Giuseppe Traina
A proposito de "La notte della civetta"

Sicilia senza santini

Piero Melati ha scritto una sorta di controstoria della Sicilia mescolando letteratura e cronaca (di mafia) con l'obiettivo di cogliere un tratto fondamentale dell'identità italiana. Quello sul quale anche Sciascia e Falcone si divisero

Un siciliano come me non può leggere La notte della civetta di Piero Melati (Zolfo Editore) senza sentirsi sempre profondamente turbato, a tratti sconvolto, e proprio per questo grato all’autore, parimenti siciliano; il quale – nel mettere davanti al lettore uno specchio impietoso – gl’impone di non rintanarsi nei sofismi, di cui i siciliani sono da sempre esperti, e di prendere atto che non c’è avvenimento ricordato o riflessione contenuta nel libro che non lo chiami in causa. D’altra parte, se è vero che la Sicilia è l’inconscio dell’Italia (come l’autore afferma già a pagina 16, ed è un aforisma molto convincente), lo stesso discorso varrà per il lettore non siciliano: a ennesima conferma di quanto avesse ragione Leonardo Sciascia quando creò la metafora della linea della palma e del caffè ristretto che risale la penisola, che l’ha del tutto risalita.

Non sto ricordando casualmente Sciascia, perché Melati si confronta spesso con la sua ombra, fin dal titolo del libro; e parallelamente si confronta con un’altra ombra siciliana assai ingombrante, quella di Giovanni Falcone. Per poi raccontare, in un capitolo importante, il loro unico, deludente incontro: narrazione che non credo manderà in estasi né gli adoratori della memoria di Sciascia né quelli della memoria di Falcone, perché Melati ha adottato, in tutto il libro, un punto di vista alieno dall’edificazione di santini. E tutti sappiamo che su certi slogan (antimafia, garantismo, martirio, professionisti dell’antimafia, profezia etc.), precostituiti e buoni a tutti gli usi (anche i peggiori), ci si è scontrati in passato e ci si scontra ancora oggi, soprattutto in Sicilia: Melati vuole ricordarci, e ci riesce con scorbutica sobrietà, che quell’incontro fu soprattutto un’occasione mancata, un’occasione in cui due intelligenze sopraffine – capaci di fare, ognuna nel suo campo, il bene della Sicilia e dell’Italia – non si capirono e perciò non riuscirono a congiungere positivamente i loro rispettivi campi d’azione.

D’altra parte, il libro di Melati è un catalogo raggelante di altre occasioni mancate che, per dirlo in maniera riassuntiva, l’autore spiega con la mancanza di volontà (da parte di tutti i siciliani) nel dare un altro finale al Giorno della civetta (dunque alla loro volontà di sprofondare nella “notte della civetta”). Melati si riferisce a un aneddoto abbastanza conosciuto ma che vale la pena di ricordare: mentre a Partinico si completavano le riprese del film che Damiano Damiani ricavò dal romanzo di Sciascia nel 1967, un ragazzo chiese al regista di «riscrivere il finale. Così com’è, dice, è troppo favorevole alla mafia. Quel ragazzino, ha raccontato il giornalista Amedeo La Mattina, è Ninnì Cassarà, il futuro ‘sbirro’ cacciatore di mafiosi» (p. 35). Una richiesta atipica per un siciliano, fatta da un siciliano atipico come il giovanissimo Cassarà.

Ed è proprio l’omicidio del vicequestore Cassarà – compiuto il 6 agosto 1985, pochi giorni dopo l’omicidio del commissario Beppe Montana – l’epicentro del libro e della riflessione di Melati: il quale ci rammenta che queste due morti non sono due delle tante morti nel rosario di vittime della mafia da sgranare senza distinzioni, come mero culto della memoria da rinverdire nelle occasioni celebrative ufficiali. Non lo possono essere perché ognuno di questi omicidi ha avuto una motivazione specifica: un messaggio da recapitare alla comunità mafiosa e alla società civile ma anche una convenienza immediata da tesaurizzare. E la morte di Cassarà, dopo quella di Montana, aveva come obiettivo la decapitazione di una piccola struttura interna alla polizia palermitana, indefettibilmente dedita alla cattura dei principali boss ancora latitanti dopo le confessioni di Buscetta, e che andava messa definitivamente in grado di non nuocere: obiettivo, hélas, raggiunto proprio alla vigilia di quel maxiprocesso la cui celebrazione, sostiene Melati, sarebbe stata accettata dalla mafia come male minore, in vista di un altro obiettivo importantissimo e a portata di mano: l’annullamento in Cassazione delle inevitabili condanne di primo e secondo grado (si contava, com’è noto sul giudice Corrado Carnevale: ma in questo caso qualcosa andrà storto!).

