influenzale mentre si tratta di Covid. La febbre è quasi sempre presente, la tosse direi al secondo posto come frequenza. Il sintomo più allarmante è la dispnea, cioè la difficoltà di respiro legata a una polmonite interstiziale, per non essere troppo tecnici una infiammazione di entrambi i polmoni. Questo è il quadro morboso più serio ed è quello che porta al ricovero in intensiva, e purtroppo talvolta con esito infausto.

Che ne pensa del virus sfuggito da un laboratorio?
Finché non ci sono prove concrete rimane una chiacchiera, peraltro il Sars-Cov2 ha la sequenza genomica di un virus animale e i salti di specie sono sempre esistiti.

Quale criterio si usa per effettuare i tamponi?
Come dicevo, il criterio è diverso per ogni regione. All’inizio si sottoponeva a tampone solo chi si fosse esposto a un caso certo, oggi si esegue su chi presenta sintomi compatibili, soprattutto se il corteo sintomatologico sembra impegnativo. Il tampone non è un buon test di screening per la sua una bassa sensibilità e cioè è possibile che un malato sia negativo al test, e i falsi negativi purtroppo non sono rari. Per noi, in terapia intensiva, se viene un malato con febbre, anche modesta, e ha una lesione polmonare interstiziale tipica, si tratta di un malato con Covid, tutti i pazienti vengono comunque assistiti da parte del personale con dispositivi di pronto intervento adeguati a prescindere dalla diagnosi d’ingresso.

Ma allora la diminuzione delle persone in intensiva è un segno di un miglioramento delle cure.
Questo è un segno anche del miglioramento delle cure, ma anche che la malattia è in defervescenza per numero di casi. Sicuramente rispetto alla fase iniziale non lasciamo le persone a ‘cuocere’ a casa con la febbre alta e con sintomi di rilievo. Noi non mandiamo indietro mai nessuno e stiamo molto attenti anche a quei casi con sintomi meno clamorosi. Alcuni farmaci non hanno alcun significato mentre altri sembra ne abbiano molto ma le sperimentazioni sono tutte in corso. Sicuramente terapie non tardive possono essere di grande aiuto e possono migliorare il risultato finale.

La minaccia del virus è sopravvalutata o sottovalutata?
Non è sopravvalutata. Che colpisca solo gli anziani e fragili è un’affermazione che può rassicurare solo un nazista e peraltro non del tutto vera. Non è da sottovalutare. Personalmente starei molto attento alle riaperture non controllate perché, come dice il professor Galli, è meglio vivere con pezze sul sedere che morire in una bara dorata. Le regole per il distanziamento sociale devono essere ferree. Non può entrare nessuno in una libreria o in un qualsiasi negozio senza mascherina, gli ingressi devono essere contingentati in modo da garantire il distanziamento. La nostra vita è cambiata per sempre, almeno finché avremo un vaccino efficace. Ripeto, si dà poca enfasi all’igiene delle mani che invece è fondamentale: la porta per il virus sono le mucose respiratorie e oculari.

Notizie positive sui trattamenti?
Tutte le terapie sono in fieri. Non abbiamo un vero farmaco contro il Covid19 ma sappiamo come gestire meglio la malattia. Così, certi farmaci ci possono aiutare e vanno sospesi solo alla presenza di effetti collaterali. Bisogna avere pazienza, una dote non troppo nota tra i rianimatori che tendono a prendere decisioni molto rapide; abbiamo imparato a toglierci il vecchio camice che ci portava a cercare i miglioramenti rapidamente, per renderci conto che i tempi di guarigione di questa malattia sono lunghi e dipendono dall’integrazione e modulazione di fattori infiammatori, immunitari e alla guarigione dei tessuti coinvolti. Nelle fasi iniziali si possono usare alcuni antivirali che si usavano per l’infezione da Hiv, però il danno non è legato a un effetto diretto del virus, quanto all’infiammazione che provoca, per cui l’efficacia di questi farmaci è da provare, empiricamente direi che sono armi spuntate.
Inoltre somministriamo un antimalarico con azione antinfiammatoria, come la idrossiclorochina ed eparina per ottenere un effetto anti-infiammatorio e anti-tromobotico. La malattia spesso induce una vasculite, una lesione infiammatoria dell’endotelio vascolare, tanto che i pazienti a volte avevano un esordio con embolia polmonare o con infarto proprio a causa di questa flogosi. Poi usiamo gli steroidi (cortisonici) che hanno amici e nemici. Io ne sono amico, gli steroidi li diamo per il loro effetto immunomodulatore, anche se sembrerebbe paradossale perché hanno anche un effetto immunosoppressore. E poi c’è il tocilizumab, un altro potente immunosoppressore, antagonista della interleuchina 6, a cui risponde bene circa un 30 per cento dei pazienti, peraltro non sappiamo perché. Sicuramente la Il6 è una delle citochine chiave nella risposta al virus e anche utilissima insieme a Pcr (proteina c reattiva) e ferritina per seguire l’andamento della malattia.

Che ne pensa del plasma iperimmune?
Anche su questo per ora non abbiamo risultati da sperimentazioni; viviamo del report di chi lo usa. Noi stiamo iniziando questo percorso e sicuramente è un arma in più, ma chiarisco che si usa solo sui malati e non ha alcun significato profilattico. Non va confuso con un vaccino.

Tra operatori e intensivisti italiani, vi scambiate informazioni?
Esiste un gruppo italiano chiamato Giviti (Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva) e per tanti martedì di seguito abbiamo frequentato dei webinar da tutta Italia scambiandoci opinioni e cercando di far parlare quelli che erano alle prese con il problema direttamente. I medici di pronto soccorso sono stati determinanti per farci capire strategie diagnostiche e percorsi.

Perché i media non parlano di questo gruppo e voi non siete mai invitati dalle trasmissioni?
L’anestesista lavora nell’ombra e non siamo tanto avvezzi ad andare in tv e poi il nostro lavoro è molto tecnico ed è difficile da capire così come può esserlo da spiegare.

Previsione: fra tre o sei mesi che accadrà?
Intanto c’è da sperare nella sintesi di un vaccino in tempi non lontani. In ogni caso le previsioni sono buone se ci comportiamo bene e non buone se così non sarà.

Ho da poco visto un vecchio film, Contagion, che più o meno descriveva quello che sta accadendo adesso con il corona virus. Il film termina con il problema planetario di vaccinare 7 miliardi di persone. Che ne pensa?
Contagion è fatto bene. In realtà non sarà necessario vaccinare tutti, vaccinare sanitari e persone fragili dovrà essere la prima misura, e il virus smetterà di circolare quando si raggiungerà una copertura efficace. Poi le malattie non sempre hanno un andamento noto e prevedibile, spesso gli interventi sociali sono di impatto quanto i trattamenti farmacologici. Ad esempio la tubercolosi andò in defervescenza prima della sintesi della isoniazide, quando furono migliorate le condizioni di vita, la diagnosi e si capì l’importanza dell’isolamento respiratorio.

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