Tina Pane
Riletture in quarantena

Ritorno a Dessì

“Paese d'ombre” di Giuseppe Dessì, 1972, è romanzo storico su una comunità contadina della Sardegna tra Ottocento e Novecento che vive quasi in simbiosi con la Natura. Un rapporto che noi abbiamo perso definitivamente

La casa nasconde e restituisce, qualche volta regala. Può essere una tazza, una foto, una penna, a volte un paio di scarpe o una maglia, può essere un bene più prezioso come un libro. È quello che mi è accaduto la settimana scorsa, quando ho trovato un libro, regolarmente sistemato sugli scaffali della libreria da chissà quanto tempo. Un libro con la copertina rigida, l’aria usata e la sorpresa, all’interno, della firma di una cara amica. Era, abbiamo ricostruito al telefono e tramite foto su WhatsApp, un libro prestato tanto tempo fa, ma non letto e neppure restituito.

Il libro si chiama Paese d’ombre, l’autore è Giuseppe Dessì, e ho iniziato a leggerlo senza saperne nulla, poiché non vi era una quarta di copertina ma solo una dotta e lunga introduzione che ho saltato a pie’ pari, assumendo come unica garanzia che avesse vinto il Premio Strega nel 1972.

Il paese d’ombre è la Sardegna della seconda metà dell’Ottocento e poi dei primi del Novecento, una terra che ha subìto l’unificazione col continente, e la patisce molto più di un’alluvione o di una piena di fiume che trascini case e cadaveri. Il personaggio principale, raccontato dall’infanzia fino al letto di morte, è Angelo Uras, un contadinello orfano di padre, che non per ambizione ma per intelligenza, buon senso e un inconsapevole afflato socialista, scrive la sua storia di emancipazione sociale ed economica, insieme a quella del suo paese d’origine, Norbio, un toponimo di fantasia che nasconde il paese natio dell’autore, Villacidro. Lo sfondo è la terra, intesa come patrimonio naturale, opportunità e condanna, natura benigna e matrigna, scrigno di insegnamenti e segreti, insomma la civiltà contadina, che negli anni della narrazione connota fortemente l’isola.

Un romanzo storico, dunque, ma soprattutto la storia di una comunità, ricca di personaggi, di intrecci, di eventi. L’autore è maestro a raccontare sentimenti e pulsioni, a dare a ogni personaggio spessore e retroterra, a creare anche nelle frequenti descrizioni della natura – una montagna minacciata dal disboscamento, una caccia al cinghiale, un temporale – il fuoco della tensione e dell’aspettativa.

Il ritmo della scrittura è avvincente e insieme controllato, il lessico esplora tutte le possibilità della nostra lingua, trova un termine per ogni arbusto, fruscio o sfumatura del cielo, e si contamina di qualche espressione del dialetto parlato nell’entroterra, diverso da quello che si parla a Cagliari, e ricco di reminiscenze spagnole. Le frequenti descrizioni dei paesaggi – oliveti, miniere, fiumi e ponti, strade e sentieri – non risultano mai noiose, piuttosto emozionanti come quelle dei sentimenti che muovono i personaggi o necessarie come certi dialoghi che fissano epicamente una svolta nella trama.

Insomma, un libro bellissimo, una scoperta, un regalo della casa al tempo rallentato della quarantena, che tra tante privazioni, ci concede il lusso di sollevare il velo e guardare quello che avevamo sotto gli occhi ma non vedevamo. D’altra parte, non siamo anche noi, in questa fase storica, un paese d’ombre?

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