Alberto Fraccacreta
A proposito di “Virginia nel cassetto”

La scelta di Virginia

Stefano Biolchini racconta la storia a intarsi di un giovane alla ricerca delle regioni di vita di un'ava, Virginia, reietta nella Sardegna del Ventennio. Un romanzo ricco di suggestioni e passioni, nel quale due vite lontane finiscono per riunirsi

Si potrebbe iniziare dicendo che quella di Stefano Biolchini, giornalista cagliaritano del Sole 24 Ore, nel suo romanzo d’esordio Virginia nel cassetto (Cafféorchidea, pp. 250, € 18, segnalato al Premio Campiello dalla giuria dei Letterati), sia una vera e propria mise en abîme, una storia nella storia o, se si vuole, secondo la terminologia tecnica, una raffinata narrazione a “incastonatura”, “intercalare”. Al modo di una scatola cinese, si assiste al continuo avvicendarsi di personaggi nell’atto di raccontare: ça va sans dire, miniature di sé stessi nell’identico viluppo di raccordi interstiziali, di esistenze collegate da lievi e filamentosi tessuti connettivi. Con illustri predecessori come in Les faux-monnayeurs di Gide e nella Recherche proustiana, il protagonista del libro e narratore autodiegetico, Andrea Corsini — cognome dal sapore sveviano-pirandelliano, dunque legato a una sfera psicologica di singolare ampiezza —, ha intenzione di scrivere una memoria sulla zia di suo padre (morto suicida), pian piano che ne conosce la vicenda, i risvolti tragici, le atmosfere (la Sardegna, l’Italia fascista anni Venti), i cupi travagli familiari e, in particolare, il segreto che avvolge la sua persona. Segreto che Andrea apprende dall’anziana prozia Viola, ancora in ghingheri e contrassegnata da un’erre arrotata simbolo di provenienza del ceto aristocratico a cui anche il ragazzo appartiene.

A causa di un giovane e inverecondo homo novus della società sarda, Dante Valdemontis, Virginia fu esposta alla vergogna pubblica e, secondo le rigide regole arcaiche, «il secolare onore della famiglia che aveva compromesso, esigeva un unico riscatto: l’oblio, quello vero e totale, sarebbe caduto su di lei». Una sorta di damnatio memoriae che taglia come un’ascia la vita della donna. Qui il referto glaciale delle sue peripezie — ancora stilato con pari amarezza e precisione da Viola — assume i tratti di una sempre più feroce novella tozziana (mentre al di fuori del quadro intranarrativo esplode la contemporaneità creando un efficace cortocircuito tematico-linguistico): l’addio alla famiglia, il duro lavoro, i sogni di fuga in Francia sino alla rottura da parte di Valdemontis dell’unica «promissa» che Virginia gli aveva ingiunto di mantenere. Presto la situazione precipita e arriva a un punto di non ritorno.

Passo dopo passo, però, Andrea capisce che il contributo al ricordo dell’ava è quello di «togliere il velo al suo fantasma, raccontare la sua vita che era un incrocio d’algoritmi infiniti». Quella ragazza di primo acchito ribelle e affascinante andava compresa nelle sue variazioni tonali, nelle sue screziature interne, per far sì che nulla della sua sofferta personalità andasse perduto: e soprattutto perché anche Andrea trovasse, come in uno specchio d’acqua la cui superficie trema in cerchi concentrici, la sua identità.

La storia di Virginia — con quel nome da monaca di Monza eliso dal Manzoni e riesumato da Testori — diviene persino lo spettro interpretativo, la cartina al tornasole per leggere meglio, senza falsi pudori, un’intera mentalità sociale (non soltanto quella insulare ovviamente, ma universale), ricca di orgogli e cupidigie, venata di tortuosi sbarramenti del cuore, dominata dall’impossibilità del perdono e della piena relazionalità. «E già allora, bambino, percepivo che a gocce lente instillava in me, il suo erede maschio, quell’attaccamento bello e malsano che in Sardegna tramuta i proprietari terrieri in una casta orgogliosa, prigioniera di intere lande vaste e avare, che per eredità ancestrali erano inalienabili e prive di qualsiasi valore. Ed ero consapevole di come nei miei ricordi la terra di quell’Isola si trasformava nel vettore più familiare per ricondurlo a me. Lo sentii con la pelle ed era quasi un mantra a cui non potevo sfuggire».

Significativa è la policroma lingua utilizzata da Biolchini: un robusto impasto di francese (gran parte del romanzo è ambientata a Parigi), sardo ed elegante italiano (con frequenti sconfinamenti in altre lingue, tra cui l’ebraico) che rende la prosa una lussureggiante pianura dai diversi (gaddiani) frutti.

L’intrico interiore di Virginia e di Andrea non ha un epilogo scontato: la scorza emotiva che quest’ultimo scorge nella difficile linea spirituale della sua parente, è la stessa da cui anch’egli, fragile e orgoglioso, si sente pervaso. Ma ad entrambi si confà — più di ogni altra formula — ciò che disse Michelangelo, il figlio di Virginia, in una circostanza: «Un unico evento non può significare una persona per intero».

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