Raoul Precht
Periscopio (globale)

Le lotte di Celan

Ricordo di Paul Celan, a cinquant'anni da suo drammatico suicidio nella Senna. La sua è la parabola di un poeta solitario e costantemente in lotta con la vita e il destino. Per questo le sue ricercate parole non hanno tempo

Un combattente. Ecco, malgrado la sua assoluta mitezza, la prima immagine che mi si affaccia alla mente nel pensare a Paul Celan, morto suicida nella Senna mezzo secolo fa, il 20 aprile del 1970. Un combattente che, arrivato a quasi cinquant’anni di vita – in novembre celebreremo infatti anche il centenario della nascita -, non ce l’ha fatta a continuare una lotta nella quale si sentiva sempre più solo e abbandonato da tutti. Vittima estrema e posticipata, se si vuole, di un olocausto che ha portato dentro di sé per tutta la sua esistenza di poeta.

In origine Paul Antschel (Celan è un anagramma della versione romena, Ancel, del cognome), era nato il 23 novembre 1920 a Cernauți, capoluogo della Bucovina settentrionale e all’epoca, dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, città rumena (oggi ucraina). Dopo la maturità si iscrisse alla facoltà di medicina di Tours, ma tornato a casa non poté più ripartirne a causa dell’annessione del suo paese all’Unione sovietica. Quando poi, nel giugno del 1942, esso fu occupato dai tedeschi, Paul, che per una mera casualità non era in casa al momento dell’arresto dei genitori, sfuggì alla deportazione e finì in vari campi di lavoro, mentre i genitori Friederike e Leo perivano entrambi nel campo di concentramento di Michajlovka. Particolarmente importante resterà per lui la figura della madre, che lo aveva avvicinato fin da bambino alla poesia tedesca, da Goethe a Hölderlin, da Rilke a quel Trakl che lascerà nella sua opera l’orma più evidente. Tornato in seguito nella città natale, nel frattempo di nuovo in mano russa, Celan decide nel 1945 di trasferirsi a Bucarest, ma perseguitato dal regime comunista raggiunge prima Vienna, dove pubblica le prime poesie con il titolo Der Sand aus den Urnen (La sabbia delle urne), e poi Parigi, dove si stabilirà permanentemente, iscrivendosi all’École normale supérieure (dal 1959 vi sarà lettore di lingua tedesca) e sposando Gisèle de Lestrange, pittrice e artista grafica di talento, nel 1952. Nello stesso anno esce la raccolta che più di tutte contribuirà alla sua fama, Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria), contenente fra l’altro la celeberrima Todesfuge (Fuga di morte).

L’anno successivo Gisèle mette al mondo un figlio che vivrà un solo giorno. A lei sarà dedicato il volume successivo, Von Schwelle zu Schwelle (Da soglia a soglia), del 1955, unico tentativo celaniano, sia pure sui generis, di “poesia impegnata”. Sempre nel 1955 nasce Eric, il secondo figlio. A Parigi, Celan prosegue intanto un’intensa attività di poeta e traduttore da diverse lingue – tradurrà fra gli altri Emily Dickinson, Mandel’štam, Blok, Esenin, Apollinaire, Ungaretti e Valéry – e subisce fortemente l’influenza del pensiero di Heidegger.

Con una giovinezza così dura alle spalle non può stupire troppo che Celan cerchi con puntiglio una voce inconfondibile che sia anche un modo di rapportarsi alla propria biografia. La prima lotta, forse la più logorante sotto il profilo psichico, è sempre quella che si combatte contro i propri simili. Celan dovette opporsi anzitutto al tentativo deliberato di distruggere l’uomo e il poeta perpetrato, dopo i nazisti, dalla Germania del dopoguerra, per decenni ancora compromessa con le vecchie strutture di potere, dove troppi simpatizzanti del regime nazista avevano potuto prosperare e continuare a occupare posizioni importanti nella società. Le resistenze all’avvento di una letteratura postbellica che rappresentasse una salutare soluzione di continuità rispetto agli anni del nazionalsocialismo furono ovviamente robuste, tanto in campo accademico quanto in quello giornalistico e critico.

E troppi furono anche i sedicenti critici e studiosi ai quali non sembrò vero di potersi alimentare, nei confronti di Celan e della sua poesia inclassificabile e irriducibile, di rigurgiti antisemiti nonché delle maldicenze della vedova del poeta alsaziano Yvan Goll, Claire. In tre diversi momenti, all’inizio degli anni Cinquanta e poi nel 1960 e 1962, la Goll gli mosse folli accuse di plagio, cercando, per invidia, per gusto della calunnia, per calcolo, di propalarle negli ambienti culturali tedeschi ed europei attraverso deformazioni e falsificazioni e finendo per nuocere anche alla figura del marito defunto (tradotto dallo stesso Celan), che oggi, anziché per i suoi meriti letterari – era un pregevole poeta, seppure minore -,  viene ricordato per un’affaire nella quale non ebbe alcuna parte.

