Pier Mario Fasanotti
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La luce di van Gogh

Nella parabola di Vincent van Gogh c'è il senso più profondo della vita vissuta in isolamento. La solitudine si trasforma in incomprensione. Ma, almeno nel suo caso, produce capolavori. Che saranno compresi solo dopo la sua morte

Un genio, senza dubbio, ma che si porta appresso un’infinità di pregiudizi e stereotipi. Viveva isolato? No, a parte qualche parentesi. Fa capolavori dettati dall’improvvisazione? No. Patisce perché si sente mediocre? Nient’affatto. Ignora gli altri e cerca assoluto isolamento come Antonio Liguabue? Niente di più sbagliato. Scontroso? Un po’, certamente, ma sa anche essere affabile e persino spiritoso. Ovunque si trovi, riesce a farsi benvolere. Fa amicizia col postino, frequenta e rispetta le prostitute, fa molti autoritratti solo perché non riesce a trovare modelli. Scrive il suo omonimo zio, ingegnere morto nel ’78, figlio del fratello Theo, gallerista di grande prestigio: «La sua estrema modernità anticipa un linguaggio decifrato soltanto decenni dopo».

Vincent van Gogh in vita sua ha venduto un solo quadro, tra le migliaia che ha dipinto, forsennatamente, con puntiglio, ben consapevole della necessità della tecnica, dello scambio di opinioni con colleghi e con l’ambizione di fondare una società di artisti. Fallisce, alla fine rimprovera (con un certo garbo) il fratello al quale ha sempre mandato i suoi dipinti («Ma che vuoi da me?», scriverà nell’ultimo periodo della sua vita). Nessuno vuole i suoi quadri. E Theo, che pur ha valorizzato gli impressionisti, si limita ad accatastare le tele del fratello. Vincent non capisce e soprattutto non tollera i rifiuti. Ed è per questo che, dopo permanenze in ospedali psichiatrici, si tira un proiettile al cuore, a Parigi.

A ricostruire in maniera il più possibile veritiera è proprio l’altro van Gogh, suo nipote, il quale ripercorre meticolosamente le tappe del girovagare del pittore dei girasoli. A comporre le tappe di un genio è Costantino D’Orazio, storico dell’arte e docente, nel libro Il mistero van Gogh (Sperling&Kupfer, 232 pg., 18 euro).

Vincent è figlio di un pastore luterano, e sarà sempre affezionato alla famiglia, una sorta di approdo emozionale. Si sposta frequentemente: Amsterdam, L’Aia, Parigi, e altre località dove cerca un sodalizio con i colleghi o aspiranti pittori. Per due volte si iscrive all’Accademia delle belle Arti. Nei due concorsi finali è l’ultimo. Pare che la decisione di diventare artista la prenda nell’agosto del 1880, quando ha 27 anni. Precedentemente faceva l’impiegato in due gallerie, prima a Parigi poi all’Aia. Nel giro di pochi anni, annota suo nipote, «riesce a farsi cacciare senza che il suo principale si degni di dargli uno straccio di motivazione». Si reca anche a Londra, dove fa l’insegnante. Non riesce a tenersi il lavoro e torna nel continente. Frequenta i missionari del Borinage, una delle zone più povere del Belgio. Aiuta i derelitti privandosi del mangiare. Si ammala, interviene Theo. Alcuni lo accusano di essersi troppo identificato con i minatori e di non aver dato loro conforto morale. Ma Vincent esce dalla religiosità di derivazione paterna. Scrive il nipote: «Non conosce il significato della parola limite, se non per superarlo».

Si allontana dalle miniere e trova una camera presso un sindacalista, a Cuesmes. La sua fantasia artistica non dimentica gli umili e gli offesi dalla miseria. Nasce uno dei suoi capolavori, I mangiatori di patate, un quadro di estrema cupezza e verità. I suoi “modelli” trasudano polvere mista a cenere. Lui li ama.