Il libro si snoda, dunque, intorno a quest’ossatura, per così dire, narrativa: e va detto che la ricostruzione dell’omicidio Cassarà, unico nella storia degli omicidi di mafia per le sue modalità esecutive, è portata a termine da Melati con una grande passione analitica, capace di avvincere perfino quel lettore che sia, come me, digiuno di balistica e privo di ogni attrazione per le armi da fuoco. Ed è in tale ricostruzione che la stoffa del cronista collaudato (da giovane, Melati ha lavorato per molti anni nella squadra de l’Ora, il glorioso quotidiano palermitano del pomeriggio) ha il sopravvento sul passo saggistico che il resto del libro mantiene costantemente.

Come recita il sottotitolo del volume, l’autore vuole raccontare «storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia»: nell’aggettivo “eretico” è nascosto un altro omaggio a Sciascia, ma è poi nella sostanza delle storie raccontate che il libro vuole, e riesce, a distinguersi dai tanti altri che, da una trentina d’anni, vengono scritti sulla mafia, l’antimafia e la Sicilia, ad opera di giornalisti più o meno competenti, di storici talvolta un po’ affrettati, di protagonisti dalla memoria non sempre limpida. Senza voler togliere al lettore il piacere di scoprirle da sé, almeno un paio di storie “eretiche” si possono ricordare in sede recensiva: una, appena lumeggiata, è quella della “leggenda” degli “squadroni della morte” interni alla questura palermitana e di come il giovane cronista Melati si confronti con essa; un’altra, ricostruita con grande commozione, riguarda la generazione di giovani siciliani distrutta dall’eroina, fra gli anni Settanta e il decennio successivo. E non saprei davvero quanti altri, prima di Melati, abbiano avuto l’onestà di ricordare che su quest’olocausto generazionale, altrove ampiamente testimoniato e ricostruito, in Sicilia invece è calata la nebbia e che l’unico che tentò di diradare questa nebbia fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici, prima di essere anch’egli ucciso dalla mafia, et pour cause.

C’è un leitmotiv che percorre il libro sotto forma di interrogativa indiretta: «Chi lo sa in che momento si era fottuta la Sicilia». La domanda ritorna e una delle risposte, forse la più persuasiva, è quella data dal giornalista Melati quando scrive che «La Sicilia si è fottuta quando le cose che scrivevamo ogni giorno sui giornali ci sembravano poi diverse e inammissibili quando si rientrava nella vita quotidiana». Un’autocritica dolorosa ma onesta, che ogni siciliano, dal proprio punto di vista lavorativo, potrebbe e dovrebbe fare, analizzando se e quando ha preferito giocare il gioco dei “motivi di opportunità” (che altro non sono che forme di opportunismo); o se e quando ha preferito sragionare sulla Sicilia “laboratorio” di inedite formule di governo o sul patrimonio turistico-culturale dell’isola, insuperabile quanto inservibile in termini di civile convivenza (queste ultime considerazioni sono farina del sacco del recensore ma ho il sospetto che non dispiacerebbero all’autore).