Per fortuna, Celan fu difeso da poeti e studiosi del calibro di Marie Luise Kaschnitz, Ingeborg Bachmann, Yves Bonnefoy, Marthe Robert, Vittorio Sereni, che tentò una prima pubblicazione delle sue opere in Italia, e Peter Szondi, il quale gli avrebbe dedicato un approfondito e appassionato saggio, rimasto incompiuto. (Quest’ultimo, un amico che alle spalle aveva una storia personale di deportazione e fughe abbastanza simile alla sua, morirà appena un anno dopo di lui, a soli quarantadue anni, con le stesse modalità, gettandosi anch’egli nel fiume, ma a Berlino.) Altrettanto dolorosa sarà però per Celan l’incomprensione, di segno opposto rispetto a quella dell’establishment, ma alla fine non troppo diversa nei toni, dei rivoluzionari dell’epoca, i giovani autori del Gruppo 47: non essendo Celan un intrattenitore, nelle letture pubbliche che il Gruppo organizzava la sua poesia non brillava, si scontrava anzi con una difficoltà di decifrazione che la rendeva ostica e ispirava a crudeli prese in giro.

La seconda lotta riguarderà il divieto di poetare. In un certo senso, la sua poesia più famosa, Todesfuge, che diventerà per lungo tempo emblematica della sua poetica – tanto che a un certo punto Celan sentirà il bisogno di allontanarsene, considerandola non abbastanza sobria e fattuale –, è una risposta implicita al famoso monito di Adorno secondo cui occorreva arrendersi all’impossibilità di scrivere testi letterari, e in particolare poesia, dopo Auschwitz. A suo modo, con Todesfuge Celan dimostra il contrario, utilizzando la lingua degli assassini (che è tuttavia anche la sua), nuda e senza orpelli, per scrivere quella che forse è la più alta e toccante denuncia dell’olocausto che sia mai stata composta, restituendo una sorta di voce collettiva a tutte le vittime. Qui è direttamente la morte (“ein Meister aus Deutschland”, “un maestro proveniente dalla Germania”) a menare la danza macabra, e l’andamento quasi da filastrocca infantile della poesia ne dissimula bene la crescente tragicità, fino alla contrapposizione netta fra i capelli biondi dell’amata del soldato nazista e i capelli di cenere dell’ebrea uccisa nel campo di sterminio.

La terza lotta è quella contro la propria stessa lingua. Si potrebbe immaginare infatti che la famosa formula di Adorno debba applicarsi più che a ogni altra, per così dire al quadrato, alla lingua tedesca, stravolta dalla propaganda nazionalsocialista. Il coraggio dimostrato da Celan nell’insistere a scrivere proprio in questa lingua una poesia d’accusa, che è quella dell’ultimo testimone rimasto, senza che sia possibile alcuna riconciliazione, quando avrebbe potuto esprimersi con la stessa brillantezza in altri idiomi, come il rumeno, è quindi doppiamente encomiabile e significativo, ma al tempo stesso costituisce sicuramente uno degli elementi che hanno caratterizzato la sua poetica, spingendolo sempre più, con il passare degli anni – in particolare a partire dai versi brevissimi, spezzati e rarefatti di Sprachgitter (Cancelli di parole), che è del 1959 –, verso una quasi-afasia e verso il recupero della singola parola come un elemento fragile, sopravvissuto per miracolo alla furia della guerra e delle persecuzioni. Il suo tedesco è quello dell’ultimo ebreo rimasto in vita che continua a denunciare, senza flettere e stancarsene, la scomparsa, dal tessuto linguistico comune, di tutti gli altri locutori.

Un’ulteriore lotta che Celan deve affrontare è quella che mira a istituire un dialogo fra l’io poetico e un tu assolutamente necessario all’espressione. Nel discorso di ringraziamento in occasione del premio Büchner, nel 1960 – un ringraziamento peraltro quasi esitante e contratto, che mette in evidenza tutto il suo disagio nell’accettare premi da una società letteraria rispetto a cui si sentiva sempre più alieno –, Celan pronunciò le seguenti parole: «La poesia è solitaria. Solitaria e in viaggio. Chi la scrive, rimane con essa. Ma la poesia non sta forse proprio per questo, e quindi, qui, nell’incontro – nel mistero dell’incontro? La poesia vuole andare verso l’Altro, ha bisogno dell’Altro, ha bisogno di un interlocutore. Lo cerca, gli si rivolge». È un passo importante, questo, perché risponde implicitamente alle riserve dei critici che gli imputavano un eccesso di oscurità, di ermetismo e di enigmaticità – enigmaticità che per converso ne ha forse protetto la poesia dal deperimento legato alle mode passeggere -, indicando invece come proprio la poesia possa e debba essere, nelle sue più alte manifestazioni, il luogo dell’incontro con l’altro. Ma per far sì che questo incontro avvenga davvero, il linguaggio deve essere puro, non manipolato, e tener conto delle conseguenze della storia appena vissuta, senza alcuna cristallizzazione ideologica, nel segno di un realismo pieno e impietoso. Ne testimonia tutta la produzione degli anni Sessanta, a partire da Die Niemandsrose (La rosa di nessuno), del 1963, raccolta nel segno di Osip Mandel’štam in cui riemerge senza filtri la tragedia del secolo e che Celan stesso, in una lettera alla Bachmann, definisce come il documento radicale di una crisi. Se vale qualcosa, da qui in poi la parola è insomma sempre più una parola compressa, enucleata dal vacuo rumore del mondo e dalla corrispondente tentazione del silenzio – in definitiva, la parola guadagnata, o forse strappata, al silenzio, come nella poesia Argumentum e silentio, dedicata a René Char, e in tutta la successiva raccolta Atemwende (Svolta del respiro), del 1967.