Il fratello Theo gli fa avere una somma mensile. Scrive Vincent: «Sono diventato per la famiglia una specie di personaggio impossibile e sospetto; qualcuno che non riscuote fiducia e quindi come potrei essere utile a qualcuno?». Ma lo sarà, per sua stessa ammissione, quando, pittore sempre sconosciuto ma provetto dirà che il suo compito è quello di diffondere felicità a chi guarda le sue tele. Per farlo sa di doversi migliorare: studia manuali di disegno e di anatomia, legge le riviste specializzate, visita le gallerie, studia attentamente i capolavori. È consapevole – e lo sarà sempre – di essere un ottimo pittore. Malgrado le denigrazioni. Il primo a criticarlo spudoratamente è il suo amico Anton van Rappard, che scrive: «E osi, con questo metodo di lavorare, richiamarti ai nomi di Millet e Breton? Dai! L’arte è troppo superiore, mi sembra, per trattarla in modo così negligente!». Sono le parole più feroci che Vincent riceve. Disegna scheletri, lo fa con ironia macabra. Annota suo zio: «Lo scheletro irretisce e contagia uomini e donne, mettendoli di fronte alle loro debolezze. Ma lo fa col sorriso sulle labbra».

A Parigi, dove giunge inaspettato e in piena Esposizione Universale (è sorta la Tour Eiffel) non si sente più isolato, entra a far parte di una vasta schiera di intellettuali, con i quali parla, discute e dà il suo personale contributo. È la dimostrazione che Vincent, in un luogo a lui favorevole, non è scontroso. Anzi, gli amici dicono che è molto affabile. Incontra nomi di prestigio: Lucien Pissarro, Louis Anquetin (che lo coinvolgerà in alcune mostre) e Henri de Toulouse-Lautrec, verso il quale mostra un’indubbia e sincera ammirazione. Una modella del famoso artista storpio, racconta che Vincent «si sedeva davanti a noi, guardandoci negli occhi, però partecipava a stento alle conversazioni. Poi si stancava e se ne andava con il suo ultimo lavoro (in quello studio Vincent dipingeva anche, ndr). Ma la settimana seguente tornava e ricominciava tutto il rituale». Van Gogh e Toulouse-Lautrec, scrive lo zio di Vincent, «sono due uomini dalla personalità troppo forte per convivere serenamente, ma riconoscono e rispettano il loro temperamento, facile ad accendersi e inclini a distruggere quello che hanno intorno».

Nel 1967 Vincent scopre la pittura giapponese. Sarà lui stesso a scrivere che porterà il Giappone nel Midi francese, ad Arles. Dopo l’Esposizione Universale il Giappone esce dal suo isolamento: «La spregiudicatezza della composizione, la ricchezza dei toni, l’originalità degli effetti pittorici e la semplicità dei mezzi con cui vengono ottenuti questi risultati ne fanno una moda tra gli artisti e penetrano nei salotti della borghesia più aperta alle novità». Vincent trova il coraggio di abbandonare la cupezza olandese dei suoi primi lavori, “la pittura sofferta”. Scrive: «Ai giapponesi invidio l’estrema limpidezza che hanno tutte le cose presso di loro. Niente è mai noioso e niente sembra essere fatto troppo in fretta».

A Montmartre, al ristorante-cabaret Le Tambourin dove talvolta cena con Toulouse-Lautrec e altri colleghi, Vincent conosce la proprietaria Agostina Segatori, un’italiana con cui avrà una breve relazione. La donna è eccentrica, con il suo cappello di piume rosse. È bella, anche se un po’ strabica. Van Gogh si fida di lei e le consegna alcuni suoi dipinti perché Agostina li venda. Un’altra batosta: la donna chiude il locale per bancarotta. I quadri di Vincent saranno messi all’asta. A lui nemmeno un soldo. Ricaverà ritratti di avventori, li farà vedere a colleghi illustri, tra cui anche Monet e Renoir. Vincent scambia una tela con una di Gauguin ma, come annota suo nipote «l’operazione, malgrado le buone premesse si rivelerà un fallimento». I dipinti dovevano essere esposti in un ristorante, lo Chalet, ma il proprietario ci ripensa convinto che le tele distraggono i clienti. Altra batosta. Gauguin racconterà di aver venduto un suo quadro per cinque franchi, una miseria. Vincent si sente in colpa per quella misera cifra. Anzi si pente della vendita. Nel momento in cui sta per farsi strada nel mondo dell’arte, Vincent «sente il peso della sofferenza del mondo, di cui si ritiene in qualche modo responsabile. Ha un ego smisurato» annota suo zio «che proietta su ogni evento e persona che lo circonda».

