Lidia Lombardi
Lo scrittore appena scomparso

Rileggere Arbasino

Tra le opere di Alberto Arbasino, "La bella di Lodi" è sicuramente un romanzo da riscoprire: per la lucidità con cui ritrae un pezzo fondamentale della storia recente d'Italia e per come descrive una terra oggi più che mai nell'occhio de ciclone

Ci sono tre buone ragioni, mi pare, per leggere o rileggere La bella di Lodi. Prima di tutto, l’omaggio ad Alberto Arbasino, scomparso a fine marzo privandoci di una intelligenza scintillante e rutilante, di una signorilità rara, anche nei decenni passati (era del 1930, dunque comincia ad essere conosciuto alla fine degli anni Sessanta), di una eccentricità di interessi e conoscenze mai vacua, anzi in fondo con un centro di gravità permanente, l’identikit dell’italiano. Il secondo motivo è che in questo romanzo breve – che ho letto nell’edizione Adelphi del 2002, ma che uscì come racconto  su Il Mondo nel 1961, diventato film un anno dopo per la regia di Mario Missiroli, pubblicato in forma di libro nel 1972 – c’è la fotografia del boom economico di un territorio in questi giorni presente nelle cronache dal coronavirus, ovvero l’antefatto del groviglio di attività imprenditoriali  (e di contatti interpersonali) che ha fatto da brodo di coltura dell’epidemia. Il terzo, al secondo collegato, è che ora stanno scomparendo, falcidiate dal virus, le persone che quell’exploit hanno generato, con la loro solidità e con il loro pragmatismo, con l’attitudine ad azzardare pur di riuscire, con la genialità di prodotti da scaricare su un mercato che aspettava soltanto quelli. Insomma, come leggiamo spesso, la generazione appunto degli anni Trenta, rampante nei Sessanta/Settanta, capace di farsi le ossa e di prendere il volo. Uno di loro? Sergio Rossi, il raffinato produttore di scarpe emiliano morto l’altro giorno. Il padre nella sua bottega era calzolaio su misura, lui imparò il mestiere a 14 anni e andava a vendere sandaletti e décolleté su un banchetto allestito lungo la riviera romagnola, dove si cominciava a prendere l’abitudine di fare le vacanze.

La bella di Lodi del titolo è Roberta (nel film le dà il volto Stefania Sandrelli), appartiene alla ricca borghesia del latifondo, vive in una grande villa accanto alle stalle dalle quali esce il latte per la industria casearia di famiglia, tenuta per le briglie soprattutto dalla nonna e da lei, in una sorta di matriarcato sveglio a contabilizzare le cedole emesse dalla banca, l’andamento della Borsa, la possibilità di diversificare il patrimonio acquistando magari la fornace della zia Giuseppina, anche lei col fiuto per gli affari. Va in vacanza a Saint Moritz, Roberta, al mare in Versilia, ha studiato inglese a Londra, snobba Milano, già troppo ovvia, sfreccia su una Mg rossa, s’aggiusta il foulard sul cappottino elegante, fuma sigarette estere e conosce tutti i ristoranti della zona dove si mangia bene, lei che ha una fame e anche un portafogli da uomo. Certo, non ha lo slancio visionario ed etico degli imprenditori che hanno legato il loro nome al made in Italy, che il suo formaggio non sia al top non le importa granché. Ed Arbasino, che è di quei posti, di Voghera, ne traccia il ritratto e ne descrive le vicende con sguardo irridente, sarcastico, accumulando, come in Gadda, parole in elenchi di oggetti, per esempio i totem del consumismo che monta («animali di pezza, borse di vimini, caschi marziani e da go-kart, anfore etrusche, secchielli fosforescenti, orsetti col miagolio, coccodrilli da appendere al cruscotto e al lunotto, fiori di plastica per la festa dei cuginetti») che occhieggiano dagli scaffali dei “Pavesini”, i punti-ristoro sull’Autosole appena inaugurata.

E però è illuminante il milieu socio-economico. Un territorio rurale nel quale i nuovi ricchi sono figli di quelli che erano gli affittuari dei grossi fondi agricoli, pian piano acquistati per gli eredi maschi, mentre alle femmine si dava la dote. Prima un appezzamento, poi l’altro, una sorta di feudo dove avviare l’attività, «nel giro tra Lodi, Sant’Angelo, da dove viene la Santa Cabrini, che era una tremenda, e infatti nella zona si usa ancora un modo di dire – cattivo come la Cabrini -, Codogno, Piacenza, Casale, cioè Casalpusterlengo, dove si va a fare il mercato due volte la settimana, il lunedì e il giovedì».

Impareggiabile il capitolo della festa delle nozze d’oro dei nonni (Roberta e il fratello goccia d’acqua hanno perso presto i genitori). Col via vai dei camerieri che recano i vassoi di Alemagna, l’aperitivo in giardino, l’arrivo delle zie e zii di tutto il comprensorio intorno, con i completi di seta, le macchine a far polvere sul ghiaino, la fiera delle vanità e del conformismo egoista. La lingua scivola via in un parlato vivido anche quando descrive, con il vezzo ripetuto di quel dialettale “arda”, al posto di “guarda”. Roberta s’annoia senza rendersene conto nel tran tran delle serate con gli amici in qualche villa fatta riaprire per la grigliata e il risotto. Senonché una domenica pomeriggio incontra Franco, meccanico, uno «brutto/bello dritto/stronzo coi capelli lunghi e le braccia grosse vestito come viene viene». Un proletario, però con l’appeal sessuale. E finiscono a letto, e a rivedersi sui motel in autostrada, a cena negli autogrill, nelle officine sul raccordo. Lui le ruba i gioielli e scompare, lei lo fa arrestare, poi però lo rivede, si prende una sberla e ancora il richiamo del sesso li intriga, lui sparisce con la vettura fiammante di lei…Oltre ai corpi li cementa l’intento di comprare un garage, un’officina, far più soldi, in una Bassa Padana che è tutta un gorgogliare di progetti.

E l’altalena degli incontri e degli scontri diventa nelle pagine di Arbasino una sorta di diario letterariamente sperimentale, sprazzi di situazioni, flash allusivi ed elusivi, due righe per capitolo, mentre l’autore già abbandona l’impianto naturalistico dell’avvio. Bagliori che però illuminano quanto lei è diversa da lui. Ma che importa, ci si incanala in un happy end di convenienza. Sposalo, suggerisce la nonna affarista, un uomo in più e così ruspante serve, in azienda.  Lei glielo dice mentre guardano dal balcone d’albergo il Canal Grande, a Venezia, fumando due Muratti , lui con la gamba ingessata perché è finito contro un albero guidando la Mg rossa. E il garage? chiede Franco. «Ah, se è per quello lo facciamo su nuovo a casa nostra, a Lodi!».

Già, a Lodi. Dove tutto è cominciato.

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