Infine, non può essere certo taciuta la lotta contro Dio. Nel paragonare Celan a Hölderlin e al miglior Rilke, il critico George Steiner, da poco scomparso, scriveva in Nessuna passione spenta che “un solo poeta, Paul Celan, è riuscito a esprimere in modo adeguato la ‘Nessunità’ che era Dio ai tempi dei forni crematori.” Non sono rari i casi in cui l’interlocutore di cui parlavamo coincide con il Dio degli ebrei, e Celan gli si rivolge con asprezza. Nella poesia Psalm (Salmo) scrive i seguenti versi, di una compattezza e incisività senza pari: “Gelobt seist du, Niemand. / Dir zulieb wollen / wir blühn. / Dir / entgegen.” (Nella traduzione di G. Bevilacqua: “Che tu sia lodato, Nessuno. / È per amor tuo / che vogliamo fiorire. / Incontro a / te.”) La versione italiana è nel complesso corretta, ma le ambiguità di Celan sono portentose e difficili da rendere in traduzione. Ragion di più per sottolinearle, come fa anche Steiner. L’ironia dell’accostamento fra il termine Nessuno, la lode e l’amore fa intuire quanto questa formula nasconda fra le righe (fra i versi) la maledizione nei confronti di una divinità che ha abbandonato chi in lei ha creduto e malgrado tutto ancora crede. Lo stesso finale di strofa (“Dir / entgegen”) può essere interpretato in modo duplice: “incontro a te”, ma anche “contro di te”, in opposizione cioè a un Dio sordo e impotente. Sono gli ebrei, qui, a rivolgersi a Dio, a fiorire, benché sterminati, benché ridotti a nulla, non solo andandogli incontro, ma anche muovendo contro di lui.

Negli ultimi anni le condizioni psichiche di Celan peggiorano ed egli subisce diversi ricoveri coatti in ospedali psichiatrici, anche a seguito di due tentativi di uxoricidio, nel novembre del 1965 e nel gennaio del 1967. Appresa la notizia del suicidio, Emil Cioran, uno degli autori da lui tradotti – nel 1953 Celan aveva curato la versione tedesca, apparsa da Rowohlt, del Précis de décomposition (Sommario di decomposizione) – butta giù il seguente appunto nei suoi Quaderni: “11 maggio – Notte atroce. Ho pensato alla saggia risoluzione di Celan. (Celan è andato sino in fondo, ha esaurito le sue possibilità di resistere alla distruzione. In un certo senso, la sua esistenza non ha niente di frammentario o di fallito: si è pienamente realizzato. Come poeta, non poteva andare oltre; sfiorava, nelle sue ultime poesie, la Wortspielerei [i giochi di parole]. Non conosco morto più patetico e meno triste.)” E in una lettera dello stesso giorno a Mircea Eliade scrive, caustico com’era nella sua indole: “Paul Celan, quel poeta di Cernăuţi che scriveva in tedesco (alcuni critici lo consideravano il più grande poeta tedesco contemporaneo), si è suicidato: si è gettato nella Senna. A volte mi dico che anch’io dovrei prendere una risoluzione simile, così palesemente saggia. Ma non si è nati impunemente tra contadini che si accaniscono a vivere.” Più tardi, sempre nei Quaderni, registrerà un’altra osservazione a proposito di due suicidi, quello di Celan e quello di un suo nipote, precisando: «Per entrambi la morte non poteva che essere una benedizione. D’altronde lo è per tutti, ma non si osa ammetterlo. Il fatto è che la paura ha una missione da compiere, e la compie con una perfezione le cui sole pecche sono i suicidi…».

Per Celan quel tuffo finale dal ponte Mirabeau, tanto celebrato in poesia da Apollinaire, può essere stato davvero, come senza mezzi termini scrive Cioran, una benedizione, il modo ultimo di tirare le somme dell’impossibile rapporto fra una condizione psichica ormai compromessa e un mondo per altri versi altrettanto compromesso, e gretto.

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