È in quel periodo che si autoritrae. Lo fa per denaro (che non riceve). In circa quattro mesi ne dipinge venti. «Sono venti uomini diversi, che in comune hanno solo il pelo rosso e quelle pennellate che partono dal centro e si diffondono sulla tela. In questi quadri usa se stesso come materia attraverso la quale investigare la teoria dei colori, associando con maggiore sicurezza quelli primari, mescolando tinte nuove e proponendo sfondi sempre più articolati».

Vincent “scopre la luce”. E si trasferisce in Provenza. Qui aspetta con ansia l’arrivo di Gauguin. Il pittore alla fine arriva ma, dopo una decina di giorni, la convivenza si deteriora al punto che il presunto amico decide di andarsene. Van Gogh riassumerà la situazione con il famoso quadro della sedia vuota. Poco dopo c’è il famoso taglio dell’orecchio, dato a una prostituta con la quale aveva, tra alti e bassi, convissuto. È comunque il periodo dei dipinti che meglio caratterizzano la sua personalità: un’esplosione di colori, soprattutto il nero, il rosso e il giallo.

Le sue condizioni di salute peggiorano. Il fratello Theo chiede il suo internamento all’ospedale psichiatrico di Saint Remy. Vincent continua a dipingere, traendo spunto dal giardino fiorito dell’ospedale. Grazie a un medico col quale stringe una quasi amicizia, viene dimesso come “guarito”. Raggiunge Parigi, non abbandona colori e cavalletto. Attività frenetica: in 70 giorni dipinge 80 tele. Contrasti col fratello, al quale rimprovera: «Non sei mai riuscito a vendere nemmeno un mio disegno – né per molto né per poco – e in realtà non hai mai cercato di farlo. Capisci, non è che io sia arrabbiato, però bisogna dire le cose come stanno». Vincent arriva a minacciare Theo.

Il 27 luglio del 1890 cade di domenica. Vincent, che nel nelle settimane precedenti si era spostato ad Anversa e in altre località senza ricavare alcun beneficio, raggiunge una piccola fattoria, poi cammina fino a raggiungere un cumulo di letame che serve a concimare la terra. Qui si spara al petto. Non muore sul colpo, si trascina sanguinante fino a una locanda. È la fine.

Per la famiglia van Gogh scompare il parente problematico. Anni prima, per pochissimi franchi, era riuscito a vendere una tela. Una soltanto. Sarà la cognata Johanna a riunire le sue opere e imporre al mercato i tesori colorati di Vincent. Alcuni raggiungono cifre vertiginose. Un solo esempio: i Dodici girasoli superano qualsiasi record di aggiudicazione in un periodo in cui L’adorazione dei magi di Andrea Mantegna viene battuta all’asta per più di otto milioni di sterline. Scrive lo zio di Vincent: «A metà Novecento si sta affermando l’idea che van Gogh sia l’anello di congiunzione tra due secoli, il primo pittore all’avanguardia, che ha anticipato i tormenti delle generazioni successive».

Al funerale di Vincent si radunano alcuni pittori. Uno dei quali è perentorio: «Si è ammazzato per via dello strazio che gli procurava l’impossibilità di vendere i suoi quadri». Il fratello Theo morirà non molti anni dopo. I medici stabiliscono che ha un forte rilievo la depressione. O il rimorso?

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