Teresa Maresca
Visite guidate

Lo spazio di Michelangelo

Girare intorno alla “Pietà Rondanini”, farlo, con l’immaginazione, risalendo al tempo in cui era esposta in una sala angusta, in una nicchia. Un luogo del nostro oggi che il Maestro ci insegna ad apprezzare

Pensando alla città dove vorrei andare quando avremo ritrovato la mobilità, per rivedere quel museo e quell’opera, subito ho pensato al Bellini della Frick Collection di New York, poi al Lambda di Oslo, il nuovo museo da pochissimo aperto con tutte le opere di Munch, alcune mai esposte. Ma mi accorgo che questi giorni di chiusura mi hanno disabituato a pensare in termini di lunghi spostamenti, e che il luogo dove vorrei andare è a pochi passi da me, nella mia città, a Milano. L’opera che vorrei rivedere però non è più dove vorrei che fosse, allora è meglio che me la immagini a occhi chiusi, dov’era prima.

L’opera è la Pietà Rondanini, ne ho già parlato su queste pagine al tempo del suo spostamento, in vista dell’Expo del 2015. È stata spostata al centro dell’Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco. Ironia della sorte, quel luogo di questi tempi è perfetto: in quella sala a metà del ‘500 venivano ricoverati i soldati spagnoli di guarnigione a Milano, ammalati di peste. Ma io vorrei ritrovare quella meraviglia immensa, bianchissima, nella piccola, buia e angusta Sala degli Scarioni, sempre al Castello, dove l’avevo vista per la prima volta e tutte le volte che ci andavo come in un pellegrinaggio della bellezza. In quell’angolo dietro un camminamento la vedevi all’improvviso, da sola, circondata dal buio e pareva emanare luce propria. Anche se potevi girarle attorno senza indietreggiare troppo, lei non appariva incombente, ma anzi sembrava una figura familiare, cosa che di solito le sculture di Michelangelo non ispirano, maestose e magnifiche come sono. Vorrei girarle attorno anche adesso, per capire che cosa mi accomuna a lei, qual è il nodo familiare che non oso neanche pensare di avere col grande maestro.

La Pietà Rondinini arrivò a Milano dalla collezione romana dei conti Sanseverino Vimercati. I milanesi, impoveriti dalla guerra, vollero acquistarla a tutti i costi, istituendo persino delle collette nelle grandi fabbriche, dove anche gli operai si tassarono per comprare la Pietà. Riccardo Bacchelli fu incaricato di scrivere il testo ufficiale di benvenuto, nel 1952: «Il sommo dell’arte si spoglia in essenzial vita dello spirito, in una preghiera d’uomo e d’anima, agli uomini e a Dio». Il testo era incentrato sul valore della scultura, ma anche sull’importanza di accogliere una così importante opera per una città come Milano, uscita dalle rovine della guerra. Bacchelli raccontò il viaggio in treno della scultura tra Roma e Milano, preceduto dall’esposizione presso la Galleria Borghese, visitata anche da presidente della Repubblica, Luigi Einaudi (uno scrittore, un grande presidente, gli operai che si tassano per la cultura. Ci pensate oggi?).

La sistemazione della Pietà Rondinini fu terminata nel 1956. L’allestimento venne affidato allo studio di architettura BBPR; furono realizzate nella sala degli Scarioni, originariamente più grande, due nicchie che volutamente la rimpicciolivano, «una esagonale, in pietra serena alle spalle della scultura, e una seconda in legno d’olivo dietro al visitatore, il quale, arrivando dall’alto si trova di fronte la parte convessa di quella in pietra serena e poi il capolavoro michelangiolesco». Qui la vide Henry Moore, lo scultore inglese che venne chiamato a registrare una trasmissione in cui racconta l’opera, girandole attorno. Questa trasmissione si trova facilmente sul web, in un video di appena 13 minuti che vale la pena di vedere, e a questa trasmissione facevo riferimento in quell’articolo di cinque anni fa.

Mi chiedo adesso, girandole attorno anch’io con la memoria, perché continuo a figurarmela nella nicchia stretta e scura, e perché sento la strana abbozzata figura scultorea così familiare. Non è la preghiera, non è la pietà a essere un nodo “familiare”: la preghiera non è da tutti, e la pietà per un Cristo morto o per tutti i cristi che muoiono con strazio delle madri, no, non è un nodo che si possa definire “familiare”. Familiare è una situazione in cui mi riconosco intimamente, per avere provato sulla mia pelle le sue manifestazioni, e così non è per me in questo caso, fortunatamente. Il tema della Pietà è un tema straziante, immenso, che ci riporta immagini dolorosissime e purtroppo quotidiane nelle foto di guerra, nei naufragi dei migranti, nelle file di camion che portano via le bare dei morti di virus. Ma non posso definirlo “familiare”. Allora non è il soggetto – immenso – dell’opera a essermi familiare, ma questo rimpicciolirmi quotidiano nella casa, questo chiudersi degli spazi, questi silenzi degli amici che non chiamano più così spesso perché non saprebbero cosa dire, tutti in attesa di quando si uscirà di nuovo a respirare senza paura di morire. La nicchia scura della sala in cui ritrovavo l’immensa bellezza del Maestro, quello spazio mi è oggi familiare, oggi che mi sento più sicura al chiuso, che Michelangelo il grande mi ricorda che lo spazio è solo una questione relativa.

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