Riccardo Bravi
A proposito di "Marca francese"

Pagine alla francese

Il critico Massimo Raffaeli ha raccolto i suoi scritti sulla letteratura francese meno alla moda (o più controcorrente) da Céline a Modiano. Ne è venuto il ritratto di una cultura nella quale le contraddizioni rappresentano la vera ricchezza

Massimo Raffaeli è tra i più apprezzati critici letterari italiani: compaesano di Maria Montessori (Chiaravalle, Ancona), inizia la sua carriera al Manifesto per proseguire la parabola saggistica in altri giornali di grande tiratura nazionale: La Stampa, Venerdì di Repubblica (dove attualmente scrive), per non parlare delle riviste, radio e blog con le quali collabora altresì da lungo tempo: Le parole e le cose, Il Caffè illustrato, Alpha, alfabeta 2, Nuovi argomenti, insieme ai programmi di Radio3 Rai e della Radio Svizzera Italiana.

Dopo aver dato voce e risalto a scrittori lasciati talvolta a margine della letteratura italiana del Novecento (si pensi ad esempio al chiaravallese Massimo Ferretti, scoperto da Pier Paolo Pasolini, ma anche ai più famosi Carlo Betocchi, Primo Levi, Alberto Savinio e allo stesso Volponi), il lavoro critico di Raffaeli si volge in direzione transalpina: una direzione che però non segue un filo monologico – il critico si professa da sempre uomo di sinistra nonché militante comunista – ma che cerca al contrario di dialogare con quelle voci più intransigenti e reazionarie a cui la Francia ha dato i natali tra ‘800 e ‘900, riassunte nei nomi di Céline, Brasillach, Claudel, Georges Poulet, Crevel, Duvert.

Marca francese. Saggi e note 2004-2018, Vydia editore, 2019, pp. 206, euro 15,00 raccoglie una gran parte di questi scritti nell’arco di un ventennio. Il volume, diviso in sette sezioni (I. Céline II. Di alcuni classici III. Canaglie IV. Novecento V. Modiano VI. Tre scritti per Jaccottet VII. Cinema), narra, con la raffinatezza che è propria al dictus stilistico di Raffaeli, in maniera del tutto eccentrica, una vera e propria stagione letteraria: dedicata all’amico fotografo Mario Dondero (colui che si fece conoscere al grande pubblico europeo per aver fotografato a Parigi il gruppo di scrittori del Nouveau roman, l’immagine qui sopra), la raccolta trae ispirazione da altri critici, maestri di via della Francesistica, ai quali Raffaeli volge tutti i suoi ringraziamenti sin dalla premessa: «È vero semmai che resto debitore nei confronti di maestri e compagni di via al cui lavoro ho sempre assistito con ammirazione e con lo sguardo prensile di un apprendista, a partire dal poeta Giuseppe Guglielmi, la voce italiana di Céline, che nei miei anni bolognesi (nei pieni Settanta del secolo scorso) andavo a trovare nella sua casa di Santo Stefano con timore e tremore per scoprire infine una persona la cui generosità era così nativa ed eccedente da avere bisogno, per manifestarsi, di un diaframma di riserbo o di procurata distanza. Lo stesso debbo dire di un altro maestro, Gianni Scalia, nella cui estroversione, e cioè nel suo infinito dialogo socratico, si lasciava viceversa profilare l’intrapresa di “In forma di parole” (meglio e più che una rivista, una collana di libri) e perciò una apertura quadrangolare alla poesia quale pensiero delle lingue e nelle lingue, in re. Da sempre familiari e miei antichi creditori, peraltro, mi sono Nicola Muschitiello, allievo del grande Guido Neri, poeta e francesista finissimo, così come Fabio Pusterla, cui debbo fra molte altre cose la folgorazione di Philippe Jaccottet, e Antonio Prete che mi è stato mediatore non solo, ovviamente, di Leopardi ma anche di un redivivo Baudelaire e della profondità sapienziale di Edmond Jabès».

Insistendo su una prospettiva di analisi “periferica” («Il titolo scelto per questo libro, Marca francese, ha un senso duplice perché da un lato designa il proprio oggetto ma dall’altro segnala la collocazione periferica, si dica pure provinciale, di colui che lo scrive», chiosa l’autore, quasi a far da risonanza con la regione natia, le Marche, essa stessa periferica rispetto ai grandi centri turistici e finanziari italiani), l’intento del lavoro è quello di affrontare con maggior predilezione quel sostrato anti-cartesiano (o meglio: “rabelaisiano”, come lo definisce il critico stesso) che tenta di farsi spazio in mezzo a quegli autori (Sartre e Camus in primis) che costituirebbero già da tempo l’ossatura del canone letterario transalpino novecentesco. Non che non ci sia, in realtà, una parte dedicata ai grandi classici della letteratura francese decadente e simbolista, i quali vengono però riletti nel loro côté più reazionario, vuoi squisitamente anti-conformista (si vedano, in particolare, i due saggi dedicati a Verlaine e Rimbaud: “Verlaine reazionario” e “Rimbaudiana”).

E, per di più, non è nel solo solco della letteratura tout court bensì anche in quello della musica (la copertina raffigura infatti Serge Gainsbourg, uno dei massimi esempi della tradizione cantautorale d’oltralpe), soprattutto, e del cinema, da un’altra prospettiva, che il libro dispiega le sue lettres de noblesse: se la musica fa da sfondo al cadenzare della scrittura céliniana (col suo tipico ritmo ad impronta jazzée), rimane al contrario assopita in quella del premio Nobel Patrick Modiano, dove la memoria è il leimotiv che ne costituisce l’afflato; al cinema d’essai viene dedicata, invece, una intera sezione – l’ultima – nella quale i nomi di Renoir, Jean Vigo, Simenon e – last but not least – Bazin la fanno da padrone, lì dove lo sguardo di Raffaeli si fa nientemeno che teorico e al tempo stesso analitico.

Un libro sicuramente da leggere e meditare, scritto da un critico che nel suo non-engagement – cioè nella esplicita volontà di andare controcorrente rispetto ai soliti prodotti della letteratura engagée di matrice francese – dialoga in maniera eccelsa con grandi autori la cui profondità esistenziale – Edmond Jabès e, nello specifico, Philippe Jaccottet – resta ancora nascosta a chi è stato da sempre fautore di un cosiddetto pensiero à la page.

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