Fra ricordi, fatti di cronaca e riflessioni critiche e autocritiche, dunque, il discorso di Melati ci riporta alle domande di sempre, in particolare alla domanda posta dal viceré Caracciolo nel Consiglio d’Egitto di Sciascia: «Ma come si può essere siciliani?». Perché nelle ambiguità del crescere, in un quartiere popolare di Palermo, fianco a fianco il futuro mafioso e il futuro poliziotto, non c’è solo l’incanto narrativo di un romanzo di Santo Piazzese (si veda Il soffio della valanga, del 2002) ma c’è la tragica realtà di Ninni Cassarà e Pino Greco inteso Scarpuzzedda, il capomafia che lo ucciderà. Ma su queste tragiche corrispondenze e interdipendenze si gioca, appunto, la risposta alla domanda di Caracciolo. Leggiamo Melati: «Siamo tutti nel ciclo dei vinti. […] In questo borgo chiamato Sicilia, dove siamo prigionieri come le dita sono prigioniere della mano, in questa bolla inconscia della Storia, siamo tutti vinti. Vittime e carnefici. Sono caduti poliziotti e magistrati. Ma alla fine sono morti nell’inferno del carcere speciale del 41-bis anche gli aguzzini. Annichiliti pure loro. E collegati a noi, purtroppo, per via delle conseguenze dei loro atti sanguinari. […] Questa prossimità tra vittime e carnefici può confondere? Vi disturba?» (pp. 104-105).

Sicuramente disturba le anime belle dedite alla retorica e ai cerimoniali delle tante confraternite che sorreggono il tessuto occulto della vita siciliana (e di cui l’autore parla, ma il lettore avrebbe gradito che ne parlasse di più: magari in un altro libro, chissà?): perché, se ha ragione quando afferma che fra gli anni Settanta e Ottanta, prima cioè che Rocco Chinnici gettasse le basi del pool antimafia di Palermo, «Cosa Nostra poté costruire – in quegli anni e nel silenzio – una cosa molto, ma molto somigliante a un ‘regime totalitario’» (p. 167), Melati ci aiuta a prendere atto che in Sicilia, sotto il “narco-regime” della mafia, «i sogni di ogni ragazzo vengono inevitabilmente sporcati dai segreti che si consumano nell’ombra, dietro persiane di vecchio legno, barriere contro la luce del sole» (p. 109).

Siamo forse all’ennesima celebrazione dell’immobilismo e del trasformismo siciliani, non da molto revocati in dubbio da un libro fin troppo ottimista di Gaetano Savatteri? Non credo proprio: Melati si confronta con i miti letterari (certificati da Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia) ma ci dimostra che, al confronto con la spietatezza della realtà, tali miti letterari sono stati perfino indulgenti. Perché se è lecito ricordare, con orgoglio, i momenti di risveglio collettivo delle coscienze siciliane, i lenzuoli alle finestre e il grido dei parenti delle vittime, non si può, per onestà intellettuale, dimenticare che anche l’attuale momento di “tregua militare” dovrebbe richiamarci alla memoria la vittoriniana “quiete della non speranza”, se ha ragione Melati quando scrive, con cadenze stilistiche sciasciane, che «oggi la smemoratezza alligna dove si esagera in inflazione di inutile memoria, soprattutto quando l’esercizio della memoria stessa viene ridotto – come avviene – al rango di superficiale e sbrigativo ritualismo. O quando non venga addirittura delegato a comici e personaggi da avanspettacolo» (p. 144).

E allora, per concludere, se ha ragione Melati quando scrive che la Sicilia è «una terra dove i fatti traslano in leggende e dove la leggenda si traveste da fatto. E così ognuno, alla fine di questo sofisticato procedimento alchemico, potrà trarne il proprio tornaconto» (p. 205); se ha ragione quando si chiede «Come fa la storia della Sicilia ad essere separata dal resto della storia d’Italia?» e si risponde che non si tratta «di scrivere un’altra storia della mafia, si tratta di riscrivere la storia italiana, finalmente, con la mafia dentro» (p. 223) perché, appunto, la Sicilia è l’inconscio dell’Italia, il suo «giardino dei segreti e degli orrori» (p. 16); se tutte queste cose sono vere, allora la risposta alla domanda del viceré Caracciolo non sarà più «con difficoltà» ma dovrebbe essere: “con la verità e il disincanto”.

PS. Melati ha scritto, ovviamente, il libro prima dell’emergenza Coronavirus; io termino questa recensione con davanti agli occhi, su “L’Espresso” del 19 aprile, l’articolo di Federico Marconi e Giovanni Tizian in cui si racconta come i clan mafiosi siano pronti a slanciarsi sulle prede della crisi economica causata dal lockdown.

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